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A Kabul non arriva la Primavera. Festa delle donne in Afghanistan dove si lotta per restare vive

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l’Unità – 13 marzo 2013 di Cristiana Cella

13marzo 150x150Nonostante i divieti dei talebani il Partito della Solidarietà che si batte contro i fondamentalismi e per i diritti ha riunito 1500 esponenti. «L’Occidente non si dimentichi di noi»

Ben 1500 donne sono arrivate nella sala di un hotel di Kabul, da tutte le province afghane, con ogni mezzo, da tutte le province afghane. Attiviste e cittadine comuni, che si stringono, una accanto all-altra, che ascoltano commosse, si abbracciano, condividono una giornata e un impegno per il futuro. Ci sono anche i bambini, nelle prime file, e molti uomini, al loro fianco.

Da festeggiare c’è poco. L’8 marzo a Kabul, ha un forte significato di lotta e di denuncia per Hambastagi, il Partito della Solidarietà, che ha organizzato venerdì scorso, un grande evento nella capitale. E non potrebbe essere altrimenti date le condizioni di violenza e ingiustizia in cui è costretta a vivere la maggior parte delle donne afghane. Un evento molto impegnativo per un partito con pochi mezzi, che conta solo sui suoi aderenti e sul sostegno di movimenti democratici occidentali, ma che raggiunge nel paese più di 30.000 iscritti.

Poco conosciuto sui media occidentali, il Partito di sinistra, fondato nel 2004, si batte contro ogni forma di fondamentalismo islamico, contro l’occupazione straniera e per una democrazia laica che garantisca diritti a tutti, specialmente alle donne. Valori difficili da affermare, oggi, in Afghanistan.

Le intimidazioni, da parte dei partiti islamisti, ricevute dai militanti, non si contano. Nel maggio dell’anno scorso, Hambastagi era stato minaccia- to di scioglimento dal governo Karzai e accusato di insulto alla jihad, per aver organizzato una manifestazione, molto partecipata, che chiedeva giustizia per le vittime della guerra civile (‘92/’96) e la deposizione dei criminali di guerra che ricopro- no incarichi istituzionali. La solidarietà internazionale di partiti progressisti e organizzazioni umanitarie, ha convinto il governo a fare marcia indietro.

Ma organizzare questo evento era, comunque, una grande sfida. «È nostro dovere, oggi, far sentire la vera voce delle donne afghane e dire la verità sugli infiniti soprusi che devono subire e sui loro responsabili», dice Saman Basir, combattiva leader dell’ala femminile del Partito. È sta- to un successo al di là delle aspettative degli orga- nizzatori. Un programma ricco, intenso e molto chiaro: messaggi politici, da ogni parte del Paese, in farsi e pashtun, confronti, musica, poesia, teatro.

La colonna sonora è stata affidata al gruppo «Morcha», ossia «le formiche», musica pop-rock e parole forti contro l’occupazione, i signori della guerra e il loro governo. Il gruppo, sempre più popolare tra i giovani, rischia di essere bandito dal Paese proprio per il significato politico delle sue canzoni. 30 anni di guerra e occupazione so- no stati messi in scena, in una suggestiva sintesi, da un gruppo teatrale di donne.

È Saman a spiegarci il messaggio politico di questa importante giornata. «Non è vero, come sbandiera la propaganda Usa, che la condizione delle donne sia migliorata sensibilmente negli 11 anni di occupazione. In realtà i vantaggi ottenuti riguardano una minima parte delle afghane e solo nelle grandi città. Nelle zone rurali la situazione è disastrosa. I diritti delle donne sono solo una carta da giocare per interessi politici, la scusa per rimanere in Afghanistan». Un Paese che è diventato, come dice Saman, una prigione per le donne. La violenza domestica colpisce, secondo gli ultimi dati, il 90% della popolazione femminile, ragazze e donne so- no quotidianamente vittime di aggressioni sessuali, vendute e scambiate in matrimonio, ancora bambine, non hanno accesso all’istruzione, alla giustizia, alle cure mediche, all’assistenza al par- to.

Le autoimmolazioni sono state 2300 nel 2011. A tutto questo si aggiunge, racconta Saman, un nuovo fenomeno, molto preoccupante. Continuano ad aumentare rapimenti e stupri di ragazzine da parte di gang e gruppi armati al servizio dei comandanti locali, legati ai warlords al governo. Una violenza che può trasformarsi in una condanna a morte, dove la sharìa detta legge. I «delitti d’onore sono spesso la tappa finale di queste tragiche storie. Sono le famiglie stesse a spegnere nel silenzio la vita delle vittime o a spingerle al suicidio, per cancellare la vergogna che si portano dietro.

Da dove parte questa catena di ferocia? «Con l’occupazione straniera – , afferma Saman . è tornata al potere la maledizione dei “Signori della Guerra”»: warlords medievali, irremovibili nel lo ro rifiuto di ogni processo democratico e nella negazione delle libertà civili e dei diritti delle donne, come i Talibani che hanno sostituito.

Gli afghani li conoscono bene per i crimini commessi, soprattutto contro le donne, durante la guerra civile (‘92/’96’). Affidare a loro il governo del Paese e l’applicazione di leggi democratiche è stato catastrofico. In questi anni sono diventati sempre più ricchi e potenti, saccheggiando i milioni di dollari piovuti sul Paese e gestendo la giusti- zia con leggi tribali.

Così l’Afghanistan è il secondo Paese al mondo per corruzione, il maggior produttore mondiale di oppio (90%), il più pericolo- so per le donne, con un’altissima impunità per i delitti commessi contro di loro e la più alta mortalità materna. Il «sistema» dei warlords, ha devastato la vita delle donne, che diventa ancora più drammatica nelle zone sotto il controllo talebano. Mentre la popolazione civile paga il prezzo più alto dei loro feroci attacchi: il 77%, dei 3021 morti del 2011, sono opera loro.

Non è un gran risultato dopo 11 anni di combattimenti incessanti, di cui donne e bambini sono le vittime più frequenti. Gli interventi che si susseguono sul palco ribadiscono la ferma convinzione che nessuna occupazione straniera potrà mai portare libertà e diritti. I diritti delle donne non sono un «regalo» né una merce di scambio sul tavolo delle trattative politiche. Sono una conquista. Di questo le donne di Hambastagi sono fermamente convinte, per questo lavorano soprattutto nel campo dell’istruzione femminile.

«Le nostre donne potranno ottenere eguali diritti e cambiare le loro condizioni di vita solo se combatteranno loro stesse in prima persona, insieme. I diritti di cui godono oggi le donne negli altri paesi sono il frutto di decenni di lotte. Sono queste le sole conquiste stabili e difendibili. Solo gli afghani possono liberare l’Afghanistan, e solo se saranno uniti». Ci vorrà molto tempo, ma il Partito della Solidarietà coltiva la speranza di una «primavera afghana» e lavora per questo.

Un sogno condiviso dalle centinaia di donne presenti in questo 8 marzo di Kabul.

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