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I RAGAZZI CHE VIVONO NELLA GUERRA, SCHIAVI DELLA VIOLENZA CHE DOMINA IL PAESE

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di Cristiana Cella – 9 giugno – L’Unità

I bambini afghani vivono in gran parte per strada. Non per giocare ma per guadagnarsi da vivere. Ognuno a suo modo. A Kabul sono ovunque. Vanno a caccia di qualcosa da vendere, per procurarsi qualche afghano. Con grossi sacchi di plastica, raccolgono quello che trovano nelle discariche a cielo aperto, con le gambe immerse nel fango del fiume Kabul, che attraversa la città, radunano gli infiniti sacchetti di plastica che fermano lo scorrere dell’acqua, circondano le macchine, approfittando dei quotidiani ingorghi del traffico, agitando un fornelletto dove bruciano un’erba contro il malocchio.

Chiedono monete, con lo sguardo duro, adulto. Fuori città pascolano le bestie, vanno in cerca di metalli da rivendere. Soprattutto vicino alle basi americane, lì non manca. E saltano sulle mine e sugli ordigni inesplosi. Ne ho visti molti negli ospedali, la più piccola aveva due anni. Altri sono venduti per il commercio sessuale dei vari comandanti locali. Sono assoldati da talebani e altri gruppi armati per combattere.  Vivono nella guerra, come tutta la popolazione.

Oggi, uno di questi ragazzini ha avvicinato un Lince e ci ha buttato dentro una granata, uccidendo un ragazzo italiano. Una notizia shoccante, orribile. Bambini che diventano armi da guerra. Oltre la condanna di qualsiasi violenza, cercare di capire cosa sta intorno a questi episodi, senza semplificare, significa ascoltare, soprattutto le persone che vivono in questo paese devastato, oppresse da una violenza onnipresente. La quotidianità degli afghani, alla vigilia del ritiro delle truppe, è la totale insicurezza.

I fronti di conflitto sono molti e complessi. Nelle province, dominate dai signori della guerra, non c’è legge, oltre a quella della forza. Persone che siedono nel Parlamento di un Governo, sostenuto dalle truppe occidentali, abusano in ogni modo della loro popolazione, con la forza delle armi, delle prigioni private, della totale impunità.  Si arricchiscono con la corruzione, con gli aiuti stranieri e il traffico di droga. Un dominio totale e feudale che schiaccia la popolazione. Difficile reagire. Le manifestazioni di dissenso sono sempre represse con estrema durezza. La paura fa parte della vita quotidiana. Bisogna arrangiarsi, convivere con la violenza. Milizie e contractors, al soldo di chiunque li possa pagare, pullulano, allarmando anche l’Onu. Dove comandano i talebani, la gente vive stretta tra due fuochi.

 

Narghez, una giovane donna che ha vissuto all’estero, è appena tornata da una visita ai parenti, in un villaggio di Kunduz. Piantano alberi intorno alle case, per nasconderle. A primavera, i talebani occupano le case, pretendono di essere nutriti. Gli abitanti non possono rifiutarsi, pena la morte di tutta la famiglia e saltano i pasti pur di accontentarli. Quando se ne vanno, arriva l’esercito, che li accusa di essere fiancheggiatori dei talebani, li minaccia e, spesso, li arresta.

A Farah, dove è avvenuto l’attentato di stamattina, la situazione è ancora più difficile.  Me la racconta Latifa Ahmadi, direttrice della Ong Opawc, che si occupa di istruzione delle donne e gestisce un piccolo ospedale, l’unico, a Farah.

È in Italia, invitata dalla Ong italiana Cospe. ‘Ogni mattina uscendo di casa non posso essere sicura di tornare, anche a Kabul. Ma, a Farah, dove sono nata, è davvero difficile vivere.’ Il centro della provincia è sotto la giurisdizione dello Stato. Il warlord che la governa appartiene al partito sciita, sostenuto dal vicino Iran. I talebani occupano i villaggi intorno e sono in guerra con gli sciiti, col governo, con le truppe occidentali. Il lavoro manca e gli uomini vanno a cercarlo in Iran, dove sono pesantemente discriminati. Le donne rimangono sole con i figli e senza mezzi. Quando i mariti tornano, spesso sono diventati tossicodipendenti. A Farah sono ormai 25.000.

Il Governo preme sulla popolazione con messaggi e manifesti, perché non aiutino i talebani. ‘ I talebani sono odiati- racconta Latifa- ma sono spesso l’unica fonte di sopravvivenza. Qualche settimana fa, alcuni capi famiglia, hanno fatto una manifestazione per chiedere lavoro al Governo. Altrimenti, dicevano, sono costretti ad accettare le ‘offerte di lavoro’ dei talebani.‘ I talebani pagano, sostengono le famiglie, forse sarà stato così anche per quel ragazzino. Il 3 aprile scorso, un attentato contro il tribunale di Farah ha fatto più di 60 morti, per la maggior parte civili, anche nel vicino ospedale, gestito da Opawc.

La rivendicazione dei talebani motivava l’attacco con la liberazione di alcuni detenuti, appartenenti al gruppo. Ma, in realtà, non ce n’era nemmeno uno. Il sospetto della popolazione è che i talebani coprano molte altre battaglie, difficili da decifrare anche per chi vive lì. Intanto l’avversione  popolare contro le truppe di occupazione, specialmente americane, continua ad aumentare. Come aumentano ogni giorno le vittime civili di bombardamenti e raid notturni, donne e bambini compresi. E così, i soldati afghani che colpiscono i militari Isaf e Nato, gli attacchi ‘green on blue’, diventano degli eroi nazionali.

Anche questo è successo oggi, nella provincia di Paktika, vicino al confine pakistano, dove un aggressore in uniforme ha ucciso 3 soldati Isaf. Debolezza, inefficienza e corruzione del Governo di Karzai sono evidenti a tutti. Esercito e polizia combattono più al servizio dei vari warlords e capi tribù locali, che per uno stato inesistente. E sempre di più, adesso, si sente parlare di resistenza. Resistenza ai talebani, ai warlords, alle truppe di occupazione.

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