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Afghanistan. L’utopia di smeraldo, tra pericoli e illegalità.

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Anna Toro – 10 Aprile 2014 – Osservatorio Iraq-Medioriente e Nordafrica

Sepolto nel cuore del paese, nelle miniere del Panjshir che fu la roccaforte dell’eroe nazionale Massoud, si nasconde un autentico tesoro, che potrebbe contribuire ad aiutare il popolo afghano a risollevarsi e a uscire dalla povertà: lo smeraldo.

“Un miracolo geologico”. Così questo suggestivo documentario, intitolato “The Hidden Gems” e diffuso dalla Journeyman Pictures, definisce l’Afghanistan e il suo sottosuolo.

Un paese dotato di una ricchezza che, se adeguatamente sfruttata, potrebbe generare miliardi di dollari; un contenitore pieno zeppo di oro, ferro, rame, carbone, metalli rari e pietre preziose che potrebbe facilmente portare l’Afghanistan a divenire “l’Arabia Saudita del minerale, e lasciarsi alle spalle l’incubo della guerra”.

Se tra le pietre preziose a fare la parte del leone è lo smeraldo afghano, già apprezzato in tutto il mondo per il suo colore cristallino e la sua bellezza, attraverso il viaggio del francese Raphael da Kabul al Panjshir scopriamo, però, che le cose tuttavia non sono così semplici.

I pericoli della guerra e della violenza, insieme a un’industria dell’estrazione completamente assente e nessuna forma di tutela o regolamentazione del settore, rendono quel sogno di ricchezza collettiva e autonomia economica ancora molto lontano.

Solo per raggiungere le miniere, Raphael deve percorrere una strada di 150 chilometri, attraversando zone tutt’oggi sotto il controllo di tribù, talebani e signori della guerra. E infatti, per un occidentale sarebbe impossibile senza l’ottenimento di vari permessi, raccomandazioni, e senza l’aiuto e l’accompagnamento di persone del posto.

Arrivato alla meta, prima nel villaggio minerario di Khenj, poi nelle miniere vere e proprie a 3mila metri d’altitudine, il commerciante francese scoprirà un mondo fatto di miseria, lavoro improvvisato e pericoli mortali. Ma anche di caparbia determinazione, perché “anche un solo smeraldo di qualità può cambiarti la vita”.

Il business, infatti, è quasi completamente al di fuori del controllo dello Stato e gran parte delle miniere sono informali, eppure ogni giorno, i circa 300 minatori presenti scavano nei tunnel, lunghi fino a 100 metri, senza alcun rinforzo e protezione.

Lavorano notte e giorno con turni massacranti, e il pericolo è sempre presente, ma non hanno scelta: è in fondo ai cunicoli che sono nascoste le pietre.

A rischiare maggiormente sono gli “artificieri”, che preparano alla bell’e meglio gli esplosivi utilizzando polvere recuperata dalle munizioni. Il governo ha vietato di usare la dinamite, per il rischio che finisca nelle mani dei talebani, ma senza esplosivi è impossibile rompere la roccia. Così, gli incidenti sono molto frequenti, e i soccorsi poco agevoli, dato che la clinica più vicina è a più di 4 ore a piedi.

Peccato però che, con un metodo di estrazione così arcaico e improvvisato, gran parte del prodotto venga sprecato. A causa delle cariche “artigianali”, gli smeraldi finiscono frammentati in minuscoli pezzi, tanto che “si stima che circa il 75% del valore del smeraldo venga perso nell’esplosione”. Eppure si continua in questo modo, sperando nella fortuna.

Sempre andando avanti col documentario, scopriamo infatti che in Afghanistan il business privato dello smeraldo ha meno di 40 anni e che l’industria è, come si era già intuito, tutt’altro che strutturata.

Fu proprio il generale Massoud a sviluppare il commercio di pietre preziose per finanziare il suo sforzo bellico contro il regime sovietico prima, e contro i talebani poi, e intanto lo smeraldo afghano ha cominciato a farsi un nome in tutto il mondo.

Tutt’oggi rimane l’unica fonte di ricchezza della provincia, generando circa 50 milioni di euro l’anno, di cui allo Stato non entra nulla, dato che non è mai riuscito a regolamentare il settore. E se ufficialmente, le pietre preziose esportate sono tassate al 27%, l’ 80% di esse lascia il paese illegalmente, finendo spesso per essere contrassegnate come colombiane o brasiliane. Inoltre vengono lavorate in Pakistan, recuperando lì e non in Afghanistan buona parte del loro valore, fino ad essere vendute a prezzi altissimi a Mosca, Dubai o Parigi.

Insomma, per ora sono in pochi personaggi ben noti – alcuni li incontriamo nel corso del documentario – ad approfittare di questa ricchezza potenzialmente enorme. Ci si chiede se, con le potenze internazionali pronte a lasciare il paese e a chiudere il rubinetto degli aiuti, il nuovo governo saprà cogliere la sfida.

E intanto, un terzo della popolazione afgana vive ancora al di sotto della soglia di povertà.

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