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“Vite Preziose” dell’Afghanistan: contro donne violenza e impunità.

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L’Unità – 26.9.20123 – Articolo di Cristiana Cella

Mi piacerebbe che gli aggiornamenti, arrivati da Kabul, fossero tanti ‘lieto fine’. Ci raccontano, invece, una guerra quotidiana, continua, in cui ci sono vittorie importanti, grandi e piccole, ma anche arretramenti, nuovi ostacoli, insuccessi. Voci dirette, che ci parlano da un fronte durissimo e dimenticato. Il sostegno mensile degli sponsor è un’arma sempre più indispensabile per le nostre amiche, come le leggi, che ancora resistono, lo sono per le avvocate che le difendono.

Le donne afghane sono vittime, perché lasciate sole e spinte alla disperazione dalla pressione di un’intera società patriarcale che nega il loro diritto alla vita, ma la loro tempra è forte. La resilienza, l’infinita capacità di reagire e combattere per se stesse e per i propri figli è straordinaria. E l’aiuto, che arriva dai loro sponsor, la mette in moto. Per tutte. Anche questo ci raccontano.

Ecco cosa accade a Saniya, Benhaz e alle altre: gli aggiornamenti
Nei due anni del progetto, la condizione di vita delle donne, in Afghanistan, non è certo migliorata, anzi. È sempre più raro, ci dicono, trovare giudici competenti che sappiano o vogliano applicare le leggi che difendono le donne. Leggi che, a più riprese, il Parlamento attacca, cerca di emendare, silenziare, rendere ‘inoffensive’. Sostituite, in gran parte del paese, da consuetudini tribali feroci. Come i tribunali, corrotti e dunque costosi per il cittadino, sono sostituiti dalla shura, l’assemblea dei notabili dei villaggi, presieduta da mullah. Era questa la ‘corte’ che ha condannato a morte Halima, due colpi di fucile, sparati dal padre, la primavera scorsa. (Unità, 14 settembre).

 

Violenza e impunità crescono insieme, come l’imbarbarimento dei rapporti umani e familiari. Così, ci raccontano, la sfida è sempre più dura. Nella famiglia-prigione, alle donne è vietato decidere della propria vita, rifiutare un marito imposto, studiare, uscire da sola, lavorare fuori casa, ottenere giustizia. Difficile curarsi, chiedere ogni giorno il necessario per vivere, proteggersi e proteggere le proprie figlie dalla violenza. Pericolosissimo ribellarsi. Arduo, sempre di più, ottenere il divorzio e la custodia dei figli.

Un desiderio di libertà che si scontra con la paura. Perché il divorzio, considerato un infame disonore per la famiglia, anche solo l’intenzione di chiederlo, porta con sé la minaccia di ulteriori pressioni e violenze. Di questo ci parlano. Le poche donne, fortunate, che possono studiare, lavorare, occupare posti di responsabilità, sono continuamente a rischio. Ancora più alto se si battono per quei diritti elementari dai quali la maggioranza di loro è esclusa.

Diritti che erano, nel 2001, la bandiera sventolata dalla missione di guerra americana. Perché siamo ancora a questo punto, dopo 12 anni? Le potenze democratiche dell’Occidente hanno armato, finanziato e nutrito la parte peggiore della società afghana, con tragiche conseguenze. Fallimenti che sono sotto gli occhi di tutti. Migliaia di civili morti, mutilati, soldati caduti. Miliardi di dollari spesi, che hanno prodotto ingenti conti nelle banche estere per pochi, soliti noti, alimentando un sistema di corruzione, enorme e ramificato, in tutti i settori della società, il secondo al mondo.

Un paese impoverito di tutte le sue risorse, ricco solo di armi, ordigni esplosivi ed eroina. Governato, oggi, dallo stesso fondamentalismo islamico, dei talebani e dei loro fratelli di fede, i warlords, che erano andati a combattere. Gente pericolosa, diventata sempre più potente, grazie all’occupazione, che sostiene un modello di società arretrata, feroce e oscurantista, dove le leggi dello Stato, soprattutto le migliori, sono nemiche. È questo l’Afghanistan che le truppe Nato e Isaf si apprestano a lasciare. Utile ricordarlo in un momento in cui si discute di una nuova, sciagurata, missione di guerra in Siria.

Gli orrori non sono solo appannaggio di talebani e ‘insurgents’, come spesso si vuol far credere. Signori e signorotti della guerra, con le loro milizie, funzionari, militari, giudici, governatori di province, parlamentari, hanno la stessa testa dei talebani, gli stessi interessi di controllo politico, attraverso un uso distorto della religione, lo stesso credo e la stessa misoginia accanita. Le ‘armi di distruzione di massa’ contro le donne le usano tutti. Le vediamo riflesse in ognuna delle nostre storie. 27 donne e bambine, che, col sostegno dei nostri lettori e del lavoro di Hawca, trovano la strada per salvarsi da umiliazioni, brutalità e soprusi.

Lentamente, con grande fatica, un passo alla volta.
Il primo risultato dell’aiuto di chi è al loro fianco, è la fiducia in se stesse e in un futuro normale, senza paura. Ma non è certo il solo. La totale dipendenza economica è fonte di infiniti ricatti. Possedere un po’ di denaro significa non dover chiedere, pregare, subire. Potersi curare, mandare a scuola i figli, mangiare meglio, essere accettate nella casa di parenti, salvarsi dalla casa- prigione. Significa acquisire dignità e potere contrattuale nei confronti dei maschi di famiglia. Sapere e far sapere ai familiari che non sono più sole. Le assistenti sociali di Hawca, che consegnano il sostegno mensile dei nostri sponsor, seguono il percorso di ognuna, con determinazione e cautela, vigilando sulla sicurezza e sulla speranza. Mi confermano, ogni volta, l’importanza dell’aiuto diretto e immediato del progetto e del legame reciproco che lega gli sponsor alle ragazze aiutate e alle donne che le difendono. L’entusiasmo e l’affetto che i nostri lettori mettono nel partecipare a questa avventura è straordinario come le iniziative che escogitano per aumentare l’efficacia del loro sostegno. E, continuamente, ci incoraggiano con le loro parole. Rimediare al disastro afghano non è alla nostra portata, ma salvare dal disastro personale 27 vite di donne sì. Di questo siamo orgogliosi.

Di Manizha, che ho incontrato a Kabul, sostenuta da Albalisa e dal contributo di molti lettori, ho già scritto. (Unità, 11 giugno 2013) Di seguito, gli aggiornamenti delle storie di 18 donne. Gli altri saranno pubblicati a breve, appena arriveranno da Kabul. Alcune di loro hanno ancora bisogno di sponsor che raccolgano, nella staffetta solidale, il testimone di chi ha dovuto, a malincuore, rinunciare al contributo.

Chi è interessato può scrivere a: vitepreziose@gmail.com

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