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In Afghanistan Usa e Nato come l’Urss

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The Globalist – 2 marzo 2013

Follia vendicativa Usa dopo l’11 settembre. Caccia ai terroristi. L’area tra Afghanistan e Pakistan sconvolta. Ritirata per mascherare la sconfitta.
di Ennio Remondino

La guerra che c’è ma non si vede.
Proprio questo febbraio, il “Committee on the Rights of the Child” dell’Alto Commissario per i Diritti Umani dell’Onu ha diffuso un rapporto sulle centinaia di bambini uccisi in Afghanistan negli ultimi 5 anni per la mancanza di misure precauzionali e di un uso indiscriminato della forza. Vittime, in genere, di «attacchi e raid aerei delle Forze Armate americane».
Le informazioni del documento, non ancora di dominio pubblico, già sono state definite «infondate e false» dal Quartier Generale delle Forze Statunitensi in Afghanistan. I militari sostengono che, lo scorso anno, le vittime civili sarebbero state ridotte del 49% rispetto all’anno precedente. Sconto del 40% anche per i bambini, mentre l’84% dei civili uccisi sarebbe addebitabile agli insorti. Insomma, i “Buoni” ammazzerebbero soltanto il 16 per cento di civili inermi. Per fortuna che, essendo tra i buoni, di bambini ne abbiamo ammazzati un po’ di meno.

Al peggio non c’è mai fine.
Da nostre fonti sappiamo che il documento Onu pone l’accento anche sul crescente problema dell’arresto e la detenzione di bambini. Ma su questo tema delicatissimo poco è trapelato. Il rapporto Onu è, di fatto, contestuale alle perplessità espresse dal Congresso Usa sull’utilizzo dei droni da parte dell’intelligence e segue di poche settimane la visita del Presidente afghano Karzai negli Stati Uniti per discutere status e numero dei militari Usa che resteranno nel Paese dopo il ritiro della Forza Internazionale Isaf-Nato a guida Usa.
Ora centomila militari non afghani, di cui 66.000 statunitensi. Ritiro messo in calendario per il 2014, ma che il Presidente statunitense vorrebbe accelerare, senza escludere il ritiro completo della componente americana, contando sulle promesse militari che basterà la presenza di un contingente di 3, 6 o 9 mila soldati. Cifre ballerine che, al cronista che l’Afghanistan lo ha vissuto, appaiono soltanto fantapolitica. Palle.

Tra promesse e realtà.
Fra i vecchi accordi mai mantenuti, ricordiamo quelli del marzo 2012, col trasferimento agli afghani del Controllo della prigione di Bagram, l’aeroporto-base militare di Kabul. Un mese dopo, passaggio ai locali del Comando di raid notturni e operazioni speciali. Poi, per dare un segnale ai pacifisti in casa americana, il “Partenariato Strategico” fra i due Paesi che parla di sviluppo economico e sociale, consolidamento delle Istituzioni e sicurezza in ambito regionale. Belle parole e pochi fatti. In questo quadro, giunge forte e chiara la voce dei Talebani che, con una campagna militare di rinnovata energia, colpiscono la capitale due volte nell’arco di una settimana, il 15 e il 21 gennaio. Il primo, un assalto con autobomba a una sede del “National Directorate of Security”. Il secondo, una vera battaglia contro il Quartier Generale della Polizia. E nel dicembre 2012, arrivano addirittura a colpire il Capo dei Servizi Segreti, Asadullah Khalid.

 

Ma i conti si devono saldare.
Il messaggio di Mullah Omar, capo dei ribelli Talebani, non si presta a equivoci: dimostrare l’inadeguatezza delle forze afghane, ormai 350 mila unità, a garantire la sicurezza del Paese quando si ritirerà l’Isaf. E quindi, tradotto in afghano, “con noi dovete trattare”. Dopo 12 anni di guerra dai costi umani folli e da quelli economici stratosferici saranno loro, gli integralisti Talebani, a dettare l’agenda politica per definire il futuro Afghanistan “liberato”. Liberato, forse il prossimo anno, da una presenza militare occidentale che ha prodotto questi splendidi risultati appena citati. Fonti internazionali indiscutibili. Scelte azzardate allora, nel 2001, sulla scia della rabbia del dopo 11 settembre. Scelte via via sempre più folli e condite di bugie. La piccola Italia ha pagato con la vita di più di 50 militari e una montagna di soldi. Circa 2,3 miliardi di euro sino al 2010. Una guerra persa da 50 milioni al mese. Vale quindi la pena di andare a curiosare.

Le frottole a cui piace credere.
Gli Stati Uniti e i Paesi Nato coinvolti, tra essi dunque l’Italia, ci raccontano della prossima disfatta talebana o, almeno, di un suo depotenziamento militare, e il rafforzamento dell’Esercito regolare afghano. Ci raccontano frottole, sperando che le bugie non le raccontino anche a loro stessi.
Date le migliaia di soldati italiani impegnati, di vite umane già bruciate -più di 50 caduti- e di milioni di euro gettati al vento, qualche domandina su cosa sta accadendo veramente in quell’area strategica del mondo è utile porsela. Parliamo di Af-Pak-India, impronunciabile sintesi di Afghanistan, Pakistan e India, perché i problemi di quei tre Paesi confinanti non soltanto si intrecciano ma spesso si autoalimentano. Con l’aggiunta di altri pericolosi vicini, a loro volta tentati dal trarre vantaggio dai guai altrui, quelli cresciuti in casa e quelli alimentati con malizia dall’esterno. Una prima occhiatina alla geografia con breve ripasso di storia.

Storia di etnie e occupazioni.
Nel 1986, la legione straniera araba di Al Qaida si installa nell’Est dell’Afghanistan, a Khost, vicino alle zone tribali del Waziristan. Contemporaneamente, Jalabbudin Haqqani, d’etnia pashtun, esponente di spicco del movimento integralista “Hizb-i-Islami”, stabilisce il suo Quartier Generale a Miranshah, nel Waziristan del Nord, da dove sbaraglia la 40° Armata sovietica. L’asse Khost-Miranshah -sfogliare una cartina geografica aiuta- taglia la “linea Durand”, tracciata nel 1893 dal colonnello inglese Durand per separare l’impero britannico dell’India dal turbolento Afghanistan.
Di fatto è la stessa Linea Durand, contestato confine tra Pakistan e Afghanistan, a rappresentare l’asse lungo cui si muove il radicalismo wahabita. Frontiera interna ovviamente non riconosciuta dallo Stato afghano ma considerata intangibile da quello pakistano, divide di fatto la comunità pashtun presente nei due Stati. E Al Qaida sceglie con grande astuzia.

Al Qaida, la base.
Proprio in questa area Osama bin Laden sistema la sua “base”, la sua “qaida”, come si dice in arabo. Una terra contesa che diventa di fatto terra di nessuno, in grado di destabilizzare in un solo colpo due Stati. La nuova “qaida” di bin Laden conta sul sostegno finanziario e logistico -in chiave antisovietica- degli Usa e dell’Arabia Saudita nonché sulla protezione di Haqqani. Dieci anni dopo, nell’agosto 1996, bin Laden dichiara il jihad mondiale, “lo sforzo, l’impegno” contro gli americani che violano i luoghi sacri, la Mecca e Medina, e su quel territorio afghano compaiono i talebani, il cui leader, mullah Omar, era stato combattente di Haqqani. Al Qaida si affianca ai talebani contribuendo alla caduta del regime filo sovietico nel 1992. I talebani, sotto la bandiera della Sharia, realizzano la riconquista pashtun del Paese. In quel momento esistono interessi coincidenti con americani, sauditi e pakistani. In odore di petrolio.

Il nemico del mio nemico è mio amico.
Il potente gruppo petrolifero californiano Unocal, allora rappresentato presso i talebani da Hamid Karzai, attuale presidente afghano -all’epoca consulente dell’azienda Usa- ha bisogno di un Paese stabile per realizzare il progetto del gasdotto transafghano. Dal canto suo, l’Arabia Saudita sostiene la creazione di un Emirato sunnita rigorista sul fianco orientale dell’Iran sciita. Gli Usa, assieme al Pakistan, sono favorevoli a una cintura di sicurezza antisciita, preoccupati dell’influenza iraniana sul 20% sciita della popolazione afghana. Il Pakistan trova nei talebani a Kabul la soluzione del problema della “profondità strategica” contro le mire dell’India. Questo è il “problema dei problemi” dello scenario Af-Pak-India. Il Pakistan ha sempre sostenuto un Afghanistan unificato e amico, ma solo per ripiegarvi in caso di attacco indiano. Quindi forte preoccupazione del rifiuto afghano di riconoscere la linea Durand come frontiera.

Gli amici del Pakistan.
Ma accorciamo la storia. Alla fine degli anni ’90 il Pakistan ritiene i talebani affidabili, perché musulmani, pashtun e nazionalisti. Del resto, la stessa resistenza contro i talebani da parte dell’Alleanza del Nord, guidata dal Comandante Massoud, che raggruppa i partiti tajichi, azeri e uzbeki -fino alla sua uccisione il 9 settembre 2001- non è ritenuta in grado di garantire il controllo dell’Afghanistan. Il nuovo Governo afghano, nato dagli accordi di Bonn nel dicembre 2001, conta su 23 ministri dell’Alleanza del Nord e solo 7 pashtun. A quali tocca il Capo dello Stato, l’Autorità Provvisoria affidata ad Hamid Karzai, non percepito dalla società civile come suo rappresentante proprio per il passato ruolo all’interno dell’americana Unocal. Dopo la sconfitta del 2001, il movimento talebano si sarebbe probabilmente sciolto se le tribù pashtun avessero ottenuto una diversa partecipazione come maggioranza etnica e radice storica dell’Afghanistan.

Al Qaida alleato obbligato.

Tra complessità storico-tribali, il processo di unità nazionale afghana inciampa sul riconoscimento reciproco tra le etnie del nord e i popoli pashtun a sud. Di fatto, tajiki-afghani, uzbeki-afghani e azeri-afghani si sentono pienamente afghani avendone difeso l’unità territoriale per oltre due secoli. Il rischio di uno scontro di Al Qaida con l’integralismo nazionalista di mullah Omar, viene vanificato dagli attacchi Usa sull’Afghanistan nel 1998, come rappresaglia per gli attentati di Al Qaida contro le ambasciate americane in Tanzania e Kenia. L’11 settembre 2001 esalta nuovamente la visione divergente fra il jihad mondiale e quello nazionale. Risalgono a quel periodo i contatti segreti tra Usa e ‘Shura di Quetta’ per la cattura di Osama bin Laden. Al Qaida, si dilegua nel territorio incontrollabile del “Pathunistan”. Nel 2004 il leader pakistano Musharraf scampa a tre attentati e Benazir Bhutto, evitato un primo attentato, viene uccisa nel 2007.

Vicini molto interessati.
In questa cornice dunque, troppi attori esterni. Il Pakistan, attentamente osservato dall’interessata India. L’Iran, confinante a est con Afghanistan e Pakistan. A nord e ad ovest, Uzbekistan, Tadjikistan e Russia, questa anche se non per confini diretti, sono contrari a un governo Taleban, in gran parte di etnia Pashtun, nella convinzione che continuerebbe a prevaricare le regioni settentrionali e occidentali cui sono etnicamente legati. Questi Paesi non intendono impegnare truppe e privilegiano il negoziato intra-afghano. Gli Usa e i Paesi Nato sperano nella disfatta talebana o, almeno, in un suo indebolimento militare. Pakistan e India, nemici da sempre: il primo è accusato di sostenere i talebani attraverso i Servizi segreti dell’Esercito, a favore di un governo talebano che opererebbe come una muraglia contro l’India. L’India sostiene il regime di Karzai ritenendolo da sempre un utile strumento per neutralizzare l’influenza pakistana nel Paese.

Una guerra sempre a perdere.
Quest’anno la guerra in Afghanistan costerà agli Stati Uniti più di 100 miliardi di dollari. Più o meno un milione di dollari all’anno per ogni soldato impegnato. I fautori del ritiro sostengono l’alternativa di azioni mirate. L’uccisione di bin Laden ne è il modello. Meglio ricorrere ad azioni segrete contro obiettivi precisi. Ma il Pentagono non la pensa così. Un ritiro troppo rapido -sostengono i militari- rischia di vanificare anche i fragili progressi ottenuti sino ad oggi. Sull’affidabilità dell’esercito nazionale afgano la Nato ha basato tutta la sua strategia per il passaggio di consegne e l’abbandono del Paese. L’Afghanistan di domani nelle mani di quale esercito? Il governo di Kabul ha un bilancio annuo di 1,5 miliardi di dollari e il solo addestramento costa fra i sei e gli otto miliardi. Karzai, quando Obama annunciò il ritiro, avvertì Washington che sarebbero serviti ancora soldi americani, tanti, per almeno altri 4 o 5 anni. Per quale Afghanistan?

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