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Scuole Opawc, tra paura di mostrarsi e orgoglio d’imparare

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di Enrico Campofreda, 3 novembre 2014 – Liberiamo.it

wbresize.aspx 300x177Quando l’occhio meccanico appare e si rivela le giovani, impaurite, girano la faccia verso il muro. Svicolano, quasi fuggono. Infine i volti scompaiono dietro i veli multicolori. Non vogliono farsi fotografare. A nulla valgono le rassicurazioni dell’insegnante: mai e poi mai le immagini appariranno sui giornali locali.

“Sono terrorizzate perché in tante vengono qui senza che padri o mariti lo sappiano“ spiega Latifa Ahmady, una trentunenne madre di tre maschietti e presidente dell’Organization of Promoting Afghan Women’s Capabilities che organizza i corsi.

Siamo a Kalei Jamal, un quartiere di Kabul ovest, dove Opawc ha aperto un centro di formazione per le donne più povere della capitale, comprendente due classi di alfabetizzazione e lezioni teoriche e pratiche di ricamo. Latifa ha una carnagione chiarissima e occhiali da vista dalla montatura essenziale. Confessa: “Condurre quest’attività diventa di giorno in giorno più faticoso.

È una lotta aspra per non gettare la spugna”. Spazi e arredi sono essenziali. Le studentesse vengono accolte in stanze strette e lunghe, con tavoli di legno disposti su due file parallele. Sulle pareti d’un colore che s’avvicina all’ocra spiccano una mappa dell’Afghanistan e un poster con le lettere dell’alfabeto.

 

Nonostante le insegnanti spieghino il motivo della visita le allieve non si rilassano, poche fanno scivolare il ch’adori da sopra la bocca, pur mantenendo un’aria vigile. “Gran parte di loro ha vissuto per anni nei campi profughi pakistani e iraniani. Molte sono di etnìa hazara. Una volta rientrate in Afghanistan non sono potute tornare nei villaggi d’origine perché le loro case erano state distrutte durante i bombardamenti” puntualizza una prof dallo sguardo fiero. Mentre Latifa spiega: “Per queste donne era impossibile raggiungere la nostra sede centrale, perciò abbiamo deciso di aprire una succursale in uno dei più poveri quartieri di Kabul”. L’occhio va a una giovane seduta in prima fila dalle prorompenti pupille, nere come il vestito.

L’insegnante la indica come esempio delle difficoltà vissute dalle allieve della classe. Lei chiede di non rivelare il nome, dichiara ventuno anni e di venire dall’area di Lagman. “Un altro favore…” “Non fotografatemi, voglio continuare a studiare. Se mio padre e i miei fratelli scoprissero che imparo a leggere e scrivere non mi permetterebbero più d’uscire di casa. Forse m’ammazzerebbero di botte…”

Rivela lo stratagemma usato per raggiungere la scuola: “Tutte le mattine aspetto che loro escano, infilo il ch’adori e corro fuori. Cambio sempre percorso per non farmi scoprire e devo camminare molto svelta per arrivare sin qui. Ma non saprei rinunciare.

Tempo fa mio fratello minore s’è insospettito e m’ha seguita. Sono riuscita a seminarlo fra la folla, eppure rientrata in casa m’ha tempestata di domande e gli ho dovuto dire che andavo a prendere lezioni di ricamo per aiutare la nostra famiglia che è senza un soldo. Così l’ho rabbonito“.

L’insegnante puntualizza: “Certi uomini accettano che la donna faccia lavori dentro casa, il corso di ricamo va bene, ma guai a parlare di diritto d’istruzione, la mentalità maschile non l’ammette” e fa un gesto di rabbia. “Conosco paure e affanni delle allieve che rassicuro dicendo di parlare coi parenti maschi. L’ho fatto tante volte e molti li ho anche convinti”.

Non si fa fatica a crederle, queste insegnanti hanno il piglio delle combattenti nate. In fondo all’aula è seduta una donnona con una ragazza magrissima al fianco. Madre e figlia, entrambe a scuola. “Vengo qui tutti i giorni con le mie figlie e non ho paura. Dopo tutto quello che ho passato nella vita non temo più nulla. Finalmente so leggere e scrivere e imparo i miei diritti. Mio marito sa di questa scuola e gli sta bene. Gliel’ho fatto andar bene: se io devo imparare un mestiere ho voluto che anche le ragazze non restassero ignoranti”.

Enrico Campofreda

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