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Salviamo Manhiza e la sua “vita preziosa”

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Di Cristiana Cella,  3 febbraio 2013 – L’Unità

VitePreziose2312121Manizha, 20 anni. Racconta:
‘Ci sono entrata spontaneamente in casa loro, due anni fa. Mio padre mi vuole bene, non mi aveva costretto. Ho accettato io di sposare quell’uomo. È il figlio maggiore di mio zio, ripara motociclette. Lo fa con cura, con delicatezza, è bravo. La sorpresa era dietro quella porta. Sono arrivata nella sua famiglia con le migliori intenzioni. Volevo essere una brava moglie e fare del mio meglio perché tutti stessero bene. Mi sono sforzata di renderli felici. Non me lo hanno permesso. Ho capito subito che non ero una moglie, né una nuora, nemmeno una donna, solo una schiava.

Mi facevano fare i lavori più pesanti, fuori, al freddo, sotto la neve. Ma il peggio doveva ancora arrivare. La mia condanna è cominciata presto. La stanza, dedicata a me, era la cantina. Buia, fredda. Ci ho passato settimane intere con le mani e i piedi legati. Non c’è nemmeno una piccola parte del mio corpo che sia sana. Mio marito usava bastoni, catene, fruste. Pugni e calci sul viso che non posso più guardare. Ho perso le unghie delle mani e i miei piedi non sono più in grado di muoversi. Sua madre era d’accordo. Erano tutti d’accordo.’

hqdefaultHumayoun, padre di Manizha. Racconta:
‘Spingo un carretto di legno per la città, trasporto qualsiasi cosa, è questo il mio lavoro. Non ho soldi per ottenere giustizia in qualche tribunale. Non posso correre di qua e di là, tanto lo so, se non puoi pagare, non hai giustizia. Ma difenderò mia figlia a qualsiasi costo. Seguirò il suo caso a mani vuote e la terrò lontana da quel criminale di suo marito.

Quando ho saputo che Manizha in quella famiglia veniva torturata, sono corso a Moqor, (Ghazni) dove abitano e l’ho portata via, con la scusa di una visita a sua madre. L’ho portata a Kabul, in salvo. Potrà vivere al sicuro, nella casa protetta di Hawca, per ora è in ospedale. Ho contattato la famiglia di suo marito, ho chiesto che venissero a Kabul a testimoniare, perché quell’uomo sia punito, deve pagare per quello che ha fatto.’

Un giornalista della BBC afghana, Wahid Paykan, ha incontrato Manizha nella casa di un parente, a Kabul. Lei non poteva vederlo, non vedeva più niente, gli occhi spariti, tumefatti. Paykan racconta la sua sofferenza, la disperazione incredula della madre, la determinazione del padre. È stata affidata ad Hawca che, prima di tutto, la sta facendo curare. I medici dell’ospedale di Aliabad, dove è ricoverata, fanno il possibile per restituirle un corpo e una vita normale. Sta meglio, dicono, ma le torture subite hanno sconvolto profondamente la sua mente. Intanto le avvocate si preparano a ottenere giustizia per lei in tribunale. Il marito è stato denunciato e Hawca seguirà il suo caso, con il permesso della famiglia.

 

Vogliono ottenere il divorzio e la condanna del suo aguzzino. Sei mesi fa Manizha era riuscita a scappare e a raggiungere Kabul. Aveva raccontato il suo caso al Ministero degli Affari Femminili, ma nessuno aveva fatto niente per lei. La famiglia accusa pubblicamente i funzionari che non se ne sono occupati. Fawzia Amini, capo del Dipartimento Legale del Ministero, respinge le accuse. ‘Penso che il caso di questa ragazza non abbia mai raggiunto il Ministero. Se lo avessimo saputo avremmo fatto un’indagine e avrebbe avuto giustizia.’ Comunque siano andate le cose, Manihza ha dovuto subire altri sei mesi d’inferno. Non è facile guardare la fotografia del suo giovane viso devastato. Non sembra nemmeno giusto. Ma sicuramente è giusto che il suo caso sia stato raccolto dai media, come altri in questi mesi.

È importante per lei e per le altre donne che, in Afghanistan, subiscono le stesse brutalità nel buio e nel silenzio. L’orrore denunciato, mette in moto delle reazioni, anche all’interno del suo paese. Nei mesi scorsi, su iniziativa della ‘Afghan Women and Children Development and Protection Institution’, sui marciapiedi e sui muri di Kabul, sono comparsi grandi lenzuoli di carta per raccogliere 3000 firme a sostegno dell’applicazione della legge EVAW, per l’eliminazione della violenza contro le donne. Legge che viene, quasi sempre, ignorata. I giudici preferiscono applicare la sharìa o la legge delle mazzette. L’appello ha avuto successo. Studentesse, studenti, gente comune, tra cui anche molti uomini, hanno firmato la petizione per le strade della città, testimoniando il bisogno di giustizia della società civile e la loro opposizione al fondamentalismo dominante.

Possiamo fare subito qualcosa per questa giovane donna. Manizha ancora non lo sa, ma la sua voce, soffocata in quella cantina, è arrivata lontano.

Chi vuole aiutare Manizha, sostenendola mensilmente con 50 euro, o 25, oppure con una donazione ‘una tantum’, per costituire un fondo per le urgenti spese mediche necessarie per curarla, scriva una mail a: vitepreziose@gmail.com.

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