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Afgahnistan storia di una sposa bambina

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Osservatorioiraq – 15 Luglio 2013, di Anna Toro

sahar gul victim in baghlanLa liberazione anticipata degli aguzzini di Sahar Gul, sposa bambina sottoposta a indicibili torture da parte dei suoi suoceri, è solo l’ultima di una serie di attacchi legislativi e istituzionali alle conquiste femminili in fatto di diritti umani, civili e politici.

Un anno e mezzo fa le immagini di quella bambina afghana martoriata, piena di lividi e con i capelli strappati, avevano fatto il giro del mondo. Sahar Gul è stata venduta come sposa da suo fratello per 5000 dollari, quando aveva poco più di 12 anni.

L’idea dei suoi suoceri era di farla prostituire, ma al suo netto rifiuto è cominciata la tortura: i parenti acquisiti l’hanno incatenata in un bagno nel seminterrato, ridotta alla fame, picchiata, bruciata con tubi di metallo rovente. Succedeva nella provincia di Baghlan, nel nordest del paese.

Quando le autorità l’hanno finalmente trovata, era ridotta così male che l’hanno dovuta portar via dalla sua “prigione” con una carriola.
Il tribunale ha così condannato in primo grado i parenti acquisiti e la cognata a 10 anni di prigione. Da allora Sahar ha potuto ricominciare a vivere, recuperando salute fisica e psicologica grazie anche al lavoro delle associazioni umanitarie come Women for Afghan Women (WAW), che continua tutt’oggi a prendersi cura di lei.

Tutti in Afghanistan e all’estero avevano salutato le condanne dei tre aguzzini come un importante successo in fatto di diritti delle donne, dato che in passato questi casi non venivano trattati dai tribunali, o al massimo era la vittima a subirne le conseguenze.

Pochi giorni fa, però, per Sahar l’incubo si è nuovamente materializzato: i giudici, infatti, hanno ordinato il rilascio dei tre imputati, sostenendo che non vi sarebbe alcuna prova di abuso.
“Peccato che le persone che dovevano testimoniare contro di loro non avevano idea che l’udienza fosse in corso”, ha dichiarato al Guardian Kimberley Motley, avvocato americano che lavora a Kabul e che ha immediatamente preso in carico il caso.

La corte, infatti, avrebbe deliberato di fronte a un’aula quasi vuota: era presente solamente la difesa degli imputati, mentre la vittima non era stata nemmeno informata dell’udienza, come invece sarebbe obbligatorio anche secondo la legge afghana.
La giovane ha saputo del rilascio solo quando gli avvocati di Women for Afghan Women sono andati in tribunale a chiedere la data dell’appello, scoprendo che i tre imputati erano già stati assolti: “Non sappiamo dove siano ora, e Sahar Gul è molto spaventata, teme per la sua vita”, afferma il direttore esecutivo di WAW, Manizha Naderi.

L’avvocato Motley giudica fuori dalle regole anche la libertà accordata ai tre imputati ad appena due giorni dall’assoluzione, dato che “in Afghanistan esistono talmente tanti strati di scartoffie da compilare tra una condanna e la liberazione, che di solito trascorre almeno un mese”. Il suo giudizio è quindi amaro: “Ottenere il rilascio di clienti mi costa almeno sette giorni lavorativi, e questo solo se gli dedico il 100% del mio tempo e del mio impegno. Ma certo, io non pago tangenti…”.

PASSI INDIETRO
Le organizzazioni dei diritti umani parlano dell’ultimo di una serie di eventi che mostrano quanto “i diritti delle donne siano sotto attacco” nel paese, oggi più che mai. E le cose potrebbero anche peggiorare dato che in Parlamento sta per approdare una modifica al codice penale che, se approvata, bloccherebbe i casi come quello di Sahar Gul ancora prima di raggiungere il tribunale.
Si tratta infatti di una disposizione aggiunta al comma 1 dell’articolo 26, che elenca le persone che non possono essere interrogate come testimoni: la novità è che tra queste ci sarebbero anche “i parenti degli accusati”.

“Se si pensa che la maggior parte delle violenze contro le donne vengono compiute in famiglia si capisce come questa disposizione blocchi sul nascere qualsiasi tentativo di ottenere giustizia da parte delle donne abusate” è il parere dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani.
Ora la norma, per diventare legge, deve ancora essere approvata dal Senato e firmata dal presidente, anche se molti parlamentari accusano i conservatori di averla inserita a loro completa insaputa.
Insomma, a livello politico la battaglia è ancora aperta.
Così come quella per la difesa della legge sull’eliminazione della violenza contro le donne (Evaw), approvata da un decreto presidenziale nel 2009 e oggi attaccata, da più parti in Parlamento, oltre che resa vana dalla corruzione imperante anche all’interno del sistema giudiziario afghano.

Se a questo si aggiungono le dichiarazioni contro l’Evaw fatte da uno dei nuovi membri della Commissione afghana per i diritti umani (AIRCH), l’ex talebano Abdul Rahman Hotak nominato commissario proprio dal presidente Karzai, è evidente come anche questa legge stia affrontando oggi un vero e proprio assedio da più parti.
Ma non finisce qui: lo scorso maggio i conservatori sono riusciti a rimuovere, sempre in modo “subdolo” e silente, le cosiddette “quote rosa”, che stabiliva almeno il 25 per cento di rappresentanza femminile nella Camera alta. Anche in questo caso, non appena scoperta la mossa, le donne impegnate in politica hanno cominciato una battaglia per ottenere il reintegro del diritto, ripristino che al momento sarebbe in attesa di essere approvato dal Senato e dal presidente.

“CIVILIZZEREMO I TALEBANI”
Tutti questi attacchi alle conquiste femminili hanno messo in allarme gli attivisti e soprattutto le associazioni internazionali, che chiedono con forza un impegno più incisivo da parte del governo afghano nella salvaguardia dei diritti delle donne.
Ad esempio, il confronto in programma la settimana scorsa tra gli organi di controllo della Cedaw (tra cui Human Rights Watch), e la commissione afghana ad essa dedicata, non ha fatto che confermare i dubbi.
La Cedaw, la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, è infatti un trattato internazionale firmato dall’Afghanistan nel 2003 che “impone/richiede la parità di genere nell’accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria, e alla partecipazione politica”.

Ma, secondo HRW, il governo afghano starebbe “fallendo in molti modi nel portare avanti l’impegno assunto”, e questo nonostante la recente ratifica.
I membri del comitato afghano hanno sottolineato molti dei problemi che HRW aveva già evidenziato, come le numerose leggi che discriminano esplicitamente le donne e la difficoltà nell’attuare quelle poche leggi buone che ci sono. Ma, contemporaneamente, ne hanno minimizzato altri, come i matrimoni precoci e l’estrema difficoltà per le donne nel chiedere e ottenere il divorzio.
“Quando si ratifica una convenzione, non si ottiene solo una pacca sulla spalla ma ci sono anche degli obblighi di cui rispondere”, commenta in un comunicato la rappresentante di HRW in Afghanistan Heather Barr. Preoccupazioni che si sommano a quelle sui negoziati con i talebani, che gettano più di un’ombra sul futuro delle donne nel paese, insieme al paventato abbandono da parte della comunità internazionale.

“Spesso il governo e i talebani hanno una visione comune quando si tratta di donne” afferma la parlamentare Shukria Barakzai, attivista per i diritti femminili e conosciuta anche come “la donna temuta sia dalla Nato sia dai talebani” per non aver mai nascosto le sue opinioni e le sue condanne.
Tuttavia, afferma che fare entrare i talebani in Parlamento potrebbe essere l’unica via per la pace: in questo modo, secondo Barakzai essi sarebbero costretti a seguire la legge e porre fine ai loro principi violenti: “L’unica differenza tra i talebani di prima e i talebani di ora è che non sono più gli uomini dai turbanti usurati, ma la maggior parte veste abiti eleganti. Tuttavia, le loro idee sono le stesse di prima. Ma noi – continua ottimista – li civilizzeremo”.

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