L’8 marzo a Kabul
Peacereporter 8 marzo
Per le donne afgane non è una festa, ma l’occasione per lottare contro la loro condizione, ancora drammatica dopo dieci anni di occupazione
Nella sede di Opawc (Organizatione per la promozione delle capacità delle fonne afgane) a Kabul fervono i preparativi per la Giornata internazionale della donna. Si fanno le ultime telefonate, partono le ultime mail per l’evento di oggi pomeriggio, la grande manifestazione che si terrà nella grande sala conferenze dell’Hotel Hamsafar, nel centro della capitale.
Opawc è una Ong che si occupa di progetti di formazione per le donne, soprattutto nel settore dell’artigianato e dell’alfabetizzazione. Fu creata da Malalai Joya (la coraggiosa ragazza che a soli 25 anni, nel 2003, prese la parola al parlamento afgano e osò denunciare i signori della guerra e la schiavitù delle donne) inizialmente in Pakistan, a favore delle donne afgane nei campi profughi, ed ora è attiva in tutto l’Afghanistan. Da due anni si occupa dell’organizzazione della festa dell’8 marzo, non certo come mero momento celebrativo, ma come un vero e proprio giorno di resistenza femminile contro ogni forma di oppressione.
“Il governo ha sempre festeggiato l’otto marzo come se fosse un tè da bere in compagnia e poi ognuno a casa propria – dice con una simbologia efficace la direttrice di Opawc, Latifa Ahmady, 29 anni, una laurea in letteratura inglese, due figli, un passato da profuga in Pakistan, come milioni di afgani, durante l’occupazione sovietica – cioè facendo in questa giornata grandi promesse di concessioni di diritti alle donne, di uguaglianza, di parità di accesso all’istruzione, alla sanità, ma rimangiandosi tutto a partire dal giorno successivo. In questo modo la festa della donna aveva perso il suo significato – prosegue – invece noi, e prima di noi Rawa, a partire dal 2002, l’abbiamo trasformata nella festa dell’orgoglio femminile e del rispetto che pretendiamo quotidianamente nei confronti della donna in famiglia e in ogni ambito della vita sociale”.
Rawa (Associazione rivoluzionaria delle donne afgane) – associazione laica e democratica di donne afghane, fondata nel 1977 da Meena, poi assassinata l’anno successivo – ha ceduto il testimone dell’organizzazione della manifestazione ad Opawc nel 2009 a causa degli atti di violenza subiti da parte dei fondamentalisti: le sue attiviste, per lo più molto giovani, operano nell’ombra a favore delle donne in tutto il paese, ma sono costrette a una vita nell’anonimato, a cambiare continuamente luogo di residenza, a celare completamente il loro volto negli incontri pubblici. La dichiarazione rilasciata da Rawa alla vigilia della celebrazione non usa mezzi termini: “Oggi, 8 marzo, le donne afgane piangono ancora per gli stupri di gruppo, per essere bastonate in pubblico dai più schifosi figuri, per essere messe in vendita come merci al mercato, e per le loro giovani figlie che mettono fine ad una vita miserabile autoimmolandosi”.
In Afghanistan, secondo l’ultimo report di Human Right Watch sulla condizione femminile in Afghanistan, l’87 per cento delle donne lamenta di avere subito violenza, metà delle quali violenza sessuale; il 60 per cento dei matrimoni è forzato e il 57 per cento avviene con ragazze al di sotto dei 16 anni. L’autoimmolazione è uno dei metodi più usati dalle donne per sfuggire alla violenza e alla brutalità della loro vita: nello scorso anno, nel solo ospedale di Herat, sono arrivate 80 donne che avevano tentato il suicidio dandosi fuoco.
Per il pomeriggio sono attese almeno 1.500 persone tra attiviste, studentesse, simpatizzanti, rappresentanti dei Ministeri (i progetti di Opawc sono comunque approvati dal governo), membri di altre Ong e supporters democratici. L’incontro sarà incentrato sull’occupazione delle truppe Usa e Nato (centinaia di donne sono scese in piazza domenica a Kabul per protestare contro le ultime stragi di civili), viste sempre più conniventi con il corrotto governo di Karzai e dei signori della guerra e, ovviamente, sulla situazione femminile, in particolare quella delle donne rifugiate nei centri di accoglienza. “La legge che punta a mettere sotto la gestione governativa le case per le donne vittime di violenza, togliendole al controllo delle Ong – spiega Latifa- è molto negativa perché queste strutture finirebbero per essere affidate a personale estraneo, se non ostile, alla cultura dei diritti delle donne”.
Milena Nebbia
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