Skip to main content

Afghanistan: dove regna il caos e il bottino è il privilegio

|

OsservatorioIraq, 8 marzo 2013

La corruzione e le divisioni etniche e tribali impediscono all’Afghanistan di costruirsi un futuro democratico e di pace. Lo studioso Zaman Stanizai spiega perché, ormai, nessuna delle parti può essere lasciata fuori dal processo politico in corso.

di Zaman Stanizai* – traduzione a cura di Anna Toro

Nel governare la società afghana, le tattiche “nuove e implementate” del “divide et impera” sono operative sia a livello verticale che orizzontale, e la corruzione sistemica ne risulta incentivata.
Non è un segreto che numerosi alti funzionari governativi afghani, dalle alte sfere fino ai capi dei dipartimenti, figurino sul libro paga della CIA, ricevendo “stipendi” supplementari e “spese di ospitalità” per un ammontare che supera i 5.000 dollari.
In quanto destinatari di tali fondi, questi funzionari possono anche raccomandare soci, amici e famigliari. Gli obiettivi non dichiarati di tutto questo sono: acquistare la loro fedeltà (corrompendoli), renderli dipendenti dalla presenza americana e indebolire la loro base popolare.
In questo modo, infatti, diventano socialmente isolati e oggetto di pubblico risentimento e odio.
Una volta identificati dalla società come “venduti” ai padroni stranieri, non possono riconquistare la fiducia del popolo – una caratteristica che viene rafforzata dal loro stile di vita sontuoso, in mezzo alla miseria prevalente nel paese.
Questa mancanza di affidabilità e responsabilità si riversa nei ranghi inferiori dei funzionari del governo, che creano continui ingorghi burocratici in modo da poter chiedere tangenti e potersi arricchire anche loro.

Ma come abbiamo visto, la corruzione sistemica pervade anche gli strati orizzontali della società afghana.
La disparità economica sempre più evidente tra i destinatari dei dollari dei donatori alle dipendenze delle agenzie straniere e i dipendenti pubblici salariati, diffonde l’epidemia della criminalità sistemica fino alle zone rurali, dove la polizia collabora con bande criminali nei rapimenti dei “nuovi ricchi” a scopo di estorsione, dando convenientemente la colpa ai talebani.
Non ci può essere pace fino a quando non ci sarà una vera democrazia.
La prevalenza di questo modus operandi è tipica dei dipendenti pubblici e dei politici di tutti i colori che, in collaborazione con i loro padroni stranieri e le Ong, riciclano il denaro scremato dai progetti umanitari stranieri.

Le recenti rivelazioni dei media su transazioni bancarie da parte di alcuni funzionari del governo afghano attestano il fatto che i 16 miliardi dollari promessi alla conferenza di Tokyo dei paesi donatori, svoltasi nel mese di luglio, rischiano di fare la fine dei 17 miliardi dollari già nascosti in Svizzera e nelle banche di Dubai.
(…) La meritocrazia si arrende a un nepotismo sistematico in cui la maggior parte delle nomine pubbliche si basano sulle “quote tribali” e sulle raccomandazioni di chi sta più in alto. Questo sistema viziato di esclusione deliberata è stato venduto dall’Alleanza del Nord come democrazia e come “costruzione della nazione”, e l’esca è stata inghiottita tutta intera, con tanto di lenza, amo e piombo.
L’Alleanza del Nord non vede la democrazia come la regola della maggioranza, con la garanzia implicita dei diritti delle minoranze, ma come il monopolio del governo delle minoranze, con l’esclusione della denigrata maggioranza.

Questa anomalia verso le norme storiche politiche e sociali dovrebbe invece essere chiamata “etnocrazia”. Non ci può essere pace in Afghanistan fino a quando non ci sarà una vera democrazia. E una vera democrazia, indipendentemente dal tipo (occidentale, islamico, ecc), dovrebbe essere partecipativa, rappresentativa e inclusiva.
Sulla base di questi principi, nessuna delle parti può essere lasciata fuori dal governo democratico.
L’Alleanza del Nord si oppone ostinatamente a qualsiasi sforzo per una pace negoziata con qualsiasi partito militante, ideologico, o politico che rappresenta (o pretende di rappresentare) la maggioranza pashtun, temendo che una democrazia più rappresentativa possa metter fine al loro monopolio del potere politico.
Inoltre, si sentono minacciati da un’iniziativa di pace che porterebbe inevitabilmente alla partenza delle forze straniere.

È per questo che l’Alleanza del Nord si oppone a ogni gesto significativo per la riconciliazione da parte dell’amministrazione Karzai e respinge le invocazioni alla pace dei leader politici e degli studiosi, definendole una “difesa dei talebani”.
In una democrazia rappresentativa, è un dovere civico di ogni afghano difendere i diritti di rappresentanza di tutti i segmenti della società, e questo deve includere i talebani.
Una chiara linea dev’essere tracciata tra la difesa della rappresentazione individuale o etnica, e l’appartenenza etnica in sé. Nessun pashtun dovrebbe difendere le azioni compiute dai talebani durante il loro regime, in virtù della loro appartenenza etnica.
Così come né i tagiki, gli hazara, o gli uzbeki dovrebbero essere ritenuti responsabili o difendere le azioni dei loro leader che rivendicano l’affiliazione alle rispettive comunità etniche.
Ma se l’ammissibilità a partecipare alla vita politica nazionale viene negata a causa del proprio passato impuro, tale criterio deve essere applicato su tutta la linea.

Se ci sarà mai un processo in un tribunale indipendente afghano per tradimento e favoreggiamento degli invasori stranieri, o presso la Corte internazionale di giustizia o presso il Tribunale penale internazionale per crimini contro l’umanità, il popolo afghano avrà molto da dire.
Inclusi, ma non solo, i seguenti fatti:
– le accuse contro il regime talebano possono includere il ricorso a leggi draconiane obsolete, attraverso delle condanne esemplari, le esecuzioni pubbliche e le violenze contro tutte le donne vestite “impropriamente” in pubblico;

  • l’Alleanza del Nord può essere accusata di aver preso di mira i civili durante le loro battaglie nelle praterie di Kabul, sottoponendo i residenti della capitale a pulizia etnica, stupri di gruppo su specifici quartieri etnici come punizione collettiva, così come della morte di più di 60.000 abitanti, che hanno trasformato Kabul nelle Dresda e Grozny dell’Afghanistan;
  • le milizie di Dostam potrebbero essere accusate del massacro (1995) di più di 3000 prigionieri di guerra talebani a Mazar-i-Sharif, in violazione della Convenzione di Ginevra, e di aver seppellito vivi diversi prigionieri di guerra nel massacro di Dasht-i Leili del 2001, nonché della pulizia etnica di intere borgate pashtun nel nord dell’Afghanistan, in collaborazione con l’Alleanza del Nord;
  • i partiti comunisti Khalq e Parcham potrebbero essere accusati di aver sempre aiutato gli invasori stranieri, e per la conseguente perdita di 1,3 milioni di vite.

In breve, sono pochissimi i partiti, locali o stranieri, ad uscire indenni dall’accusa di aver inflitto dolore e sofferenza al popolo afghano, durante quest’incubo durato tre decadi e mezzo.
Una volta che questi fatti venissero messi dentro l’equazione, i nuovi “eroi nazionali” dell’Afghanistan potrebbero essere visti sotto una luce molto diversa. Le mere prospettive di queste rivelazioni, come suggerito dal report “Mappatura dei conflitti in Afghanistan dal 1978”, recentemente completato dalla Commissione indipendente afgana per i diritti umani, pare abbiano provocato agli autori dei brividi lungo la spina dorsale.

Quando Ahmad Nader Nadery e il suo team formato da “alcuni dei maggiori esperti mondiali di medicina legale e … giustizia della transizione” hanno elencato nel dettaglio la posizione di 180 fosse comuni di civili o prigionieri, e hanno presentato al governo di Karzai i risultati dei loro sei anni di duro lavoro, il presidente stesso ha subito forti pressioni per eliminare la ricerca e licenziare Nadery.
Per alcuni membri del gabinetto il solo licenziamento del presidente della Commissione non era però una punizione sufficiente. Secondo il New York Times, il maresciallo Fahim aveva sostenuto che il licenziamento di Nadery sarebbe stato in realtà una punizione troppo lieve: “Dovremmo solo piazzargli 30 proiettili in faccia”.

Ma fino a quel giorno, se mai arriverà, o se in alternativa verrà istituita una Commissione per la verità e la riconciliazione in stile Sud Africa, spetta alle persone di coscienza misurare la gravità dei reati attraverso la sofferenza delle vittime, e non dalle pretese dei suoi perpetratori.
Non troveremo conforto nel difendere la posizione delle nostre affiliazioni etniche e le nostre alleanze politiche preferite. Semmai potremo trovare consolazione indirizzando la commissione di tali crimini contro l’umanità al più alto livello della nostra umanità, se mai saremo in grado di elevarci a tal punto.

*Zaman Stanizai è docente di tradizioni islamiche presso l’istituto universitario Pacifica di Santa Barbara, in California.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *