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HALIMA E LE ALTRE

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L’Unità – settembre 2013 di Cristiana Cella

La giornata è bella, è fine aprile. Siamo nel distretto di Ab Kamari, provincia di Baghdis, Afghanistan occidentale. Gli abitanti del villaggio riempiono le colline brulle come per un pick nick. Sono più di 300. Aspettano, come per uno spettacolo. Ascoltano il mullah, Abdul Ghafur, uno dei religiosi più autorevoli della zona, vestito di bianco. Parla con un megafono e decreta, con assoluta naturalezza, la condanna a morte di Halima, forse 20 anni, che aspetta il suo destino in ginocchio sotto al burka, colpevole di adulterio.

Lo stadio dei talebani non è lontano. Tutti sanno – dice il mullah – che non piove da tempo. Succede a causa dei peccati commessi. Bisogna punire i colpevoli perché Dio perdoni. La sentenza sarà eseguita dal padre, è un suo diritto. È la vittima principale del disonore causato dalla figlia.

Il video, diffuso da El Mundo, (El Mundo.es) mostra anche l’esecuzione. Due spari secchi e il villaggio intero che grida, con un parossismo crescente: ’Allah o akbar’, Dio è grande, correndo tra l’erba rada. Il pianto disperato di donna nel sottofondo, probabilmente la madre. Un ragazzo si butta a terra disperato, forse il fratello. Le immagini sono un cazzotto nello stomaco, emergono dall’inferno sommerso afghano, come a volte succede, con orribili storie che fanno il giro del mondo, al centro della scena per qualche giorno.

 

Importante, sicuramente. Poi, però, tutto resta come prima.
Non sono eccezioni, aberrazioni umane. Sono la normalità della vita della maggior parte delle donne, dove il delitto d’onore è pratica diffusa. Un Afghanistan sepolto, lontano dai riflettori. Oltre le battaglie e le trattative, tra montagne sperdute, ma anche nei quartieri della capitale e delle altre città, vivono persone, donne, la cui guerra quotidiana è appoggiata da pochi. Difficile chiamarla vita. Halima ha molte sorelle, troppe. Le ho incontrate, ho ascoltato le loro storie, spesso insopportabili.

Le ho raccontate su queste pagine. Vite che non valgono niente, comprate, vendute, spente, da padri, mariti, cognati.  Cosa significa ‘adulterio’ in Afghanistan? Così, ad esempio, viene chiamato lo stupro. La violenza su una ragazza di famiglia è una vergona indelebile per tutti.

La punizione non la sconta lo stupratore ma la vittima. Incarcerata, picchiata, obbligata ad abortire, a volte uccisa, per lavare la vergogna. Ma può anche voler dire fuga da casa, per aggravare la pena. Halima scappa per due giorni, con un cugino. Non sappiamo i particolari, possiamo immaginarli. Il copione è simile.

Il matrimonio, probabilmente ancora bambina, come è per il 60% delle donne,  dove la vita si arena, la violenza del marito, della famiglia, la disperazione. Il marito è in Iran, forse il momento buono per scappare. Halima convince il cugino ad aiutarla. Scappare è un terribile azzardo, soprattutto in un villaggio sperduto, lontano da tutto. Nessuno l’aiuterà. Parenti, amici, vicini, chiudono la porta. La fuga da casa è punita con la detenzione e chi aiuta è complice.

Halima è sola, come le altre. La polizia è un ulteriore rischio di violenza. Chissà, forse Halima amava quel cugino. Ma anche questo è, per una donna, un peccato inaccettabile. Quando sparisce, il villaggio intero organizza una caccia, come per una battuta al cinghiale. Uomini inferociti che battono la campagna. Il cugino, probabilmente, ha paura. Scappa in moto, lasciando Halima sola e terrorizzata, in mezzo ai sassi. Sono loro, dice il mullah, a dover fare giustizia.

Dei giudici del Governo non possono fidarsi, sono tutti corrotti. E su questo ha ragione. La corruzione, nel sistema giudiziario, come ovunque in Afghanistan, è al secondo posto al mondo, diffusa ovunque, dal Presidente fino all’ultimo funzionario. Per qualsiasi  pratica si deve pagare. Così la gente, sempre di più, fa da sé. Per la giustizia si affida alla shura, l’assemblea dei notabili del villaggio presieduta da mullah che applicano la sharìa. Che condannano Halima e le altre.

È così che funziona nelle province governate dai signori della guerra, islamisti fanatici, uomini resi sempre più potenti dagli aiuti e dalla protezione dell’Occidente. Il mullah afferma anche che il Governo potrebbe anche liberare Halima. E qui sbaglia, perché ottenere giustizia o clemenza, o anche solo l’applicazione delle leggi dello Stato, che proteggono le donne, è sempre più difficile. I giudici sono spesso mullah, come Abdul Ghafur, con la stessa testa. La violenza contro le donne è sempre più diffusa, ogni anno che passa. Come l’impunità dei colpevoli.
Forse, in un tribunale, Halima sarebbe stata condannata alla detenzione. Si sarebbe salvata la vita, almeno per un po’.

Il padre assassino vive tranquillo, nessuno lo accuserà. Tre mesi dopo l’esecuzione è invece mullah Abdul a finire in carcere. Il caso è ormai pubblico e qualcosa bisogna pur fare. Protesta la sua innocenza, lui non ha fatto niente, dice.

C’è da scommettere che non ci starà molto. Le leggi a favore delle donne, già raramente applicate, sono continuamente messe in discussione  nel Parlamento Afghano, con emendamenti e modifiche. La sharìa avanza,  erodendo le leggi e i diritti delle donne. Merce di scambio nelle trattative con i talebani, che, con ogni probabilità, siederanno numerosi nel prossimo Parlamento, a loro agio tra i potenti e inamovibili warlords.  Ragazze come Halima possono contare solo sulle donne coraggiose che, instancabilmente, con le loro organizzazioni, per questi diritti combattono, nei tribunali, nelle famiglie delle vittime, nelle case rifugio. Ma la battaglia sarà sempre più dura.

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