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Afceco: l’importanza dell’istruzione per ritrovare l’ottimismo della vita

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Da LIBRERIAMO.IT – 22.10.2014 – Articolo di Enrico Campofreda

Andeisha Farid, fondatrice e presidente dell’associazione Afceco, gestisce assieme al marito Jamshid e ad alcune volontarie due orfanotrofi. Uno è maschile (ne abbiamo parlato qualche giorno addietro in questo articolo), l’altro femminile. Le strutture offrono vitto, alloggio, sostegno e istruzione a giovani sino a diciannove anni d’età rimasti senza nessuno al mondo.

Siamo a Kabul in Afghanistan, dove la comunità internazionale convoglia 15,7 miliardi di dollari l’anno, con punte fino a 36 miliardi, come contraltare alla guerra introdotta dalla Nato dall’ottobre 2001. Ma in questi tredici anni né Afceco, né Ong afghane libere da rapporti con l’apparato governativo hanno ricevuto un solo dollaro di finanziamento.
L’immenso flusso di denaro giunge alla non limpida classe dirigente dell’amministrazione centrale e di quelle provinciali. Da lì si dipana nei mille rivoli di spartizioni che mai producono effetti benefici per la popolazione sotto forma di ausili reali. Nessun servizio è sorto da questi aiuti che sostengono esclusivamente politici e potentati locali, primi fra tutti i sempiterni signori della guerra.

 

Nel 2012, in piena enfasi di propaganda sulla democratizzazione della nazione lanciata dal presidente Karzai, gli orfanotrofi di Afceco hanno dovuto subìre una fatwa (editto religioso) col quale rischiavano la chiusura forzata. L’indice puntato sulla struttura l’accusava di diffondere confessioni eretiche e avviare le ragazze alla prostituzione. Proprio così! Farid, conosciuta in molti Paesi esteri per l’impegno verso i giovani che gli è valso riconoscimenti e premi, ha vissuto momenti durissimi. Ricorda: “L’anno scorso abbiamo cancellato ogni manifestazione pubblica per evitare pretesti che potessero costarci blocchi e censure.

Il governo non ha mosso un dito in nostra difesa, il Ministero dell’Istruzione prendeva per buone le voci infamanti dei fondamentalisti e l’intero nostro lavoro era in pericolo”. Un’opera faticosa sostenuta da volontari e benefattori internazionali (dall’Italia dal Centro Sostegno Donne Afghane e dall’onlus Insieme si può) che cerca di ricostruire la devastazione prodotta dalla guerra civile e proseguita dalla missione Isaf.

Lo spiega egregiamente l’attivista Maryam: “Un aspetto che chi osserva le vicende afghane fa fatica a cogliere è la distruzione dello spirito della gioventù. Lo sguardo esterno si sofferma sulla devastazione visibile: infrastrutture, strade, tessuto economico. Assieme a questi è stato annientato il futuro dei giovani, oscurato l’ottimismo della vita, iniettata una palpabile diffidenza accresciuta dalla sfiducia nel prossimo, dal coetaneo sconosciuto al compagno di studi”.

L’individualismo sfrenato che il sistema del capitale porta in sé, elevato all’ennesima potenza del vivere assoggettato alla sopraffazione. Questo il giovane impara nella quotidianità e lo fa suo. Il lavoro nella sezione femminile, che per la normative vigente deve sorgere in un edificio distinto da quello maschile, segue un’impostazione esistenziale e didattica. Lo raccontano due assistenti delle insegnanti.
Dice Afsane: “Con queste ‘signorine’ devo tenere l’attenzione altissima. È un’enorme responsabilità seguire tutte le loro problematiche. Le ragazze più grandi si scontrano per vari motivi, così nelle nostre chiacchierate di chiarimento cerco di mediare fra le ragioni di tutte”.

La collega Farzane sottolinea: “L’importante è far comprendere che l’obiettivo primario è lo studio, grazie al quale avranno strumenti per inseguire l’emancipazione. Dopo la vicenda della fatwa, nel quartiere nessuno vede di buon occhio l’orfanotrofio. La gente ha paura dei fondamentalisti, delle possibili violenze. Molti sono contrari a utilizzare tempo e denaro per istruire le ragazze che potrebbero diventare insegnanti, medici o addirittura parlamentari. Un pericolo per gli usi e costumi tradizionali. Noi andiamo avanti egualmente, la cultura è un’arma insostituibile. Per principio non sosteniamo la separazione delle attività didattiche in classi maschili e femminili, però negli ultimi tempi siamo state costrette a farlo. Proseguiamo così “. Non senza difficoltà e pericoli.

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