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Pentagono. L’Afghanistan rimane un disastro

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Rinascita, 14 dicembre 2012 di Ferdinando Calda

L’ultimo rapporto del Pentagono sull’Afghanistan sembra assomigliare impietosamente a quelli degli anni scorsi, quando analisti e generali sottolineavano la violenza diffusa, la drammatica impreparazione delle truppe afgane, la corruzione endemica, l’incapacità del governo centrale e la tenacia dell’insorgenza. In pratica niente di nuovo, se non fosse che adesso gli Stati Uniti e i loro alleati Nato si devono preparare alla fine della loro missione, cercando di non ammettere l’inutilità (e la dannosità) di oltre dieci anni di sanguinosa e costosa guerra.

Mercoledì il segretario alla Difesa Usa, Leon Panetta è volato in Afghanistan (a sorpresa, come da sempre impone la sicurezza) per discutere con il presidente afgano Hamid Karzai e i comandanti Usa del piano per il ritiro dei militari stranieri e del futuro dell’impegno statunitense nel Paese.
Secondo i rumors della stampa statunitense, il generale John R. Allen, comandante delle truppe Usa e Nato in Afghanistan, vorrebbe mantenere la maggior parte dei 68mila soldati Usa in Afghanistan almeno fino al prossimo autunno, mentre la Casa Bianca – stando a fonti militari – potrebbe spingere per un ritiro più rapido.

L’implicazione politica delle decisioni sull’Afghanistan emerge anche dalla tempistica con cui il Pentagono ha consegnato l’ultimo “Rapporto sui progressi verso la sicurezza e la stabilità in Afghanistan”. Un documento richiesto due volte l’anno dal Congresso che sarebbe dovuto essere pronto già lo scorso mese, prima delle elezioni presidenziali, ma il Pentagono ne ha rinviato la pubblicazione senza fornire alcuna spiegazione.
Nel rapporto, che riguarda il periodo tra il primo aprile e la fine di settembre, i militari sottolineano che attualmente solo una delle 23 brigate dell’esercito afgano (Ana) è in grado di operare in modo indipendente, senza l’assistenza delle truppe Usa e Nato. Inoltre il livello di violenza nel Paese è superiore rispetto a due anni fa, quando gli Stati Uniti rafforzarono la loro presenza nel Paese con il “surge” statunitense voluto dal presidente Barack Obama.

 

Allo stesso tempo, l’incremento delle truppe straniere non sembra aver intaccato sensibilmente l’insorgenza talibana, che, scrive il rapporto, “resta determinata e conserva la capacità di piazzare un numero consistente di Ied (ordigni esplosivi improvvisati) e condurre attacchi isolati di alto profilo”. Oltre a mantenere “una notevole capacità di rigenerarsi”. Secondo il Pentagono, continuerebbe in maniera pressoché invariata anche il supporto del Pakistan agli insorti.

A questo si aggiunge un continuo indebolimento del governo centrale in tutto il Paese, dovuto soprattutto alla “corruzione diffusa”, unita all’impossibilità di accesso delle forze governative “nelle zone rurali a causa della mancanza di sicurezza”, alla “carenza di coordinamento tra governo centrale, province e distretti” e agli squilibri nella “distribuzione del potere tra potere giudiziario, legislativo ed esecutivo”.
I progressi registrati dal rapporto sono pochi e valgono come magre consolazioni. Le violenze sarebbero diminuite rispetto alla sanguinosissima estate “record” del 2010, specialmente nelle aree più popolate, come la capitale Kabul o la grande città meridionale di Kandahar. I rapporti tra Usa e Pakistan registrano un discreto miglioramento a livello generale, e la capacità degli insorti di sferrare attacchi diretti sarebbe in calo, con un aumento di “solo” l’1% degli attacchi rispetto all’anno precedente. (“Gli attacchi sono diminuiti perché i soldati stranieri rimangono chiusi nelle loro basi”, hanno fatto notare di recente i talibani in un comunicato).

Gli insorti, sottolinea il rapporto del Pentagono, ricorrono sempre più spesso a “omicidi, sequestri, tattiche intimidatorie, incoraggiamento degli ‘insider attack’’”. Apparentemente con successo, dato che gli attacchi di soldati o agenti afgani contro gli “alleati” stranieri sono passati dai due del 2007 agli almeno 37 di quest’anno.
Tra i progressi, i militari statunitensi indicano anche il crescente numero di occasioni in cui le forze di sicurezza afghane – ufficialmente 350mila unità tra soldati e poliziotti – sono in prima linea in operazioni di pattugliamento. Una buona notizia per Washington, un po’ meno per Kabul. Questa “afganizzazione” del conflitto, infatti, da un lato aiuta a diminuire le vittime tra i soldati Usa (in calo da un paio di anni dopo il record di 499 morti del 2010), ma dall’altro aumenta esponenzialmente i caduti tra le fila afgane. Secondo i dati ufficiali diffusi dal ministero della Difesa di Kabul, ogni mese muoiono oltre 300 membri di polizia ed esercito.

Attaccata la base visitata da Panetta
Ieri pomeriggio un’auto bomba è esplosa vicino a alla base aerea Nato nella città meridionale di Kandahar, visitata poco prima dal segretario alla Difesa Usa Leon Panetta. “L’attentatore suicida ha fatto esplodere l’auto quando un convoglio dell’Isaf si accingeva a entrare nella base”, ha spiegato il capo della polizia locale, il generale Abdul Razeq. L’Isaf ha confermato l’attacco senza entrare nei dettagli. Secondo diverse fonti, tra i civili ci sarebbero almeno tre morti e una ventina di feriti. Inoltre, tre soldati Usa sarebbero rimasti gravemente feriti. Successivamente fonti statunitensi hanno confermato che nella stessa giornata di ieri Panetta aveva visitato per circa tre ore la base di Kandahar, ma al momento dello scoppio si era già imbarcato su un aereo diretto a Kabul.

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