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Insultare come arma dei talebani

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Viewpoint online, 6/07/2012, n.108 di Sahar Saba

La maggior parte degli afghani non teme tanto la brutalità dei talebani quanto i loro insulti.

Durante il regime dei talebani i miei genitori si trasferirono in Afghanistan insieme a due dei miei fratelli, lasciando il resto della famiglia in un campo profughi a Peshawar. Erano membri di un’organizzazione clandestina progressista e ripresero a militare nella resistenza clandestina. Uno dei miei fratelli, che studiava a Rawalpindi, visitò i miei genitori durante le vacanze estive. Come la maggior parte degli adolescenti, aveva i capelli lunghi.  Durante il regime talebano, ai ragazzi giovani non era permesso di farsi crescere i capelli. Eppure, nonostante gli avvertimenti di mio padre, mio fratello rifiutò di tagliarsi capelli. Era orgoglioso dei suoi capelli lunghi. “Sto solo qualche giorno, non mi individueranno”, rispose.

La mia famiglia viveva in un sobborgo in cui sia i Talebani che la polizia si recavano raramente. Ma la sfortuna volle che mio fratello un giorno fu avvistato da una squadra di talebani che arrivò nel quartiere. Urlarono a mio fratello imprecando per i suoi capelli lunghi e gli ordinarono di fermarsi. Terrorizzato, mio fratello decise di fuggire. Poiché conosceva le strade, riuscì a tornare a casa sano e salvo.

Tuttavia, mio fratello era stato visto correre e la gente, forse minacciata, rivelò dove si trovava. Nel giro di un’ora i talebani  arrivarono a casa nostra e chiesero di perquisire la casa.

Mio padre non era in casa. Mia madre si ergeva coraggiosamente davanti alla porta, dicendo loro che avrebbe fatto resistenza. Un altro fratello di quasi 18 anni presente alla scena, all’idea che i talebani potessero arrestare mia madre, disse: “Dal momento che mio fratello non è in casa, potete punire me per il suo crimine”.

I talebani furono d’accordo e gli rasarono la testa per la strada. Per anni, mio fratello ha vissuto con il trauma di quell’insulto pubblico.

Fu allora che mi resi conto che i talebani usavano l’insulto come una potente arma pubblica. Sia la stampa che le organizzazioni dei diritti umani spesso riportano vari tipi di punizione pubblica: per il furto è l’amputazione, per l’adulterio è la lapidazione a morte, per lo spaccio di droga è  essere sepolti vivi sotto un muro, per l’immodestia sono le frustate. Il Talibena è ritratto come brutale, assurdo, colpevole di oscurantismo e di oppressione nei confronti delle donne.

 

A mio avviso, i media occidentali hanno opportunamente etichettato i talebani con questi attributi negativi molto prima dell’occupazione.  Queste divennero  poi  le ragioni per cui l’imperialismo decise di intervenire. In altre parole, l’imperialismo deve preparare il terreno per una occupazione o un piano di colonizzazione demonizzando il nemico. Chiaramente, le assurdità e le brutalità commesse dei talebani i non possono essere spiegate come normale strumento di oppressione politica. In realtà la tecnica specifica di insultare g uomini e donne afgane è stata trascurata dai media occidentali.

Esaminiamo ora come il corpo delle donne sia diventato una vittima sistematica di questa politica. Umiliando pubblicamente le donne per  “offese minori”  quali portare i tacchi alti o ridere ad alta voce, i talebani hanno  sventato ogni possibile resistenza. In Afghanistan, in cui le strutture patriarcali sono forti, gli uomini cercano di proteggere le donne seguendo  docilmente le istruzioni dei talebani nella sfera pubblica. In pratica, per risparmiare le donne dalla pubblica umiliazione, gli uomini afghani le custodiscono gelosamente. Così i talebani sono stati in grado di ottenere il controllo sulla vita pubblica e privata delle persone.

Personalmente ritengo che la maggior parte degli afghani non teme tanto la brutalità dei talebani quanto i loro insulti. Questo strumento è stato anche generosamente utilizzato in Pakistan.

Un esempio che illustra l’approccio dei talebani a Swat è quello di un’insegnante di scuola che lavorava per mantenere i suoi figli. Venne etichettata come una prostituta, costretta a indossare cavigliere sonanti ai piedi e uccisa dopo essere stata spietatamente umiliata.

Il caso di Pir Samiullah è ancora più eloquente. Samiullah è stato il primo leader tribale di Swat che ha fatto insorgere un intero Lashkar, o esercito tribale, contro i talebani. I membri della comunità Gujjar, Pir Samiullah ei suoi seguaci, affermano di aver organizzato più di 10.000 membri della tribù per proteggere 20 villaggi. Pir Samiullah  venne ucciso dai talebani  insieme ad alcuni dei suoi seguaci.

Poiché non venne catturato vivo, dopo la sua morte e la sepoltura, i talebani dissotterrarono il suo corpo per appenderlo in pubblico. Alcuni pensavano che la profanazione del corpo di Pir Samiullah avvenne a causa di differenze ideologiche, ma un portavoce dei talebani, parlando con un corrispondente della BBC Urdu, ha chiarito che questo è stato fatto ”per dimostrare che coloro che si oppongono talebani non otterranno sepoltura.” Di conseguenza, essi non si limitarono  a brutalizzare il  nemico, ma giunsero anche  ad umiliarlo.

Episodio Pir Samiullah non è una novità. In Afghanistan i Talebani hanno  riservato lo stesso trattamento al dottor Najibullah e a suo fratello.  Arrivati a Kabul grazie ai loro protettori pakistani, i Taebani picchiarono, castrarono e uccisero il dottor Najibullah. Il suo corpo intriso di sangue venne appeso ad un palo della luce con la bocca piena di dollari USA. Un alto membro della milizia dei talebani, Mullah Muhammad Rabbani, ha sostenuto che Najibullah meritava questo destino: “.. Ha ucciso così tante persone islamiche; era contro l’Islam e aveva commesso tanti crimini. Era ovvio che doveva succedere: era un comunista”. Ancora una volta, un nemico è stato brutalmente ucciso, disumanizzato e insultato.

[ndr. seguono alcuni estratti dal Lahore Daily Times di alcuni anni fa].

Coloro che in Occidente teorizzano la funzione dei Talebani come una forza di resistenza Pashtoon o anti-imperialista,  dovrebbero mettere alla prova la loro ipotesi teorica in un viaggio attraverso alcuni posti di controllo talebani!

Sahar Saba è un’attivista per i diritti delle donne afghane. Per molti anni, è stata portavoce di Revolutionary Afghan Women Association (RAWA). Inoltre, ha lavorato con RAWA per molti anni nei campi profughi in Pakistan e in Afghanistan conducendo diverse attività. Negli ultimi anni ha viaggiato in molti paesi per parlare a nome delle donne afghane. E ‘nata a Kabul. La sua famiglia si trasferì in Pakistan, dove Sahar Saba divenne attivista di RAWA.  E’ laureata in giurisprudenza presso l’Università di Londra e scrive sui problemi e le difficoltà delle donne afgane.

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