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Le elezioni in Afghanistan e la guerra delle narrazioni.

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Limes – 9/04/2014 di Federico Petroni

210 Carta colori5 500L’entusiasmo occidentale per lo svolgimento delle presidenziali è comprensibile, ma eccessivo per almeno 4 motivi. A Kabul da tempo tutti hanno rinunciato a vincere militarmente: si combatte per la supremazia mediatica.

L’Afghanistan, come tutte le campagne di controinsurrezione, è una guerra di narrazioni. Per narrazione non s’intende la pura e semplice propaganda – nonostante tutti i contendenti vi scivolino, con alterne frequenze – bensì lo sforzo di imporre nella sfera mediatica e nelle convinzioni delle persone la propria versione degli eventi, il proprio messaggio politico.

In Afghanistan, in altre parole, non si combatte per sconfiggere militarmente il nemico. Nessuna delle parti ne ha la forza, la volontà o tutte e due insieme: non si fronteggiano due o più fazioni con l’obiettivo di conquistare la Kandahar di turno. No, la contesa assomiglia piuttosto a una campagna elettorale permanente in cui lo scopo non è bellico ma politico. Ne consegue che la forza venga impiegata – sia dalle ipersofisticate forze occidentali, sia dalle nascenti truppe governative, sia dagli improvvisati guerriglieri – a sostegno della propria narrazione.

Nelle insurrezioni, le operazioni sono ritagliate per massimizzare l’impatto mediatico. Così, tra 2010 e 2011, gli americani con il codazzo occidentale concentravano i loro sforzi in quei distretti chiave (key terrain district, li chiamavano) in cui potevano invertire la tendenza e suscitare speranza nei cuori e nelle menti della gente. E così gli insorti inscenano ancora oggi attacchi il cui unico scopo è cementare negli afghani la certezza dell’insicurezza.

Dal 2013, gli Stati Uniti hanno deciso che la narrazione doveva cambiare: non più invertire la tendenza e frenare l’avanzata dei taliban ma aiutare gli afghani a provvedere alla loro sicurezza. In questo modo, le forze locali sono state progressivamente poste al comando di tutte le operazioni e l’enfasi è stata posta sul sostegno agli afghani in battaglia e sugli sforzi per creare una logistica almeno sufficiente.

L’ultima incarnazione di questa narrazione si è palesata con le elezioni presidenziali di sabato 5 aprile. I risultati preliminari sono attesi per il 24 aprile. Nel caso in cui nessun candidato superi il 50%, si terrà un secondo turno il 28 maggio. La transizione potrebbe arrivare sino all’estate. Al momento non sono noti i risultati parziali ma degli otto candidati i tre più quotati sono Ashraf Ghani, Abdullah Abdullah e Zalmai Rassul.

Nella stampa occidentale dominano alcuni argomenti, eccitati dall’alta affluenza (7,5 milioni sui 12 degli aventi diritto). Con il voto, gli afghani hanno dato prova di grande coraggio, sfidando i taliban. Gli stessi afghani hanno affermato il desiderio di scegliere liberamente il loro futuro. Quello di questi giorni è il primo pacifico trasferimento di potere nel paese da un leader a un altro: sono proclami alimentati da dichiarazioni di alto profilo. “Questa è una vittoria sulla violenza e su tutti quelli che vogliono impedire la democrazia a suon di minacce”, ha detto Thijs Berman, capo degli osservatori dell’Ue a Kabul. “I milioni di uomini e donne che hanno votato testimoniano il coraggio e l’impegno degli afghani nell’esercizio dei propri diritti e nel decidere il proprio futuro”, ha fatto eco Ban Ki Moon dall’Onu.

Le presidenziali sono un passaggio fondamentale per l’attuale campagna di controinsurrezione. Per settimane, se non mesi, la pianificazione militare si è interamente dedicata ad assicurare la massima sicurezza possibile all’evento elettorale. Per l’occasione, tutti i 350 mila soldati e poliziotti addestrati in questi anni sono stati schierati a difesa dei votanti. Specifiche operazioni sono state programmate per questi giorni e per dare la caccia a elementi che potessero disturbare l’appuntamento: nella sola Ghazni, le truppe di Kabul hanno ucciso 42 insorti nel giorno dello scrutinio. Il trasporto delle urne – spesso complicato, viste le molte remote aree montane di cui si compone il mosaico afghano – viene gestito con programmi di sicurezza nazionale. A conferma di come lo strumento militare, in Afghanistan, sia al servizio di obiettivi politici volti ad affermare alcune fazioni su quelle rivali.

Se paragonate a quelle del 2009, queste elezioni sono state un successo. I reclami alla commissione elettorale si aggirano sul migliaio ma comunque non hanno raggiunto la scala di cinque anni fa, quando lo sfidante di Karzai, Abdullah Abdullah, si ritirò dicendosi certo dei brogli, gettando una luce molto negativa sul processo. L’affluenza (58% degli aventi diritto) è stata alta, specie se confrontata con le stime dell’Onu della vigilia (40%). In certe province, questo ha significato per gli elettori compiere delle autentiche prove di coraggio: sporcarsi il dito d’inchiostro – misura volta a evitare che la gente votasse due volte – può costituire un segnale di riconoscimento di fronte agli insorti, che hanno giurato morte a chi si fosse recato alle urne. Negli ultimi due mesi, i taliban avevano condotto 39 attentati suicidi e avevano giustiziato un candidato provinciale assieme a nove suoi sostenitori.
La reazione di taliban e soci è un altro punto a favore di queste elezioni. Nella sola Kandahar, un tempo considerata bastione degli insorti, nel 2009 si verificarono 30 attacchi ai votanti. Oggi nemmeno uno. I nemici di Kabul dicono di aver condotto un migliaio di attacchi nel giorno delle elezioni in tutto l’Afghanistan, mietendo dozzine e dozzine di vittime, mentre il ministero degli Interni afferma di aver respinto solo 140 attentati, con poco più di 20 vittime soprattutto tra polizia ed esercito e 89 uccisi tra gli insorti. La verità probabilmente sta nel mezzo. In ogni caso, non si è verificato nessun evento eclatante: tra i peggiori si può annoverare quanto successo a Kunduz, dove un veicolo che trasportava otto urne elettorali ha innescato un ordigno improvvisato, lasciando per strada tre morti.

Tuttavia, in occasioni come queste si corre un rischio: permettere all’entusiastica narrazione occidentale di gettare una luce interamente positiva su questo evento, servendo agli spettatori su un piatto d’argento la falsa equazione “elezioni=democrazia”. Diversi fattori spingono a prendere con le molle alcune osservazioni e alcuni dati apparsi sui media in questi giorni.

Primo: si è letto di un aumento dell’affluenza del 50% rispetto al 2009 ma non è detto che sia interamente veritiera, se ha ragione Matthieu Aikins dell’Afghanistan Analyst Network e sono state distribuite 21 milioni di schede elettorali su soli 12 milioni di aventi diritto al voto. Il rischio di brogli è sempre presente, in tutte le elezioni, figuriamoci in un paese dove la cultura elettorale è – comprensibilmente – scarsa. Un altro rischio è che gli sconfitti non accettino il verdetto delle urne, anche se di recente i tre principali candidati hanno fugato questo dubbio. Secondo un sondaggio di Gallup, il 70% degli afghani, comunque, non ha fiducia nelle elezioni.

Secondo: l’etnicismo è ancora un fattore determinante nel voto. Non dappertutto, certo, e non sono poche le indicazioni che una larga fetta dei giovani e le persone istruite abbiano prediletto un candidato piuttosto che un altro per il suo programma, specie economico. Così come Rassul è stato votato da una grande parte dell’establishment perché considerato vicino a Karzai. Tuttavia, nelle zone a maggioranza tagika o hazara, la stragrande maggioranza ha votato il tagiko Abdullah, mentre in quelle a prevalenza pashtun si è preferito Ghani, anche perché è l’unico a parlare fluentemente pashto. L’etnicismo è importante perché rischia di perpetuare argomenti molto in voga negli anni passati, che volevano un dominio dei popoli del nord (tagiki, uzbeki e via dicendo) sui pashtun del sud, soprattutto nelle forze armate.

Terzo, i signori della guerra. Se gli hazara hanno votato Abdullah e gli uzbeki Ghani un motivo c’è: questi due candidati si presentavano con l’appoggio di due warlord come Mohammad Mohaqiq (il primo) e Abdurrashid Dostum (il secondo). L’incapacità del sistema politico afghano di mettersi alle spalle l’influenza di figure che in passato si sono macchiate di violenze la dice lunga su quale sia la strada per ottenere visibilità politica nel paese.

Quarto, la situazione della sicurezza. Si è scritto che solo 211 seggi sui 6423 sono stati chiusi per timore di attentati. Vero, ma questo dato riguarda solo le postazioni chiuse alla vigilia del voto. Mesi fa, la commissione elettorale aveva inizialmente previsto 7168 seggi: ciò significa che ben 956 postazioni non sono state aperte, il 13% circa di quanto si era previsto. La mappa dei seggi rimossi dalla lista svela dettagli sia positivi sia negativi. L’est si conferma la zona dove l’influenza dei taliban resta più forte. Nella provincia di Nangarhar, ben 115 postazioni sono state chiuse, comportando una perdita di 166 mila voti potenziali, con gli insorti che hanno offerto 5 dollari a chi avesse consegnato la scheda elettorale. Ghazni ha perso 60 seggi e 105 mila voti potenziali. La provincia di Farah, nell’ovest e sotto responsabilità italiana, ha perso il 27% delle postazioni; quel che è peggio, questo dato ricalca quello del 2009 (29%), dimostrando come a cinque anni di distanza non tutti gli sforzi per espandere le aree di sicurezza hanno avuto successo.

Quinto, cosa farà il nuovo presidente? La nuova classe dirigente dovrà capire quanto si potrà smarcare dall’eredità di Karzai, negoziare l’intensità dei rapporti tra Kabul e la comunità internazionale, contenere lo spreco degli aiuti internazionali, avviare un processo di pace il più inclusivo possibile.

Su questa base si misurerà il vero successo e il vero grado di svolta di queste elezioni. Non sulla base di quanto spazio accordiamo alle narrazioni contrapposte in questa eterna lotta per l’Afghanistan.

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