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Vite Preziose dell’Afghanistan: le donne salvate da l’Unità.

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Di Cristiana Cella – 11 giugno 2013 – L’Unità

3003797428Samira ha 24 anni, da due lavora per Hawca, dopo l’Università e il praticantato. Sadaf ne ha solo 21. Belle, minute e straordinariamente determinate, sono loro le avvocate che difendono le donne del progetto Vite Preziose, sostenuto grazie anche al contributo delle lettrici e dei lettori de l’Unità.

Le incontro negli uffici dello shelter, la casa protetta. «Sono molto felice di poter aiutare le donne del mio Paese ma è un lavoro difficile e rischioso. Dobbiamo resistere a molte pressioni», dice Samira.

Uscire ogni mattina per andare a lavorare è una scommessa, anche contro la morte. Le sfide che devono affrontare sono quotidiane come le minacce, in ogni momento del loro lavoro, che coinvolgono spesso anche le loro famiglie.

Arrivano soprattutto dai mariti delle assistite e dai loro parenti. Pretendono che Hawca (la onlus a a cui fa capo Vite Preziose per il sostegno delle donne afghane) abbandoni la causa e restituisca il mal tolto, ossia la moglie, che hanno massacrato.

A volte si tratta di veri e propri commander, uomini che hanno potere e armi. «Capita spesso – continua- di scappare dal tribunale e girare per ore, in macchina, per seminarli». I tribunali stessi sono luoghi ad alto rischio. Non esiste nessun posto sicuro, nemmeno una stanza, in cui l’avvocata e la sua cliente possano aspettare il loro turno.

C’è molta confusione, un via vai di gente, tra i quali si possono confondere gli aggressori. Una volta, per sfuggirli, racconta Sadaf, si sono nascoste nella cucina del tribunale. Per chi difende i diritti delle donne in Afghanistan non c’è protezione. «Il problema della nostra sicurezza- dice Selay Ghaffar, direttrice di Hawca- come attivisti dei diritti umani, è molto grosso. Ne discutiamo spesso con le altre organizzazioni afghane e internazionali, abbiamo chiesto almeno una protezione temporanea, nei momenti critici, ma Governo e Istituzioni non vogliono prendersi nessuna responsabilità».
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Guardie del corpo non se le possono permettere, è già difficile pagare quelle che difendono lo shelter. Della polizia non possono fidarsi. Il più delle volte, i poliziotti sono legati ai signori della guerra, anche ai talebani, sono coinvolti in rapimenti e stupri. Le donne che si rivolgono a loro, denunciando violenze, sono spesso vittime di ulteriori abusi, vengono riportate dai loro aguzzini o finiscono in carcere, pratica in allarmante aumento negli ultimi 18 mesi.

IL PROGETTO DI HAWCA
Hawca sta portando avanti un progetto di training per la polizia sui diritti delle donne. Ma ci vorrà tempo per avere dei risultati. Difficile quindi che possano proteggere le avvocate. Un mestiere e un ruolo poco o per nulla rispettato nel paese, soprattutto se praticato da donne. Difficile anche farsi ascoltare in tribunale. Non resta che proteggersi da sole, inventando strategie per ridurre i rischi, come abbassare la tensione negli scontri con le famiglie delle vittime.

 

Al di là della sicurezza personale, far applicare la legge in Afghanistan è una sfida complessa. Le leggi che proteggono le donne non sono sostenute dallo Stato, e, di conseguenza, poco applicate. In pratica ogni giudice ha la sua interpretazione, fa di testa sua. Una testa misogina e profondamente ostile ai diritti delle donne. Il sistema giudiziario è occupato in gran parte da fondamentalisti, con lo stesso credo dei talebani, oltretutto incompetenti, che fanno carriera in virtù dei legami personali col potere.

Legge tribale e sharìa, sono sempre più spesso applicate anche a causa della corruzione dilagante. La giustizia costa troppo, per ogni pratica serve una tangente. La gente non può permetterselo e si rivolge alla Jirga o alla shura, le assemblee locali dei leaders anziani, per risolvere le controversie, comprese quelle che riguardano le donne. E l’impunità dilaga. La legge Evaw, per l’eliminazione della violenza contro le donne, una delle poche conquiste ottenute, è entrata in vigore, per decreto presidenziale, nel 2009.

Secondo un rapporto di Una,a del 2012 è ancora troppo raramente applicata, nonostante le battaglie delle organizzazioni delle donne. «Questa è l’unica legge che protegge i diritti delle donne- spiega Sadaf- ed è per noi un’arma indispensabile per farli rispettare». Ma, ilò mese scorso, anche quest’unica garanzia è stata messa in discussione e rischia pericolosi emendamenti. Il decreto è stato portato in Parlamento il 18 maggio, su iniziativa della deputata Fawzia Kofi. L’intento dichiarato era quello di farlo trasformare in legge e di rendere questa conquista più solida. Ma molte Ong, come Hawca, non sono d’accordo. H

anno cercato in tutti i modi di evitare che la legge approdasse in Parlamento per il timore che venisse respinta o manipolata. Il dibattito è infatti degenerato, sospeso e rinviato, dopo soli 15 minuti, per le violente rimostranze dei parlamentari che la volevano affossare, come anti islamica. «Sono, in maggioranza, signori della guerra misogini e loro stessi, spesso, autori di abusi contro le donne- afferma Selay- alle quali negano l’accesso alla giustizia. Quello che è successo mostra la vera faccia del nostro Parlamento».
Samira e Sadaf continueranno lo stesso a combattere. Sono forti e tenaci ma il loro lavoro rischia di diventare ancora più difficile. Scappano via, hanno fretta, le aspetta un’udienza. Shafiqa ha 30 anni, capacità diplomatica, autorità e calore umano. Dirige i programmi di assistenza di Hawca. Segue i casi delle donne che si rivolgono a loro, consegna il denaro dei nostri sponsor. Mi accompagna a casa di Manizha, la giovane donna, seviziata dal marito, che i nostri lettori continuano ad aiutare. Manizha è cambiata in questi mesi.

È ancora fragile ma ha voglia di parlare e i suoi desideri cominciano a farsi spazio, oltre la disperazione. Discutiamo a lungo, con lei e con suo padre Khasan, seduti sui tushak, lunghi cuscini fiorati posati sul pavimento, coperto di tappeti, beviamo infinite tazze di tè. La stanza è luminosa e ordinata, Manizha, che ha ancora sul viso le cicatrici del suo orribile passato, fisicamente si è ripresa. Ma, ancora, mentre parliamo, quando si toccano argomenti difficili, si scioglie in lacrime. Non sa darsi una spiegazione per quello che è successo. Per i primi tre mesi Faruq era stato un buon marito.

«Un giorno – racconta Manizha, ha visto un video in tv. Un uomo teneva la moglie segregata in cantina, la torturava, le strappava le unghie. L’idea gli è piaciuta, ha detto che lo avrebbe fatto anche lui. È lì che tutto è cominciato». Forse, ipotizza Khasan, sconsolato, erano scontenti di lei, del suo lavoro. Il divorzio, ottenuto nella jirga in cambio del perdono della ragazza, non è una garanzia. Queste storie, qui, si portano dietro strascichi di paura e di odio. Il marito è un uomo potente a Ghazni e potrebbe arrivare da un momento all’altro a riprendersela con la forza. Khasan è deciso a farle scudo col suo corpo, la difenderà a costo della vita.

Ma non è questa la soluzione. Shafiqa viene qui spesso, per convincerlo a permettere che la figlia viva al sicuro e possa studiare allo shelter di Hawca. Khasan scuote la testa. Lui sa che lo shelter è un buon posto. Ma qui la gente crede che sia un luogo d’infedeli o peggio di prostituzione. «Cosa direbbero di me? Di un padre che non è in grado di prendersi cura di sua figlia o peggio che vuol fare soldi con lei?». Shafiqa è paziente, è sicura che riuscirà a fargli cambiare idea. Khasan sta pagando molto per la sua scelta coraggiosa. È solo. Per i suoi fratelli è diventato un nemico perché ha permesso il divorzio della figlia, gettando la vergogna su tutti loro.

E Manizha si sente in colpa per la guerra di famiglia. Si sente fuori posto, rattrista tutti con la sua sfortuna. Non può uscire di casa, per sicurezza, e si impegna nei lavori domestici, per non pensare, dice con un filo di voce. Il divorzio, spiega Shafiqa, non è una condanna. Potrà rifarsi una vita. «Ieri – racconta il padre – è venuto qui un uomo, voleva sposarla, ma era vecchio e mi sono rifiutato. Questa volta dovrò essere certo che si prenda cura di lei».

Adesso è Manizha a scuotere la testa. Lei ha altri programmi. Li spiega con decisione, muovendo in fretta le mani, parlando a raffica. Per adesso, di mariti, non vuole più saperne. Vuole riprendere a studiare, diventare capace di mantenersi. Poi si vedrà. Shafiqa l’appoggia; andare a scuola le farebbe bene. Khasan ha altri 5 figli, guadagna 30-50 afghani al giorno, meno di un dollaro.

Ma con l’aiuto degli sponsor forse possono farcela. Khasan riflette un attimo, in silenzio, sulla tazza di tè, Manizha segue attenta la discussione. Con un sospiro ammette: «Sì, io sono pronto ad accompagnarla a scuola, ma solo se lei si impegna a studiare». Manizha, lo rassicura, con una marea di parole appassionate. «Khob, va bene. Allora cominciamo domani stesso». Il sorriso di Manizha adesso è gigantesco. Si asciuga le lacrime con il velo. Shafiqa è contenta. Qualcosa almeno lo abbiamo ottenuto. Per oggi basta

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