Skip to main content

L’Afghanistan delle donne è chiuso dietro le sbarre.

|

Il Manifesto – 30 maggio 2014,  Maria Grosso

Incontri. «No burqas behind bars», Nima Sarvestani regista iraniano residente in Svezia, racconta il suo film.
Bar­riera su bar­riera. Lo sguardo che sbatte con­tro il reti­co­lato fitto di stoffa del burqa e ancora con­tro quello metal­lico della grata del fur­gon­cino che le tra­duce in car­cere. Al campo, pri­gione di Takhar, Afgha­ni­stan, le aspet­tano le altre: tra casu­pole e stanze con­di­vise, un cor­tile pul­lu­lante di figli scalzi, di fili intrec­ciati di panni stesi, di baci­nelle per lavare, una sezione fem­mi­nile (40 unità), una maschile (500).

Eppure que­sta sog­get­tiva obso­leta e costrin­gente, con­fine fra il nulla e il deserto, può essere per­ce­pita para­dos­sal­mente come oasi di libertà e di quiete (dove è per­sino pos­si­bile libe­rarsi del burqa), in un Paese in cui se una donna fugge di casa per sot­trarsi a un matri­mo­nio for­zato e/o a un marito vio­lento, la legge, invece di sup­por­tarla, la con­si­dera col­pe­vole di «cri­mine morale», puni­bile con pene fino a 15 – 16 anni.

In que­sti mean­dri deva­stati di realtà si è inol­trato Nima Sar­ve­stani, regi­sta ira­niano resi­dente in Sve­zia che ha accolto le sto­rie di Sima e Naji­beh, entrambe spose a soli dieci anni (il marito vio­lento della prima con­ti­nua a pic­chiarla durante le visite in car­cere, la seconda lotta per non essere costretta a ven­dere il figlio, cui rie­sce a stento a pro­cu­rare il latte), o di Sara, la pre­senza più con­sa­pe­vole – tal­volta nar­ra­trice dei trac­ciati delle altre – che ha rifiu­tato un matri­mo­nio com­bi­nato ed è fug­gita con un uomo ora recluso nella sezione accanto, ma che pure non rie­sce a imma­gi­narsi un futuro al di là della spe­ranza che lui la sposi e la sot­tragga all’ira dei suoi, pronti a ucci­derla. Tra spi­rali di filo spi­nato e fram­menti di cielo, No bur­qas behind bars le segue nella loro bat­ta­glia quotidiana.

«Sono di ori­gini ira­niane. Il mio paese e l’Afghanistan hanno molte affi­nità, non solo lin­gui­sti­che. Così seguo da tempo quanto avviene lì, sin da quando il potere era nelle mani dei tale­bani» rac­conta Nima Sarvestani.
Infatti non è la prima volta che gira in Afghanistan.

Nel 2008, a Mazare-Sharif, ho rea­liz­zato un altro docu­men­ta­rio in una Safe House, un luogo dove le donne che fug­gono dalla vio­lenza tro­vano rifu­gio. È stato il primo con­tatto, due anni di lavoro che mi hanno fatto com­pren­dere come coloro che rie­scono ad avere accesso a que­ste case siano le più for­tu­nate, per­ché molte ven­gono arre­state prima che ciò avvenga. Da que­sta espe­rienza si è fatto strada il desi­de­rio di con­ti­nuare a inda­gare i «cri­mini morali» e le loro con­se­guenze, ed è nato que­sto film nel car­cere di Takhar.

 

Deve essere stato arduo otte­nere i per­messi per girare in prigione.
Male­det­ta­mente dif­fi­cile! Ci sono stati sei mesi di trat­ta­tive dalla Sve­zia; e dal momento che ave­vamo già lavo­rato in Afgha­ni­stan siamo riu­sciti ad averli. Men­tre gira­vamo però ci siamo scon­trati ogni giorno con chi voleva fer­mare le riprese. Come il diret­tore della pri­gione, che temeva che le donne rive­las­sero che era molto duro con loro. Infatti, dopo cin­que set­ti­mane, siamo stati costretti ad andar via. For­tu­na­ta­mente, la volta suc­ces­siva, abbiamo sco­perto che il diret­tore era cam­biato (lo stesso uomo del film, che sot­to­li­nea come i matri­moni for­zati siano l’esito di trent’anni di guerra, di carenze edu­ca­tive e dell’ignoranza, ndr). È stato molto gen­tile, ha capito quanto fosse impor­tante andare avanti per il futuro di quelle donne.

Inso­ste­ni­bile è che sia lo Stato a costruire intorno a loro un oriz­zonte lega­liz­zato di oppressione.
La Shari’a, la legge che vige in Afgha­ni­stan, come sap­piamo, è atro­ce­mente con­ser­va­trice e patriar­cale, oltre­ché por­ta­trice di una reli­gio­sità oscu­ran­ti­sta. Senza contare la gran­dis­sima cor­ru­zione nel Paese, a svan­tag­gio dei diritti umani. Certo, ci sono stati cam­bia­menti posi­tivi con la caduta del regime dei tale­bani, ma quanto con­cerne le donne, molte con­ce­zioni e leggi sono ancora aber­ranti. Oggi l’unica via d’uscita sono le Safe House, però in numero insuf­fi­ciente rispetto al fenomeno.

Vedendo il film, emerge come sia fon­da­men­tale la sua dimen­sione di denun­cia in ambito inter­na­zio­nale. E si spera che que­sta espe­rienza abbia inciso sulla vita di que­ste donne, che siate stati in grado di aiu­tarle. Soprat­tutto penso a Sara, sem­pre più consapevole.
Sì, Sara era pronta. Nel finale, al rila­scio, l’abbiamo lasciata con sol­lievo al Women’s Cen­ter. Ma anche lì l’unico modo che le offri­vano per sfug­gire al «destino» di tor­nare dai suoi, era di spo­sare un uomo anziano con due mogli, cosa cui si è oppo­sta. A que­sto punto le restava solo l’incubo: il con­fronto con la sua fami­glia (che poi era quella degli zii, avendo lei perso sia il padre nella guerra con l’Unione Sovie­tica, sia la madre).

Tor­nando da loro, la sua vita era in totale peri­colo e noi lo sape­vamo. Infatti il vil­lag­gio ha comin­ciato a pres­sare i fami­liari per­ché la ucci­des­sero e i suoi cugini l’hanno segre­gata. Lei però aveva un cel­lu­lare che io le avevo dato al rila­scio. Mi ha chia­mato. Così ho avvi­sato il diret­tore della pri­gione, che ha agito. A quel punto è stata man­data in una Safe House e nel frat­tempo noi l’abbiamo invi­tata alla prima del film, un anno fa. Allora ha otte­nuto il visto. Non è più tor­nata in Afgha­ni­stan e ha chiesto asilo in Sve­zia. Non si può dire quanto la sua vita sia cambiata.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *