Kabul sotto il fuoco e senza governo.
Il Manifesto di Giuliano Battiston – Kabul, 3.12.2014
Afghanistan. Sotto il tiro di ben 11 attentati in due settimane il Paese, grazie al regalo Usa, resta spaccato tra il neopresidente Ghani e il quasi premier Abdullah. Intanto resta in alto mare l’annunciato negoziato con i talebani. La missione Isaf/Nato finisce ufficialmente a dicembre.
In questi giorni si muore facilmente a Kabul. Più del solito. Qualcuno prova a tenere il conto degli attentati: 11 nelle ultime due settimane. «Io ci ho rinunciato», dice sconsolato Rafat, che «presidia» distrattamente l’ingresso di una fondazione culturale che vive grazie ai fondi degli stranieri, in questi giorni l’obiettivo preferito dei Talebani. La fondazione è a un centinaio di metri dal Comando centrale della Polizia, sul viale Salang Wat. Un attentatore suicida è riuscito a infilarsi anche qui, in uno dei luoghi più protetti di Kabul. Puntava al capo della polizia, al generale Zahir Zahir, ma è riuscito ad uccidere solo un suo braccio destro.
Dopo la recente serie di attentati, il generale è stato comunque silurato dal neo-presidente, Ashraf Ghani.
Il nuovo governo si è insediato il 29 settembre, dopo una lunga contesa post-elettorale tra i due candidati alla presidenza, l’ex ministro delle Finanze Ashraf Ghani e l’ex ministro degli Esteri Abdullah Abdullah.
Ma il governo ancora non c’è. Per molti, il deterioramento della sicurezza dipende dalla latitanza della nuova amministrazione. «Si procede di annuncio in annuncio, ma i ministri ancora non sono stati scelti. Questo ritardo danneggia il paese. Abbiamo bisogno di misure urgenti per rilanciare l’economia, combattere la corruzione, contrastare le forze anti-governative».
Ne è sicura Shinkai Karokhail, dal 2005 deputata della Wolesy Jirga, la Camera bassa del Parlamento, e fondatrice dell’organizzazione non governativa Awec (Afghan Women’s Educational Centre). Abita in una casa luminosa di Qart-e-Seh, un tranquillo quartiere residenziale a ovest della città. Proprio qui sabato scorso un commando di tre Talebani ha assaltato la guesthouse di una Ong californiana, Partnership in Academics and Development, uccidendo Werner Groenewald – pastore cristiano del Sudafrica accusato di proselitismo dai barbuti–, suo figlio Jean-Pierre, 17 anni, la figlia Rode, 15. Quando mi accoglie nel suo studio, Karokhail sta finendo di discutere con due uomini della National Directorate of Security, i servizi di sicurezza. Le sono arrivate minacce di morte. Pochi giorni fa una sua collega, la deputata Shukria Barakzai, ha subito un attentato. Si è salvata solo grazie alla jeep blindata.
Il presidente Ashraf Ghani e il quasi «primo ministro» Abdullah Abdullah non si piacciono, ma sono stati costretti a coabitare in un governo di unità nazionale: «Regalo di John Jerry», ironizza Shinkai Karokhail. Dopo il ballottaggio del 14 giugno Ghani e Abdullah si sono scambiati a lungo reciproche accuse di frode.
Le cose rischiavano di mettersi male. O almeno così qualcuno ha voluto far credere. Così il segretario di Stato americano è planato a Kabul e ha imposto questo esperimento di ingegneria istituzionale: altrimenti niente soldi. «Il governo di unità nazionale ha risolto un problema, ma rischia di crearne molti di più», sostiene Karokhail. È una decisione presa dall’alto, dietro le quinte, che delegittima un processo elettorale già fortemente condizionato dalle frodi. «La gente si aspettava che dalle urne uscisse un vincitore e uno sconfitto. Ma Kerry ha fatto sì che anche lo sconfitto finisse per vincere». Il rischio, paventato dalla deputata come da altri, «è che Ghani e Abdullah non riescano a elaborare una strategia comune».
Anche per Thomas Ruttig il nuovo governo è il frutto «di una grave crisi istituzionale e danneggia fortemente la percezione delle istituzioni democratiche, perché nessuno può essere sicuro che il suo voto abbia davvero contato». Condirettore dell’Afghanistan Analyst Network, tra i più accreditati centri di ricerca di Kabul, Ruttig è forse lo straniero che meglio conosce questo paese. A differenza di Shinkai Karokhail, non ritiene scontato che Ghani e Abdullah finiscano per litigare. O che rinuncino all’ambizioso piano di riforme per combattere la corruzione e rendere più efficiente la macchina statale. «È vero, sono entrambi sotto pressione da parte dei rispettivi alleati, i quali chiedono posti chiave come ricompensa del sostegno nella fase elettorale. Ed è vero che tanta gente rischierebbe di perdere molto, se il governo decidesse di combattere seriamente la corruzione. Ma i due potrebbero finire con lo spalleggiarsi a vicenda, ottenendo una sorta di legittimità post-factum». Occorrerà del tempo, comunque, prima di capire «se la retorica delle riforme diventerà azione di governo».
Per ora, non sono stati capaci di trovare un accordo sui ministeri più importanti. Dovevano farlo in tempo per la conferenza di Londra (vedi articolo a fianco), così da convincere la comunità internazionale che il nuovo governo è affidabile ed efficiente, tanto da meritarsi altri quattrini, ma niente. Troppe le divergenze. «Annunceremo la formazione del nuovo Gabinetto entro 2–4 settimane», hanno dichiarato i due il 30 novembre, nell’ennesima conferenza stampa congiunta. «Il guaio è che Ghani è un uomo fortemente accentratore. In queste poche settimane di governo è voluto correre dappertutto», spiega Nargis Nehan, che con Ghani ha lavorato a lungo, quando lui era ministro delle Finanze.
La direttrice dell’organizzazione Equality for Peace and Equality si riferisce ai viaggi di Ghani in Arabia Saudita, Cina, India, Pakistan. Dove il successore di Karzai ha provato a chiedere soldi, ora che gli occidentali stringono la borsa, e un sostegno per convincere i barbuti islamisti a sedersi al tavolo negoziale. «Ma prima di riaprire il negoziato il governo deve recuperare credibilità, agli occhi degli stranieri e della stessa popolazione afgana. Inutile negoziare se si è troppo deboli», sostiene Nehan.
Il dossier sul quale probabilmente Ghani e Abdullah troveranno maggiori punti di frizione è il negoziato di pace. «Recentemente Ghani ha definito i Talebani come ‘opposizione politica’, mentre per Abdullah rimangono i ’nemici dell’umanità’. È evidente che le prospettive sono molto diverse, forse incompatibili”, sostiene Nargis Nehan, per la quale «è importante che non si lavori solo per un accordo politico, ma su un più ampio processo di pace, che coinvolga la popolazione». Thomas Ruttig vede la questione in modo diverso: «Li abbiamo intervistati entrambi, ed entrambi hanno riconosciuto la necessità di una soluzione politica».
Lo ha fatto anche Abdullah, che fa capo alla corrente politico-militare a prevalenza tajika del partito Jamiat-e-Islami e dell’ex Alleanza del nord, tradizionalmente ostile ai Talebani. «Abdullah è un diplomatico con molta esperienza.
Sa che le soluzioni politiche sono una buona opzione. Certo, dovrà mantenere una certa retorica anti-talebana all’interno del suo campo», spiega Ruttig. Quanto a Ghani, può essere facilitato: «È un pashtun, questo non lo rende un amico dei Talebani, ma gli permette di comprendere meglio ciò che dicono e vogliono. È un fatto positivo, perché a volte ho la sensazione che i gruppi del nord non ci riescano molto bene».
Prima che il nuovo governo afghano e i Talebani si intendano davvero, ci vorrà molto tempo. «Non mi aspetto nessuna pace per ora», dice Rafat, amareggiato, prima di accendere la stufa a legna.
Lascia un commento