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Leghiamo a noi i sogni delle donne afghane: progetto VITE PREZIOSE

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LE STORIE
Il racconto di Saniya arriva da lontano, da Laghman, Afghanistan. Potrebbe chiamarsi: il «Fiancé». «Ho 28 anni. Tutto è cominciato quando mi sono sposata. Ricordo quel giorno nei minimi particolari».
«Ho 13 anni. Mio padre mi ha promessa da tempo e devo fare il mio dovere. Mia madre cerca di consolarmi: tuo marito non è brutto, è sano. Può bastare, dice. L’ho visto, da uno spiraglio della porta. No, non è brutto e almeno non è vecchio come quello di mia sorella. L’aria sa di nuovo, è quasi primavera. Aspetto qui, nella stanza dove sono cresciuta. Gli ospiti sono arrivati, il cibo pronto. Ma la festa non comincia. “Che succede, perché ?”. Le voci si alzano, le porte sbattono. Il mio fiancé, come lo chiamavo con le mie sorelle, non è arrivato. Il futuro suocero dice che non mi vuole più. Litiga con mio padre. La mamma piange. A me non importa, improvvisamente respiro di nuovo. Il mio fiancé non mi vuole e non lo voglio nemmeno io. Tutto è sistemato, rimango a casa mia. L’illusione dura poco. Bisogna riparare l’offesa e non si può sprecare tutto quel cibo. Il suocero pagherà di più, ha altri figli. Il fiancé non brutto è sostituito dal fratello maggiore. Gli uomini sono contenti, il matrimonio si fa. L’onore è salvo e il riso si mangerà. Questo marito di riserva è brutto, strano, silenzioso. Sordomuto. Adesso sono proprietà della sua famiglia. Di tutti. È così che funziona? Il primo fiancé che non mi voleva, adesso mi vuole, tutte le notti, e mi vuole anche suo padre. Sto zitta se no mi picchiano. Lo fanno spesso. Devo essere sorda e muta, come il mio sposo. Quattro figli, tre maschi, una femmina sola, per fortuna. Nessuno è di mio marito. Ma sono miei, tutto quello che ho. Un giorno il fiancé e suo padre portano a casa altri uomini, sconosciuti. “È una bella notizia” dicono. “Finalmente servirai a qualcosa! Vedi? Pagano per te!”, dice mio suocero, mettendo in tasca i soldi. C’è un limite che non si deve superare. Basta. Sono di nuovo incinta, non so di chi. Prendo il bambino più piccolo e scappo. Via dal fiancé che non era brutto e dagli uomini che mi hanno resa brutta. Ho avuto fortuna, in fondo. Mio figlio è nato nella casa protetta. Non sono più sola. Voglio il divorzio da mio marito. E poi? Il sogno: vivere da sola con i miei bambini, un piccolo lavoro, così la vita avrà davvero quell’odore di nuovo».
Saniya è adesso al sicuro nella casa protetta di Hawca a Kabul, uno dei pochi luoghi del paese nei quali le donne maltrattate possono trovare aiuto. Ma non può restarci per sempre. Ha diritto a una nuova vita. Le avvocatesse di Hawca stanno cercando di ottenere il divorzio. Per avviare un futuro diverso ha bisogno di aiuto: deve essere in grado di mantenersi, pagare una casa sua, avere un lavoro, così otterrà la custodia dei figli. E potrà, forse, dimenticare la casa del fiancé.
Lena, invece, vuole salvare sua figlia, perché non debba un giorno raccontare una storia come quella di Saniya. Ecco il suo racconto che ci arriva da Herat. «Ho 45 anni, qui sono tanti. Un tempo non era così. 30 anni di guerra si sono portati via tutto quello che avevamo. Ora abitiamo in una casa diroccata per la quale paghiamo l’affitto. Mio marito è debole e malato e non è in grado di lavorare. I miei figli, due maschi, ancora ragazzini, vanno tutto il giorno a mendicare e a frugare nelle discariche. È così che campiamo. Ma qualcosa di peggio può sempre succedere. Mio marito un giorno mi ha detto: “Non è vero che non abbiamo niente, abbiamo una figlia in età da marito”. Ha 14 anni. Adesso ogni volta che la guardo ho paura che lui la venda a qualche uomo sconosciuto. Non è cattivo mio marito, lo ha deciso per farci vivere un po’ meglio. “Per la famiglia bisogna sacrificarsi”, dice. Lo so che da noi succede così ma non posso accettarlo. Non si vende una figlia a qualche diavolo di passaggio per campare qualche mese. Voglio salvare la mia bambina, e convincere mio marito a costruire una vita più decente, voglio trovare un lavoro per smettere di mendicare e per poter mandare a scuola i nostri figli».
Lena si è rivolta al Centro di assistenza legale ad Herat. Il personale di Hawca ha discusso a lungo con il marito: se le loro condizioni economiche fossero meno critiche, sarebbe d’accordo a non vendere la figlia.
Queste storie sono state raccolte per l’Unità, insieme alle altre (che saranno pubblicate nei prossimi giorni sul sito), dal personale della ong afghana che, nelle case protette e con i centri di aiuto legale, assiste le vittime della violenza, del fondamentalismo e della guerra. Costituiscono il primo nucleo del progetto di solidarietà “Vite Preziose”, che cercherà di contribuire a cambiare il futuro di 20 donne afghane, di dare un’altra chance alla loro vita. L’idea che ha dato inizio a questo lungo e paziente lavoro, nasce proprio dai nostri lettori. Dopo la pubblicazione dei racconti da Kabul sulle donne afghane, l’estate scorsa (30/31/07,02/08), alcune persone mi avevano scritto proponendosi di aiutarle con un sostegno mensile, come un’adozione a distanza. Perché potessero liberarsi dai loro aguzzini e ricostruirsi una vita con i loro figli. Il generoso messaggio è stato raccolto e ora siamo pronti a metterlo in pratica, costruendo un ponte tra la nostra società civile e quella afghana, tra la nostra vita e la loro. Donne mature, ragazze, bambine, ci hanno aperto la porta delle loro vite umiliate con estrema dignità. Nessun lamento, solo la crudezza della realtà che vivono. Qualche frase, ogni tanto, ricorrente: «Non ne posso più della vita», «Non ho desideri per il futuro», quasi in sordina, con pudore.
Come le voci del coro di una tragedia infinita, consumata quasi sempre nel silenzio. Non è facile ascoltarle. Ci parlano di condizioni di vita per noi inimmaginabili, fatte di violenza feroce, povertà estrema, pregiudizio, abbandono, ingiustizia. Di persone escluse da ogni elementare diritto umano. Ci raccontano la prigione delle loro case, la crudeltà di padri, mariti, suoceri e cognati. L’impossibilità di essere curate, rispettate, di lavorare, di istruirsi, di vivere. La tossicodipendenza, sempre più diffusa, che aggrava ulteriormente la violenza domestica. E ci parlano anche dei loro sogni che possiamo, adesso, contribuire a realizzare: una vita normale, quella che noi viviamo ogni giorno.
Racconteremo via via, sul giornale e sul sito, i piccoli e grandi cambiamenti delle loro storie, per partecipare alle loro conquiste e condividere la loro speranza. Accanto a loro, nella battaglia quotidiana per i loro diritti, ci sono donne testimoni di un altro Afghanistan. Donne che permettono con competenza e coraggio il riscatto delle loro vite. Il nostro aiuto nelle loro mani è uno strumento prezioso di libertà e di cura.
«Uno strumento fondamentale per le ragazze e le donne afghane costrette ancora a subire ogni tipo di abuso – dice Selay Ghaffar, presidente di Hawca –. Il contributo di uno sponsor è in grado di cambiare l’esistenza di ognuna di loro in modo radicale. Può salvare una bambina da un matrimonio forzato, una donna dal suicidio, dal mendicare nelle strade, dalla prostituzione forzata, dall’analfabetismo, dalla morte per percosse o per malattie che non vengono curate, o dall’essere vendute per un pezzo di pane per la famiglia. La sponsorizzazione di chi si batte al nostro fianco per i diritti delle donne, è, per noi, più valida perfino di un progetto da milioni di dollari perché interviene direttamente nelle condizioni di chi ha bisogno di aiuto e produce effetti immediati».
I PROGETTI A CUI ADERIRE

1) STORIA DI SANIYA: IL “FIANCE’”
Mi chiamo Saniya e vengo dalla provincia di Laghman.
Ho 13 anni. Mio padre mi ha promessa da tempo e devo fare il mio dovere. Mia madre cerca di consolarmi: tuo marito non è brutto, è sano. Può bastare, dice. L’ho visto, da uno spiraglio della porta. No, non è brutto e almeno non è vecchio come quello di mia sorella. L’aria sa di nuovo, è quasi primavera. Aspetto qui, nella stanza dove sono cresciuta. Gli ospiti sono arrivati, il cibo pronto. Ma la festa non comincia. ‘Che succede, perché ?’. Le voci si alzano, le porte sbattono. Il mio “fiancé”, come lo chiamavo con le mie sorelle, non è arrivato. Il futuro suocero ha detto che non mi vuole più. Litiga con mio padre. La mamma piange. Ma a me non importa, improvvisamente respiro di nuovo. Il mio fiancé non mi vuole, e non lo voglio nemmeno io. Tutto è sistemato, rimango a casa mia. Ma l’illusione dura poco. Bisogna riparare l’offesa e non si può sprecare tutto quel cibo. Il suocero pagherà di più, ha altri figli. Il fiancé non brutto è sostituito dal fratello maggiore. Gli uomini sono contenti, il matrimonio si fa. L’onore è salvo e il riso si mangerà. Questo marito di riserva è brutto, strano, silenzioso. Sordomuto. Adesso sono proprietà della sua famiglia. Di tutti. E’ così che funziona? Il primo fiancé che non mi voleva, adesso mi vuole, tutte le notti, e mi vuole anche suo padre. Sto zitta se no mi picchiano. Lo fanno spesso. Devo essere sorda e muta, come il mio sposo. Quattro figli, tre maschi, una femmina sola, per fortuna. Nessuno è di mio marito. Ma sono miei, tutto quello che ho. Un giorno il fiancé e suo padre portano a casa altri uomini, sconosciuti. ‘E’ una bella notizia,’ dicono. ‘Finalmente servirai a qualcosa! Vedi? Pagano per te!’, dice mio suocero, soddisfatto, mettendo in tasca i soldi. C’è un limite che non si deve superare. Basta. Sono di nuovo incinta, non so di chi. Prendo i bambini più piccoli e scappo via, via dal fiancé che non era brutto e dagli uomini che mi hanno resa brutta.
Ho avuto fortuna, in fondo. Mio figlio è nato nella casa protetta, nella vita protetta. Non sono più sola. Voglio il divorzio da mio marito. E poi? Il sogno: vivere da sola con i miei bambini, un piccolo lavoro, così la vita avrà davvero quell’odore di nuovo.
PROGETTO PER SANIYA. (sostegno mensile)
Saniya è adesso al sicuro nella casa protetta di Kabul. Le avvocatesse di Hawca stanno cercando di ottenere il divorzio. Per realizzare il suo sogno deve essere in grado di mantenersi, così potrà ottenere la custodia dei figli. La sponsorizzazione (un anno) serve a comprare per lei delle macchine per ricamare in modo che possa aprire una piccola attività in una casa sua e avviarla. E serve anche per mandare a scuola i bambini.
2) STORIA DI LENA: FIGLIA
Sono di Herat. Ho 45 anni, qui sono tanti. Un tempo stavamo meglio. 30 anni di guerra si sono portati via tutto quello che avevamo. Ora abitiamo in una casa diroccata per la quale paghiamo l’affitto. Mio marito è debole e malato e non è in grado di lavorare. I miei figli, due maschi, ancora ragazzini, vanno tutto il giorno a chiedere l’elemosina e a frugare nelle discariche. E’ così che campiamo. Ma qualcosa di peggio può sempre succedere. Mio marito un giorno mi ha detto: ‘Non è vero che non abbiamo niente, abbiamo una figlia in età da marito.’ Ha 14 anni. Adesso ogni volta che la guardo ho paura. Ho paura che lui la venda a qualche uomo sconosciuto. Non è cattivo mio marito, lo ha deciso per farci vivere un po’ meglio. Per la famiglia bisogna sacrificarsi, dice. Lo so che da noi succede così ma non posso accettarlo. Non si vende una figlia a qualche diavolo di passaggio per campare qualche mese. Voglio salvare la mia bambina, e convincere mio marito a costruire una vita più decente, a trovare un lavoro per smettere di mendicare e per poter mandare a scuola i nostri figli.
PROGETTO PER LENA (sostegno mensile)
Lena si è rivolta al Centro Legale di Herat. Hawca ha parlato con il marito. Se le loro condizioni economiche fossero meno critiche, sarebbe d’accordo a non vendere la figlia. Il sostegno quindi serve per evitare alla ragazza il matrimonio forzato e per aiutare Lena a organizzarsi un lavoro, al quale anche la figlia potrebbe contribuire, migliorando le condizioni di tutta la famiglia.
3) STORIA DI BASERA: PIETRE
Mi chiamo Basera e ho 14 anni. Vivo nella provincia di Bamyan, nel centro dell’Afghanistan. Tutto è cominciato dalla scuola. Non perché io ci andassi, no. Non c’era ancora, la stavano costruendo, non lontano da casa mia. Chissà se mio padre mi avrebbe permesso di frequentarla? Intanto era solo un mucchio di pietre. Ma c’era movimento, gente che veniva da fuori, per portare i materiali da costruzione.
Lui passava col camion, ogni giorno. Portava le pietre, rotolavano giù, con quel suono di cascata, la polvere entrava in casa. Un pomeriggio, il suo camion è andato a sbattere contro un albero. Mio padre lo ha tirato fuori, non si era fatto niente, purtroppo. Intorno a quell’albero ha girato la mia vita, come girano i jin, gli spiriti. Dalla parte sbagliata. Mio padre ha accolto in casa Sarvar, così si chiama, e gli ha offerto il tè. L’ho preparato io e gliel’ho portato. Mi ha guardato, in un modo che non avevo mai visto. Non mi piaceva. Il futuro, da noi, ti arriva addosso e non puoi fare niente, ma lo senti arrivare. Mi tremavano le mani e mi sono vergognata perché le tazze tintinnavano. Lui si è messo a ridere, anche mio padre. Mi sono coperta con il velo e sono scappata via. Da quel giorno è venuto spesso a casa, quando passava col camion. Mi cercava con gli occhi, immobile, come il gatto col topo. La mia famiglia si è spostata in un altro villaggio, a Elaq, è venuto anche lì. Mio padre era contento, Sarvar gli piaceva. Ma quel giorno la mia famiglia non c’era. Ero sola, lavavo le pentole. Lui ha capito, ha sorriso. E’ entrato in casa, da padrone. Non sapevo cosa fare, le gambe di pietra. L’acqua saponata, per terra, scorreva via. Caldo, silenzio, solo le mosche si sentivano. Non sono riuscita neanche a gridare. Senza suoni poteva non esistere. Sono scappata nella stalla quando son tornati i miei. Mia madre mi ha sgridato perché non avevo finito di lavare le pentole. Non ho detto niente. Ancora silenzio. Una paura basta. Quando mio padre mi guardava scappavo via. Ma lo sapevo, ogni mattina, quando mi svegliavo. Il bambino nella pancia non poteva nascondersi ancora per molto. Mia madre ha capito. Ha urlato parole cattive. La vergogna della famiglia. Non si può affrontarla quella. Mio padre non doveva sapere. Avremmo risolto da sole la faccenda. Da sole? Come? Non mi ha risposto. Silenzio, di nuovo.
Mi ha svegliato, a notte fonda, mi ha portato nella stalla. Mi ha tagliato il ventre con un coltello per togliere il bambino. Ha chiesto aiuto a mio fratello. Lui non voleva. Poi gliel’ho chiesto io e allora è venuto con ago e filo e mi ha ricucito la ferita. Ma qualcosa è andato storto, continuavo a perdere sangue, anche quello non poteva nascondersi. Il dolore di pietre nella pancia. Mio padre ha saputo. Mi hanno portato all’ospedale e mi hanno curato. Lì si poteva parlare. Intanto mio padre ha trovato Sarvar. Lo hanno arrestato, volevano arrestare anche mia madre. Mio fratello è andato in prigione al suo posto. Ora sono qui, al sicuro. Sto meglio. Ma non posso starci per sempre. Vorrei tornare a casa ma ho paura che mio padre mi uccida. Vorrei vivere e vorrei tanto andare a scuola.
IL PROGETTO PER BASERA (sostegno mensile)
In questo momento Basera è al sicuro nella casa protetta di Hawca a Kabul. Il personale della Ong sta discutendo e negoziando con il padre, per fargli capire che Basera è una vittima e non la vergogna della famiglia, che ha bisogno di sostegno, di rispetto e di un’istruzione per costruirsi un futuro migliore. Se non riusciranno a convincere la famiglia o se la ragazza non vorrà tornare a casa, sarà affidata a un orfanotrofio dove si prenderanno cura di lei. La sponsorizzazione (tre anni) le permetterà di andare a scuola per prepararsi a una vita migliore e di vivere al sicuro.
4) STORIA DI FATOMA: CUORE
Ho 12 anni e vivo ad Herat. La mia famiglia è povera ma ci vogliamo bene. Mio padre ha un piccolo negozio e mia madre è casalinga. Il problema sono io, o meglio il mio cuore. Pare che abbia un buco. Mi fa stare male e non mi fa crescere come gli altri. Mio padre le ha provate tutte. Mi ha portato da molti medici ma ognuno diceva il contrario dell’altro. Alla fine, con l’aiuto dei miei parenti, è riuscito a portarmi in un buon ospedale. Lì hanno capito di che malattia si trattava, appunto il buco nel cuore. Serve un’operazione ma costa molto. Mio padre mi ha anche registrato alla Croce Rossa. Ma in due anni nessuno si è fatto vivo. Così era sempre più disperato. Ha saputo del centro legale di Hawca e si è presentato a raccontare la mia storia. Certo non era il posto giusto, non è di questo che si occupano. Ma proveranno ad aiutarci lo stesso a trovare i soldi per l’operazione. Mio padre intanto, che ha la testa molto dura, continua a sperare di risparmiare abbastanza per portarmi all’estero a operarmi. Per questo, a volte, mangiamo solo un po’ di pane secco per tutto il giorno. Ma anche con questi sacrifici non credo che ce la possa fare. Così aspettiamo quello che succederà…
PROGETTO PER FATOMA. (sostegno ‘una tantum’)
La malattia di Fatoma richiede un’operazione e cure particolari che è molto difficile trovare in Afghanistan. Dovrebbe andare all’estero, probabilmente in Pakistan. Le serve una somma per affrontare il viaggio e le spese mediche dell’operazione e delle medicine: 3000 euro, una fortuna per la sua famiglia. In questo caso, le sponsorizzazioni raccolte saranno destinate a mettere insieme la cifra necessaria.
5) STORIA DI FAHEMA: MIO PADRE
Ho 25 anni e sono di Kabul. Mio padre. Come fa un padre a non sapere? Cosa pensava il giorno di due anni fa quando ha deciso di farmi sposare quest’uomo? Il destino non c’entra. Come si fa a regalare a una figlia l’inferno? Non posso fargliele queste domande, le faccio a me stessa, da due anni mi rimbombano nella testa. Poteva informarsi, no? In fondo lo sapevano tutti che si drogava e che la prima moglie era morta, uccisa dalle sue botte. Avanti un’altra, io. Forse è la droga che glielo fa fare, che tira fuori il buio profondo della sua anima. Non ha fatto che picchiarmi da quando sono entrata in questa casa. Non ha avuto rispetto nemmeno dei figli che aspettavo. Ho abortito tre volte. Tre bambini persi. Sono stata male, molto, problemi ginecologici. Ma per me non ci sono medicine né medici. Nemmeno da mangiare o da vestirmi. Quel poco che ho, me lo danno i miei fratelli, quello che serve a tenermi in vita. Adesso vivo con loro ma non mi sento protetta. Non possono sostenermi ancora per molto, devo trovare un lavoro. Me lo ripetono tutti i giorni. Ma non è facile nelle mie condizioni di salute. E le cure di cui ho bisogno costano. Ho paura che mio marito venga a riprendermi e ho paura del futuro.
PROGETTO PER FAHEMA. (sostegno mensile)
Fahema ha chiesto aiuto al Centro legale di Hawca. Per lei curarsi è molto urgente. Gli avvocati di Hawca otterranno per lei il divorzio. Poi, quando starà meglio, cercheranno di organizzarle un lavoro nella casa dei fratelli, per non pesare su di loro e vivere con i suoi mezzi. Per non sentirsi sempre a disagio nella loro casa. Nell’immediato, il sostegno pagherà le sue cure mediche e le permetterà di contribuire al proprio mantenimento.

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