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Obama rinuncia ufficialmente a chiudere Guantanamo

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Da: RINASCITA – 29.1.2013 – Articolo di Ferdinando Calda

220px Camp x ray detaineesDopo aver fatto sognare gli elettori e aver guadagnato un secondo mandato e un premio Nobel, l’amministrazione Obama sta apertamente riposizionando le priorità degli Usa. La vicenda del funzionario della Casa Bianca Daniel Fried riassume egregiamente questo cambio di direzione. Ieri il Dipartimento di Stato Usa ha annunciato con un comunicato di aver privato Fried della carica di “inviato speciale per la chiusura del penitenziario di Guantanamo bay”, che era stata istituita nel 2009 dal neoeletto Barack Obama. Dalla Casa Bianca hanno spiegato anche che nessuno prenderà il posto di Fried, il quale assumerà invece l’incarico di coordinatore per le politiche sanzionatorie a carico di Iran e Siria.

La decisione di chiudere definitivamente l’ufficio di Fried rappresenta di fatto la comunicazione ufficiale della decisione della Casa Bianca di gettare la spugna su una delle principali promesse del presidente democratico. Fu proprio Obama che all’inizio del 2009 – come prima azione del suo mandato – promise di chiudere Guantanamo “entro un anno”.

Ma mantenere il proposito si è dimostrato più difficile del previsto e il presidente Usa ha dovuto ben presto fare i conti – oltre che con l’opposizione del Congresso di celebrare i processi contro i detenuti di più alto profilo nei tribunali ordinari sul territorio degli Stati Uniti – con la difficoltà di giudicare in tribunali “normali” (e non militari) uomini arrestati nella più completa illegalità e dei quali per anni sono stati sistematicamente violati i più elementari diritti. Lo stesso Fried ha passato anni in giro per il mondo per valutare la possibilità di rimpatriare detenuti “di basso livello”, o per convincere nazioni terze ad accoglierne altri che erano stati scagionati ma non potevano essere rispediti in Patria.

In realtà sembrerebbe che già da almeno un paio di anni Obama si fosse accorto dell’impossibilità di chiudere il supercarcere senza tradire l’essenza stessa della guerra dichiarata dagli Stati Uniti “al terrorismo”. Ai primi di marzo 2011 – quando a Guantanamo si contavano circa 170 detenuti in attesa di giudizio – il presidente democratico firmò un ordine per mantenere la detenzione a tempo indeterminato dei prigionieri non ancora incriminati, condannati o designati per un trasferimento. Allo stesso tempo diede il via libera per la ripresa dei processi militari che lui stesso aveva sospeso appena insediato. Proprio ieri Khalid Shaikh Mohammed e altri quattro detenuti di Guantanamo ritenuti responsabili dell’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 sono “pubblicamente” comparsi al cospetto di una corte militare. In realtà l’udienza era seguita in video da un gruppo di giornalisti, ma proprio durante l’intervento di un avvocato della difesa si è verificato un misterioso blackout.
Alla fine dello stesso 2011, inoltre, il Congresso approvò una controversa legge che permette di rinchiudere nelle carceri militari – senza quindi le tutele della giustizia ordinaria – chiunque, statunitense e non, si trovi in territorio Usa e venga sospettato di “fare parte, aver fatto parte o sostenere al Qaida, i talibani o movimenti simili”. Una definizione estremamente vaga che ha scatenato l’allarme tra gli ambienti liberali e le associazioni per i diritti umani.

L’immunità per i torturatori
Accanto al mantenimento della detenzione indeterminata come strumento della “guerra al terrorismo”, Obama si impegnò da subito anche a garantire l’impunità di fronte alla legge degli agenti della Cia che “in buona fede” e “basandosi sul consiglio legale del Dipartimento della Giustizia” aveva utilizzato “metodi duri” durante gli interrogatori, compresa la famigerata tortura dell’acqua (waterboarding).
A finire nei guai con la giustizia è stato, invece, l’ex agente della Cia che denunciò alla stampa il ricorso al waterboarding. La scorsa settimana John Kiriakou è stato condannato a due anni e mezzo di prigione per aver rivelato a un giornalista dati sensibili. La corte non ha riconosciuto la tesi della difesa secondo la quale si tratta di un “whistleblower”, come vengono definiti di dipendenti pubblici che rivelano informazioni riservate per denunciare colpe del sistema.

Il giudice, anzi, ha dichiarato che la pena sarebbe stata più severa se lo scorso anno Kiriakou non avesse accettato un accordo, dichiarandosi colpevole di violazione dell’Intelligence Identities Protection Act (la legge che protegge l’identità degli agenti della Cia) e scampando così alla più grave accusa di spionaggio. In particolare l’ex agente è stato riconosciuto colpevole di aver fatto il nome di un agente sotto copertura a un giornalista, che lo avrebbe poi passato a un avvocato difensore dei detenuti di Guantanamo.
Kiriakou ebbe un ruolo importante nella cattura del terrorista di al Qaeda Abu Zubaydah, avvenuta in Pakistan nel 2002. Nel 2007 Kiriakou, che nel 2004 aveva lasciato la Cia, iniziò a rilasciare una serie di interviste che rappresentarono una delle prime conferme arrivate dall’interno della Cia dell’utilizzo del waterboarding durante gli interrogatori.

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