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Autore: CisdaETS

Necessario ripensare urgentemente la risposta internazionale alla crisi dei diritti umani

OMCT, 15 agosto 2024

La dichiarazione di un gruppo di importanti Organizzazioni umanitarie in occasione del 3° anniversario della presa di potere dei talebani in Afghanistan

A tre anni dalla presa del potere dei talebani in Afghanistan, avvenuta il 15 agosto 2021, noi organizzazioni sottoscritte restiamo allarmate dal fatto che la risposta internazionale al peggioramento delle violazioni dei diritti umani da parte dei talebani, in particolare contro donne e ragazze, sia sempre più inefficace e talvolta persino dannosa.

I talebani hanno imposto politiche draconiane e intrapreso azioni abusive che violano gli obblighi dell’Afghanistan ai sensi del diritto internazionale, incluso il diritto internazionale dei diritti umani. Queste politiche hanno avuto un impatto particolarmente devastante su donne e ragazze, persone LGBTQI+, difensori dei diritti umani e minoranze religiose ed etniche.

Le donne e le ragazze, metà della popolazione in Afghanistan, non affrontano solo la povertà, ma anche una violenza diffusa e sistematica e violazioni dei loro diritti fondamentali, tra cui la libertà di movimento, la libertà di parola e di associazione, la partecipazione alla vita pubblica e l’accesso all’istruzione, al lavoro retribuito e alle pensioni per le vedove di guerra. I talebani hanno sospeso le leggi e smantellato le istituzioni destinate a proteggere le persone che affrontano la violenza di genere. Il divieto dei talebani alle ragazze di studiare oltre la sesta elementare è in vigore da oltre 1000 giorni e l’istruzione universitaria femminile è stata vietata per oltre 500 giorni, rendendo l’Afghanistan l’unico paese al mondo con tali divieti.

Nonostante la condanna internazionale, i talebani continuano a emanare nuovi ordini abusivi, in particolare l’ annuncio del marzo 2024 secondo cui le donne potrebbero essere lapidate a morte come punizione per presunti crimini. Allo stesso tempo, stanno anche intensificando l’applicazione di ordini/editti abusivi esistenti, lasciando gli afghani in un ambiente in cui le regole su ciò che possono e non possono fare si spostano costantemente verso una severità crescente.

Gli afghani che parlano sono a rischio. Gli uomini che non applicano gli editti dei talebani affrontano punizioni

Gli afghani che denunciano gli abusi dei talebani, tra cui i difensori dei diritti umani, in particolare le donne difensori, i manifestanti e i giornalisti, subiscono arresti arbitrari, violenza fisica e sessuale, detenzione arbitraria e a tempo indeterminato, tortura e altri maltrattamenti, e anche le loro famiglie rischiano ripercussioni. Gli uomini che non riescono a far rispettare gli editti dei talebani alle loro parenti donne subiscono punizioni. Le persone LGBTQI+ temono per la propria vita poiché i talebani tollerano, incoraggiano e si impegnano nella violenza contro di loro. Le minoranze etniche e religiose, in particolare la comunità Hazara, subiscono una profonda discriminazione e subiscono attacchi mirati senza alcuna speranza di protezione o assistenza da parte delle autorità.

Molte persone che subiscono persecuzioni rimangono intrappolate e a rischio significativo all’interno del paese. Altri hanno tentato di fuggire, ma sono disponibili pochi percorsi sicuri e legali per raggiungere la sicurezza e il reinsediamento. Molti di loro riescono a trovare un rifugio temporaneo in Pakistan o in Iran, dove i rifugiati afghani affrontano anche un’escalation di abusi, tra cui un rischio elevato e crescente di deportazione nel loro paese d’origine, senza possibilità di chiedere asilo poiché il Pakistan non registra nuovi arrivi.

Una crisi umanitaria in corso complica ulteriormente la situazione. I contributi dei donatori stanno diminuendo rapidamente. Le agenzie umanitarie stanno affrontando livelli intensi di interferenza talebana nel loro lavoro. Le donne e le famiglie guidate da donne sono colpite in modo sproporzionato dalla crisi, in gran parte a causa dei divieti e delle restrizioni talebani all’occupazione femminile in diversi settori, tra cui come operatrici umanitarie.

Il sistema istituzionalizzato di discriminazione dei talebani contro le donne e le ragazze ” costituiva di per sé un attacco diffuso e sistematico all’intera popolazione civile dell’Afghanistan ” — Richard Bennett, relatore speciale delle Nazioni Unite per l’Afghanistan

Il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan, Richard Bennett, nel giugno 2024 ha affermato che il sistema istituzionalizzato di discriminazione dei talebani contro donne e ragazze ” costituiva di per sé un attacco diffuso e sistematico all’intera popolazione civile dell’Afghanistan “. Ha chiesto al mondo di rispondere attraverso severe misure di responsabilità, tra cui ritenere responsabili i responsabili di crimini contro l’umanità di persecuzione di genere e codificare l’apartheid di genere come crimine ai sensi del diritto internazionale.

Siamo quindi rimasti scioccati dalla decisione delle Nazioni Unite di organizzare il meeting Doha 3 (30 giugno-1 luglio 2024, convocazione di inviati speciali per l’Afghanistan da tutto il mondo per colloqui con i talebani) solo poche settimane dopo, durante il quale le donne afghane e la società civile sono state escluse dal meeting. L’ordine del giorno del meeting non includeva alcun punto sui diritti umani o sui diritti delle donne. Riteniamo che questa decisione delle Nazioni Unite abbia dato ai talebani un’enorme vittoria senza alcun beneficio significativo. Ha tradito le donne afghane che stanno rischiando la vita per combattere per i propri diritti e potrebbe creare un precedente profondamente dannoso sia per la lotta per i diritti umani in Afghanistan sia per l’agenda globale sulle donne, la pace e la sicurezza.

Invitiamo tutti i paesi a unirsi per affrontare con urgenza ed efficacia la catastrofe dei diritti umani in corso in Afghanistan, attraverso misure che potrebbero includere quanto segue:

  • Chiediamo con urgenza alle Nazioni Unite e a tutti gli altri di rispettare la risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e di garantire che le donne afghane siano pienamente coinvolte in tutte le discussioni sul futuro del loro Paese;
  • Alla 57a sessione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (9 settembre-11 ottobre 2024), chiedere la creazione di un nuovo meccanismo di responsabilità internazionale indipendente delle Nazioni Unite, simile a una missione di accertamento dei fatti, per indagare, raccogliere e preservare le prove e facilitare l’accertamento delle responsabilità per i crimini passati e attuali commessi in Afghanistan;
  • Garantire che la Corte penale internazionale disponga delle risorse e della cooperazione necessarie per adempiere al suo mandato in tutte le situazioni di sua competenza, comprese le indagini sulla persecuzione di genere e altri crimini contro l’umanità in Afghanistan, e sollecitare il procuratore della Corte a esaminare i crimini commessi da tutte le parti in conflitto;
  • Sostenere il rinnovo del mandato del Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan e aumentare le risorse fornite a questo ufficio;
  • Sostenere il rinnovo della missione UNAMA, mantenendo intatto il suo mandato in materia di diritti umani e il suo personale;
  • Sostenere gli sforzi per portare un caso alla Corte internazionale di giustizia sulla base della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne in merito alle violazioni della Convenzione da parte dei talebani;
  • Sostenere ed esercitare la giurisdizione universale o extraterritoriale a livello nazionale per indagare e perseguire i crimini di diritto internazionale commessi da membri di tutte le parti in conflitto, compresi i talebani, in particolare i crimini commessi contro donne e ragazze;
  • Sostenere gli sforzi per un trattato sui crimini contro l’umanità e prendere seriamente in considerazione la codificazione dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità;
  • Individuare e utilizzare forme di leva che possano influenzare i talebani senza danneggiare il popolo afghano, come sanzioni mirate o divieti di viaggio imposti tramite una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in modo coordinato e vigoroso per porre fine alle violazioni dei diritti delle donne e delle ragazze da parte dei talebani, e chiarire quali misure politiche sono necessarie per la revoca di tali misure;
  • Sostenere il lavoro dei difensori dei diritti umani afghani all’interno del Paese e nella diaspora, politicamente e finanziariamente;
  • Sostenere e aumentare gli aiuti all’Afghanistan, garantendo al contempo che siano erogati secondo principi che evitino di rafforzare e arricchire i talebani e diano priorità all’assistenza ai gruppi emarginati dai talebani, tra cui donne e ragazze, persone LGBTQI+, persone con disabilità e minoranze etniche e religiose;
  • Rafforzare, ampliare e creare percorsi sicuri e legali per fuggire e cercare protezione e reinsediamento per tutti gli afghani che stanno affrontando persecuzioni sotto i talebani, inclusi difensori dei diritti umani, donne e ragazze, persone LGBTQI+ e minoranze etniche e religiose. Considerare tutte le donne e le ragazze afghane che fuggono dall’Afghanistan come rifugiate prima facie ai sensi della Convenzione sui rifugiati del 1951 e del suo Protocollo del 1967 a causa della persecuzione di genere che affrontano, come hanno già fatto un numero crescente di paesi e come raccomandato dal Relatore speciale.

La terribile e sempre più grave crisi dei diritti umani in Afghanistan non è solo un problema per la sua popolazione. Come organizzazioni internazionali per i diritti umani, vediamo chiaramente nel nostro lavoro come la mancanza di una risposta globale significativa agli abusi dei talebani stia minando i diritti umani a livello globale. Vi esortiamo ad agire.

Firmatari:

  1. Amnesty International
  2. Freedom House
  3. Freedom Now
  4. International Federation for Human Rights (FIDH)
  5. Front Line Defenders
  6. Human Rights Watch
  7. MADRE
  8. World Organisation Against Torture (OMCT)
  9. Women’s International League for Peace and Freedom (WILPF)

Comunicato di RAWA a tre anni dalla presa del potere dei talebani

“Il Cisda che da sempre sostiene Rawa Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane condivide il comunicato  pubblicato da Rawa sulla pagina Facebook a tre anni dalla presa di potere dei talebani e continua a sostenere la loro lotta”

Revolutionary Association of the Women of Afghanistan – RAWA, 14 agosto 2024 

Tre anni fa l’America e l’Occidente hanno abbandonato la corrotta repubblica da loro voluta e consegnato il potere ai brutali talebani. Mentre USA e NATO ritiravano le loro truppe dall’Afghanistan, i talebani hanno portato avanti la loro missione incompiuta godendo, fino a oggi, del sostegno finanziario e diplomatico dell’Occidente.

I sinistri e malvagi talebani sapevano fin dall’inizio che la crescita dei semi degli attentati suicidi, del terrorismo e della superstizione avrebbero trovato terreno fertile solo in una società impoverita e ignorante.

Guidati dal fascismo religioso, questi criminali hanno attaccato la libertà e le donne con il fine di paralizzare la parte di società più oppressa, privandola di istruzione, conoscenza e opportunità, e imprigionando le donne a casa.

Ma le donne afghane, grazie al loro grande coraggio contro questo regime medievale sostenuto dagli USA, hanno dimostrato di aver raggiunto un tale livello di consapevolezza che nessuna forza sarà capace di far arretrare, riportando indietro le lancette della storia e facendole finire nell’oscurità.

Tre anni di governo soffocante, oppressivo e infernale di CIA e talebani segnano il periodo più oscuro della nostra storia. Un periodo in cui si è cercato in ogni modo di sradicare ciascuno degli elementi di una società umana: la scienza, l’arte, la conoscenza e la vita stessa.

Le donne che si sono sollevate hanno subito frustate, prigionia, tortura, confessioni forzate, molestie sessuali e sono persino state assassinate.

Nonostante questo, le nostre coraggiose donne non hanno perdonato i talebani per il sangue di Forouzan, Arzu, Negar e molte altre che sono state uccise, e continuano a far sentire la loro voce contro l’ingiustizia in ogni angolo della nostra terra e mostrano al mondo, che ha dimenticato le loro sofferenze, che non si arrenderanno all’ingiustizia, all’ignoranza e all’oppressione.

Spie malvagie quali Zalmay Khalizad, Hamed Karzai, Rina Amiri e i funzionari di UNAMA, insieme ad altri, stanno cercando di tenere in piedi l’odioso governo talebano attraverso un gruppo di lobbisti e lobbiste corrotti.

Ma i leader dei crudeli talebani sono essi stessi corrotti e abietti e cercano di accumulare ricchezze anche attraverso i loro numerosi matrimoni, cosa che oggi intensifica il rancore e la rabbia di una popolazione povera, senza lavoro e disperata ogni giorno di più.

Jihadisti in fuga e leader repubblicani che hanno portato la nostra patria sofferente nell’attuale tragica situazione grazie a corruzione, saccheggi, tradimenti, ora chiedono all’America e all’Occidente di rendere l’Emirato Islamico un regime “inclusivo” che consentirebbe loro di rivestire ruoli di potere accanto ai loro fratelli talebani. Per il nostro popolo, talebani, jihadisti e leader repubblicani sono fatti tutti della stessa pasta; se guideranno ancora la nostra terra, questi delinquenti ruberanno ancora una volta i sogni del popolo.

L’avvento e il governo dell’Emirato talebano sono un amaro scherzo del colonialismo ai danni della nostra terra e della nostra gente, ma gli artefici di questo disastro non saranno in grado di mantenere il potere a lungo. Il nostro popolo, come tanti altri popoli nel mondo, ama la libertà, la giustizia e la democrazia e non potrà essere privato a lungo di questi valori fondamentali.

Ispirati dal coraggio delle donne afghane e da chi resiste in altre nazioni oppresse dall’imperialismo e dal fondamentalismo islamico, i nostri partigiani insorgeranno, e a quel punto non basteranno nemmeno i miliardi di dollari degli Stati Uniti a salvare i talebani dalla tempesta di rabbia di una nazione unita.

Sorelle, potremo liberarci dalla morsa dell’oppressione e della violenza solo attraverso la lotta!

Lunga vita alla lotta per la democrazia e contro il fascismo religioso dei talebani!

[Trad. a cura di CISDA]

L’intervistaTre anni dalla caduta di Kabul: «Fra violenze e abusi, le donne afghane continuano a lottare»

Corriere del Ticino, di Giacomo Butti

Cristiana Cella, giornalista italiana e membro del direttivo dell’associazione CISDA (Coordinamento italiano sostegno donne afghane), ci parla della situazione in Afghanistan, dal 15 agosto del 2021 sotto il completo controllo dei talebani – «Qui i delitti contro le donne non sono più reato, ma la ribellione non si è spenta»

«Da adulto ho pianto due volte: alla morte di mia madre e alla caduta di Kabul». Così, a fine 2022, Nasir Ahmad Andisha, ambasciatore e rappresentante permanente dell’Afghanistan alla sede ONU di Ginevra, riassumeva per il Corriere del Ticino le emozioni provate un anno prima. Di stanza in Svizzera, il diplomatico aveva assistito, impotente, alla fine di un fragile sogno, quello di una Repubblica afghana, indipendente e sovrana. Era il 15 agosto 2021: a pochi mesi dall’avvio del ritiro delle truppe statunitensi, le forze talebane tornavano a respirare, a pieni polmoni, l’aria della capitale. Una riconquista lampo, da parte del gruppo fondamentalista islamico, in grado di spazzare via venti anni di storia. Un periodo contrassegnato, sì, dall’intervento americano. Ma anche dai (seppur traballanti) passi avanti compiuti in materia di diritti umani, per la popolazione femminile in primis.

Quel 15 agosto, appunto, tutto è stato cancellato. Chi ha potuto è scappato. Per gli altri, le altre, è cominciato un incubo. In occasione del terzo anniversario dalla caduta di Kabul, parliamo con Cristiana Cella – giornalista italiana e membro dell’associazione CISDA (Coordinamento italiano sostegno donne afghane) – che dagli anni Ottanta documenta il tragico vissuto del popolo afghano.
Presa sulla giustizia
Dalla sanità all’educazione, tutto è stato raso al suolo dai talebani – letteralmente, “studenti” in lingua pashtu – nel giro di pochi giorni dall’ascesa. E a pagare il prezzo più alto sono state le donne, vittime di un pensiero, quello talebano, che ne vuole azzerare ogni diritto. È allora nell’amministrazione della giustizia, probabilmente, che l’imposizione del gruppo islamista ha causato le più terribili conseguenze. Ma non bisogna farsi illusioni: «La giustizia per le donne afghane è sempre stata una chimera. Anche nei vent’anni passati – ci spiega Cella – ottenerla per le violenze e gli abusi subiti dalle donne era estremamente difficile». Eppure, alcune linee di difesa avevano cominciato a sbocciare: «C’erano avvocati e associazioni che gestivano centri legali. E poi rifugi, case protette». Tutto questo, ormai, non c’è più. «I talebani hanno smantellato l’impianto giuridico. Giudici e avvocati oggi non possono fare altro che cercare di salvarsi la pelle perché sono tra i cittadini più nel mirino del gruppo fondamentalista».

I delitti contro le donne non sono più reato

E cosa è rimasto? «Nient’altro che la sharia e l’interpretazione che ne danno i mullah». Tradotto: «I talebani fanno ciò che vogliono. E i delitti contro le donne non sono più reato». Sotto una totalitaria sharia, le punizioni riguardanti il crimine di zina – termine con il quale ci si riferisce a un rapporto sessuale illecito, in genere l’adulterio – hanno subito un’impennata. «È una mannaia sospesa sulla testa delle donne da molto tempo, ora però libera di agire senza freni. Fustigazione e lapidazioni, fino all’uccisione, sono le punizioni per chi commette zina. Ma zina non è solo l’adulterio nel senso stretto del termine, quasi impossibile oggigiorno visto che le donne sono segregate in casa e controllate a vista. Zina è la fuga da un marito violento. Zina è parlare con il vicino di casa. Zina è una storia d’amore non approvata dal padre. Zina riguarda ogni forma di ribellione, ed è uno stravolgimento completo di tutto ciò che riguarda non solo i diritti delle donne, ma i diritti umani in sé».

Con la polizia morale che pattuglia città e villaggi, alle donne afghane basta non essere vestite secondo i dettami talebani o non essere accompagnate dal mahram, il guardiano maschio, per essere fustigate o, peggio, portate in prigione. «Chi finisce in carcere, non sempre ritorna. E chi ritorna finisce per subire lo stigma dell’arresto per crimini morali, e il conseguente ostracismo». Un controsenso, penserà qualcuno, per una popolazione vessata dai talebani. Non proprio, ci spiega Cella. Metà del Paese ha vissuto sotto il giogo degli studenti coranici anche nel ventennio della presenza statunitense: per loro, il ritiro americano non ha portato alcuna differenza. Chi viveva nei territori della “Repubblica”, invece, la differenza l’ha vissuta eccome, ma qualcuno ha riabbracciato volentieri gli studenti e i loro dettami, vuoi per proprie credenze, vuoi per antipatia maturata nei confronti degli americani, per interessi economici (non pochi gli affari intessuti dai talebani) o per odio verso la giustizia repubblicana, che seppur decisamente più liberale, «era lenta, corrotta e quindi costosa», spiega la giornalista.

In assenza di una società unita e solidale, le vittime delle violenze talebane sono migliaia e migliaia. Secondo il rapporto pubblicato mercoledì da Rawadari, organizzazione afghana per i diritti umani, dal 2021 a oggi sono state documentate 9.276 violazioni dei diritti umani: 4.737 delle quali riguardavano, con le esecuzioni extragiudiziali messe in atto dai talebani, violazioni del diritto stesso alla vita. Ma non sono, garantisce Cella, che una minima parte di quanto subito dalla popolazione afghana: «Alcune persone spariscono e basta».
Apartheid di genere

Non stupisce, allora, che la paura – soprattutto fra la popolazione femminile – sia forte. «Paura, paura di muoversi, paura di lavorare e studiare. Una prigionia che ha causato un forte aumento delle malattie mentali e dei suicidi. È una situazione allucinante». Cristiana Cella punta il dito contro l’ONU. «UNAMA, la missione delle Nazioni Unite in Afghanistan, sta lavorando a pieno ritmo per portare rapporti e raccomandazioni sul tavolo ONU, denunciando tutto ciò che stiamo raccontando ora». Il problema è dall’altro lato. «Pur con queste informazioni, fra fine giugno e inizio luglio 2024 i vertici dell’ONU convocano la terza conferenza di Doha (voluta per stabilire un approccio globale più coordinato e coerente sulla situazione in Afghanistan, ndr), e cosa fanno? Accettano l’imposizione dei talebani, che quale condizione per la loro presenza chiedevano la rimozione dei diritti delle donne dalla lista dei temi trattati al summit». I talebani hanno dunque potuto presentarsi in modo ufficiale all’incontro, «il che ha portato a una sorta di riconoscimento. Si è creata, insomma, una divisione fra chi lavora sul campo – e fa un lavoro giusto – e chi, negli ambienti diplomatici, accetta questi compromessi. Un tradimento non da poco».

In Afghanistan si pratica un apartheid di genere

Intanto, UNAMA lavora per definire l’Afghanistan uno Stato dove si pratica un “apartheid di genere”: «È un’espressione non ancora codificata nel codice internazionale, ma si spera che lo sia presto perché questo vero e proprio apartheid possa essere condannato da un tribunale superiore».

C’è frustrazione nella voce di Cristiana Cella. «Qualcosa deve essere fatto, anche fosse, solamente, una condanna simbolica. C’è bisogno di una reazione. Così sembra semplicemente che il Paese sia stato consegnato ai talebani, dicendo loro “fatene quel che vi pare”».

Senza il sostegno internazionale, per la popolazione afghana la situazione può solo peggiorare, lo dimostra l’andamento di questi tre anni. «Nello scorso mese di marzo, il leader supremo talebano Hibatullah Akhundzada ha annunciato che le punizioni corporali, comprese la fustigazione pubblica e la lapidazione, sono strumenti di legge e verranno obbligatoriamente applicati in tutto l’Afghanistan». E diffondere le notizie di queste violenze diventa sempre più difficile. «Nei primi mesi dal rientro a Kabul, i talebani erano ancora titubanti. Con gli anni, il loro controllo sulla popolazione, grazie anche a una maggior presa sulla telecomunicazione e sull’accesso a Internet, è divenuto ossessivo». I media locali sono stati completamente zittiti dai talebani. «Rimangono solo i social, anche se, pure lì, il controllo è molto forte: in alcune zone i cellulari sono completamente vietati».

La ribellione nello studio

Paradossalmente – ma solo da un punto di vista etimologico –, una delle forme di ribellione più forti contro il potere degli “studenti” talebani rimane lo studio. «Le donne che noi di CISDA sosteniamo, appartenenti ad associazioni locali, continuano a ideare stratagemmi per permettere alle ragazze di aggirare il controllo talebano. Esistono, quindi, scuole segrete nelle quali le giovani studiano con il Corano a portata di mano», nella speranza – ci racconta Cella – di riuscire a mascherare l’atto illegale con la lettura del testo sacro, nel caso dovessero essere scoperte. «Si tratta, ovviamente, di situazioni molto pericolose. Ma in Afghanistan ormai qualsiasi attività è pericolosa e le donne insistono affinché quella piccola scintilla di speranza rimanga viva».

Secondo i talebani, ai ragazzi, maschi e femmine, basta essere inviati nella madrasa, la scuola dove «non imparano altro che a leggere il Corano in arabo, una lingua che, peraltro, non parlano. Che futuro può avere un Paese dove non c’è una classe dirigente e dove nessuno studia? È un futuro spaventoso non solo per le donne, ma per un intero Paese».

Fra scuole, aiuto sanitario alle vittime dei recenti terremoti e alluvioni, corsi di cucito, le donne di RAWA (Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan) e di simili gruppi hanno intessuto una rete clandestina di sostegno alla popolazione. Tempo fa, ci racconta Cella, RAWA – che mantiene i contatti e una stretta collaborazione con l’italiana CISDA – «ha addirittura tenuto una cerimonia dei diplomi, in condizioni commoventi». La giornalista ci racconta poi la storia di Manizha, una delle ragazze iscritte alle scuole clandestine: «Un giorno non si è presentata e nemmeno quello seguente. Le associazioni locali hanno fatto di tutto, insieme alla madre, per trovarla. Ma era sparita. Non sappiamo più niente di lei». È tramite il contatto diretto con RAWA che «capiamo i rischi e il coraggio estremo di chi, pur davanti a simili difficoltà, va avanti».

CISDA, da parte sua, lancia ciclicamente raccolte fondi per finanziare le associazioni attive sul posto: «Sosteniamo RAWA e gli altri gruppi. Abbiamo ad esempio finanziato la creazione di un ospedale mobile – un camion attrezzato che va di villaggio in villaggio –, così come quella delle scuole segrete e di altri corsi utili alle donne». Ma far arrivare i soldi ai destinatari senza che vengano intercettati dai talebani è una sfida. «I fondi vengono inviati con grandi difficoltà», ammette Cella. «Dobbiamo cambiare spesso sistema per aggirare i controlli talebani. Però, in qualche modo, riusciamo sempre a far avere questo aiuto. Dobbiamo farlo: per mandare avanti questi progetti servono soldi».

Le prospettive future, comunque, appaiono buie. Di tanto in tanto, e superando enormi scogli, «alcune donne riescono ancora a fuggire dall’Afghanistan», conclude Cella. «Spesso sono ingegneri e dottoresse, persone con un percorso. Ma mi chiedo che ne sarà delle ragazze che rimangono».

Il KNK rilascia una dichiarazione per celebrare il 40° anniversario del 15 agosto

UIKI Onlus, 15 agosto 2024

Il  Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (KNK) ha rilasciato una dichiarazione per celebrare il 40° anniversario dell’iniziativa del 15 agosto 1984.

“Il 15 agosto, il Kurdistan e la Turchia erano sotto il dominio della giunta fascista che salì al potere dopo il colpo di stato del 12 settembre 1980. Attraverso una crudeltà spietata e gravi torture, le vite delle persone furono devastate. Le prigioni erano piene di combattenti per la libertà e la giunta fascista stese una coltre di morte sulla popolazione. La paura dell’arresto e della morte era pervasiva in tutta la società.

Nonostante queste dure condizioni, il popolo curdo e i leader del Movimento di liberazione del Kurdistan non soccombero all’oppressione dello Stato turco. Rimasero fermi, resistendo con forza. Dalle prigioni a tutti gli aspetti della vita, fu organizzata una lotta disinteressata. Sebbene siano stati fatti grandi sacrifici, la bandiera della libertà venne issata contro l’oppressione dello stato.”

In questa difficile atmosfera, presero forma una coraggiosa lotta e resistenza. Con il primo proiettile il 15 agosto 1984, l’appello per la libertà e la liberazione dei curdi e del Kurdistan riecheggiò ancora una volta in tutto il Kurdistan, la Turchia e il mondo. Durante questo momento storico, Dihe (Eruh) e Şemzînan divennero lo spazio in cui iniziò la legittima lotta armata in Kurdistan. Con questo sforzo, la scintilla della rivoluzione curda si trasformò in un vasto fuoco di resistenza in Kurdistan e in Medio Oriente. Il comandante Egîd (Mahsum Korkmaz) diede inizio alla lotta armata con un gruppo di combattenti per la libertà e oggi sono diventati una formidabile forza di guerriglia in Kurdistan e in Medio Oriente. Nella storia della lotta curda, questo momento segna un passo significativo verso la vittoria.

Mentre celebriamo lo storico 40° anniversario del 15 agosto, lo Stato turco continua la sua aggressione con tutti i mezzi e metodi possibili. Di fronte alla resistenza e alla lotta dei combattenti per la libertà, del popolo curdo e di tutti i popoli del Kurdistan, lo Stato turco ha approfondito il suo conflitto.

Spinto dalla rabbia e dall’odio, ricorre a una guerra e a un’aggressione sempre più violente. In questa lotta contro l’umanità ha mobilitato tutte le armi e le attrezzature disponibili per annientare la vita. Bombe chimiche e veleni piovono sulla nostra gente e sui combattenti dall’aria e dalla terra. La vita umana è stata un obiettivo primario, ma anche l’ambiente naturale del Kurdistan è stato gravemente degradato. Da Dersim a Colemêrg, da Qers a Maraş nessuna montagna, valle o grotta è stata risparmiata dai bombardamenti.

Gli attacchi dello Stato turco non si limitano al Kurdistan settentrionale; continuano anche nel Rojava e nel Kurdistan meridionale. In entrambe le regioni, lo Stato turco organizza attacchi per perseguire l’occupazione regionale, che si sta espandendo di giorno in giorno. Da cinque anni il regime di Erdoğan attacca le aree di Xakurk, Heftanin, Metina, Zap e Avaşîn con tutte le sue forze, impiegando senza ritegno armi proibite (chimiche, al fosforo, tattiche nucleari). Nel frattempo in queste regioni e in tutto il Grande Kurdistan, una forte e senza pari resistenza è in atto da parte dei guerriglieri, che incarnano lo spirito del grande momento del 15 agosto.

Oggi, lo Stato turco sta riprendendo le stesse politiche di repressione che furono applicate negli anni ’80 contro la resistenza del popolo curdo nella lotta per la liberazione e la libertà del Kurdistan. Il sistema giudiziario turco è diventato una catena di prigionia per i combattenti del Kurdistan.

Le prigioni sono piene di attivisti curdi e la violenza e la tortura da parte della polizia e dell’esercito sono diventate una parte ordinaria della vita di tutti i popoli del Kurdistan. Tutto ciò che è legato all’identità e alla cultura curda è preso di mira. Lo stato attacca matrimoni e piste da ballo, detiene cantanti e musicisti curdi e proibisce la cultura e la musica curda.”

Tuttavia tutti questi sforzi sono vani. I curdi sono impegnati in una forte resistenza e lotta, incarnando lo spirito del grande momento del 15 agosto. La sconfitta apparterrà allo Stato turco. La coalizione aggressiva e orientata alla guerra dell’AKP-MHP-Ergenekon è sull’orlo del fallimento. La vittoria appartiene al popolo del Kurdistan.

Mentre celebriamo questo momento, ricordiamo che l’architetto del grande momento del 15 agosto, Abdullah Öcalan, è stato sotto forte pressione e isolamento nella prigione di Imrali per 26 anni. Per 40 mesi, non abbiamo ricevuto alcuna informazione da lui o dai suoi compagni di cella. Questa situazione è inaccettabile e tutti i curdi e gli amici dei curdi dovrebbero partecipare attivamente alle campagne contro questa ingiustizia. In questa occasione, noi, come Congresso Nazionale del Kurdistan (KNK), riaffermiamo ancora una volta il nostro sostegno e la nostra approvazione alla Campagna Internazionale “Libertà per Öcalan – Soluzione Politica alla Questione Curda”, e invitiamo tutti i popoli del Kurdistan e gli amici dei curdi a unirsi e ad accrescere gli sforzi di questa campagna.

Come Congresso nazionale del Kurdistan (KNK), salutiamo calorosamente il popolo curdo e gli amici del popolo curdo nel 40° anniversario del grande momento del 15 agosto. Ricordiamo i martiri della rivoluzione del Kurdistan con rispetto e onore, chinando il capo in loro memoria.

I più grandi saluti vanno a coloro che sono caduti in questo grande momento; dobbiamo loro la nostra dedizione e ne seguiremo le loro orme. Salutiamo e auguriamo successo alla guerriglia per la libertà del Kurdistan, che sta resistendo nelle zone di difesa della Medya nello spirito del comandante Egîd, e a tutti i combattenti per la libertà del Kurdistan.”

Tre anni fa la fuga da Kabul: la difficile integrazione dei profughi afghani

Avvenire, 14 agosto 2024, di Viviana Daloiso, Antonella Mariani e Pino Ciociola

Salvati e poi stritolati dal sistema di accoglienza italiano, che non ne riconosce i titoli di studio. Chi ce l’ha fatta, chi si è accontentato, chi ha deciso di tornare nell’inferno dei taleban

La paura, lo smarrimento, i sogni sbiaditi nello spazio d’una notte e di un giorno. La fine del mondo di prima porta la data del 15 agosto 2021 per l’Afghanistan. Tre anni sono passati da quando Kabul è ritornata nelle mani dei taleban: passano davanti agli occhi le scene di disperazione all’aeroporto, i bambini buttati di là dalle reti nelle mani dei soldati e degli operatori umanitari per salvare loro la vita, gli uomini e le donne appesi ai carrelli dei voli stracarichi di persone in fuga dell’abisso di un regime che prometteva di stravolgere il seppur fragile castello di diritti e di libertà costruito grazie all’aiuto dei governi occidentali. Tutto in briciole. Il Paese tornava nel buio, le famiglie venivano separate, chi aveva collaborato con il governo, con l’Onu e le Ong perseguitato, le donne allontanate dalle scuole, dai luoghi di lavoro, infine cancellate dalla vita sociale in un inferno presto dimenticato da tutti. Più rumorosa la guerra nel cuore dell’Europa, più dirompente il 7 ottobre di Israele e lo scontro con Hamas, che in queste ore tiene col fiato sospeso il mondo intero per le sue conseguenze sullo scacchiere internazionale. Dell’Afghanistan, di chi ci vive nascondendosi, di chi è scappato o tenta la fuga affrontando viaggi impossibili e spesso il rischio di morire, come avvenuto sulle coste di Cutro, non parla più nessuno o quasi.

L’Italia c’è stata. In quelle prime, concitate ore, con le evacuazioni, l’intervento dei diplomatici e delle forze militari, coi voli diretti a Roma. Poi nell’accoglienza degli oltre 5mila afghani arrivati nel nostro Paese nelle prime settimane, per lo più collaboratori di missioni internazionali, attivisti, giornalisti e membri delle minoranze etniche. Infine con l’accordo sull’apertura di corridoi umanitari, siglati tra ministero dell’Interno e degli Esteri con la Cei (attraverso Caritas Italiana), Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Tavola Valdese, Arci, che in Italia avrebbero dovuto portare 1.200 profughi e che da quel 2021 a più riprese hanno consentito l’arrivo di quasi 2mila persone, le ultime appena qualche settimana fa. Nel nostro Paese ci sono oltre 10mila afghani oggi, più uomini che donne (sebbene siano queste ultime, si è detto, a pagare lo scotto più alto del ritorno del regime).

Un bilancio in chiaro, a guardare lo sforzo degli attori coinvolti e il supporto offerto sia in termini abitativi che psicologici e legali , ma che presenta anche molte ombre legate alle contraddizioni del sistema d’accoglienza italiano, spesso incapace di costruire progetti di integrazione di più ampio respiro, adeguati alle necessità e alle risorse dei migranti con cui di volta in volta si interfaccia. E più che mai questo è accaduto con gli afghani, che si sono presentati subito come rifugiati “speciali”, di estrazione sociale elevata, con un’età compresa tra i 30 e i 55 anni, strappati da vite agiate e da impieghi qualificati nelle agenzie internazionali, nei tribunali o nelle università e negli ospedali. Va letto in questa unicità l’inizio di un’odissea che li ha visti, oltre che stravolti per quanto stava accadendo a casa e spaesati per l’adattamento alla vita in un nuovo Paese, spesso incapaci di adattarsi alle poche e decisamente poco allettanti possibilità di inserimento lavorativo offerte in Italia: le Ong, che pure hanno lavorato a tavoli comuni per costruire progetti di accompagnamento mirati, hanno ben presto dovuto affrontare il burn out dei profughi legato al diniego del riconoscimento dei titoli di studio, alla difficoltà dei percorsi scolastici per i figli arrivati tramite ricongiungimenti, all’impossibilità di accedere a contratti in campo sanitario o giuridico, persino al rifiuto degli affitti per le case. Col risultato che, a tre anni di distanza, scaduti i programmi di assistenza previsti e le borse di studio, molti degli afghani arrivati in Italia sono finiti anche col ripartire, chi alla volta del Canada, chi della Germania (Paesi in cui le loro competenze sono ben più valorizzate), chi di Pakistan e Iran, con la speranza di poter rientrare più facilmente nel vicino Afghanistan. Dove la situazione, però, resta disastrosa.

Un fallimento? «Più un rimpianto – spiega Livia Maurizi, coordinatrice della Ong Nove Saving Humans, da anni impegnata in prima linea nel Paese con progetti di imprenditoria ed empowerment femminile e che ha collaborato con il nostro giornale nella campagna #avvenireperdonneafghane –. È chiaro che ogni storia va inquadrata nel suo specifico, ma resta senz’altro l’amarezza per l’incapacità di cogliere il potenziale di chi è arrivato in Italia da quel 2021: abbiamo giovani donne medico, o infermieri specializzati, tanto per fare un esempio, che servirebbero moltissimo al nostro Servizio sanitario e che non siamo in grado di valorizzare». Badanti, addetti alle pulizie, nella migliore delle ipotesi mediatori o mediatrici culturali, questo il destino segnato per i rifugiati «in un Paese, il nostro, a cui serve uno scatto di lungimiranza – continua Maurizi – in termini di politiche di accoglienza. Che è quello su cui vogliamo tornare a insistere con il governo, insieme alla necessità di percorsi più facili e più brevi nel riconoscimento dei titoli di studio e delle competenze». Aprire le porte non è bastato e non può bastare.

Sadia, la laurea da ostetrica e un presente da pasticciera

A Sadia piacciono tutti i dolci italiani, ma se deve scegliere dice il tiramisù. Lei però le torte non le mangia, le prepara. Mai avrebbe pensato di fare la pasticciera: ha studiato da ostetrica, quello era il lavoro verso cui era avviata quando viveva in Afghanistan e il futuro era ancora un orizzonte rosa. Il 15 agosto 2021 Sadia Saddiqi ha visto di persona il primo taleban della sua vita, quando gli studenti coranici sono entrati a Kabul e hanno spazzato via tutto: sogni, progetti. Lui stava di fronte a casa sua, armato, e loro si sono sentiti in pericolo. La madre di Sadia, Suhaila, lavorava in un programma di microcredito per l’imprenditoria femminile per conto della ong italiana Pangea. Il padre e il fratello maggiore sono ingegneri e avevano un buon impiego. Sadia aveva 22 anni e svolgeva il tirocinio in un ospedale della capitale. Già da giorni i responsabili di Pangea aveva ordinato di distruggere i documenti, abbandonare la sede: i taleban avrebbero cercato tutti coloro che collaboravano con gli occidentali o con il governo da loro sostenuto. La famiglia di Sadia, 10 persone in tutto, si trasferì in una abitazione sicura accanto all’aeroporto, per tre volte cercò di imbarcarsi ma in quelle ore convulse dell’esodo nulla era sicuro. «Non avevo mai viaggiato fuori dall’Afghanistan. Non abbiamo preso nulla da casa perché non volevamo dare nell’occhio con le valigie. I taleban che stazionavano davanti a casa nostra chiesero dove stavamo andando. Ho avuto paura, sì. Io sono partita con uno zainetto: un paio di pantaloni, il velo, quattro vestiti. Non ho preso nient’altro».

Sadia è una degli oltre 5mila afghani trasferiti in Italia nei giorni successivo alla capitolazione di Kabul. Loro dapprima andarono in un centro di accoglienza vicino a Napoli, poi dopo 3 mesi furono trasferiti a Milano, dove sono stati inseriti in un progetto di sostegno del Cas (Centri di accogienza straordinari, gestiti dal ministero degli Interni tramite le prefetture). La trafila è stata la stessa per tutti: i corsi di italiano e quelli professionali, i documenti, il percorso verso un’autonomia… «Ho seguito un corso di pasticceria e dopo 6 mesi di tirocinio ho trovato un lavoro che mi piace, inizio al mattino presto a preparare le basi per le torte in una grande catena di ristorazione. Ma a Milano non ci potevamo stare, il progetto di sostegno è terminato e gli affitti sono troppo cari». Pochi mesi fa Sadia e la sua famiglia si sono spostati in un paesino della provincia di Pavia, lì la vita è più facile anche se per arrivare al lavoro in treno deve partire all’alba. Due fratelli hanno già un impiego, la madre e il padre fanno più fatica per via dell’italiano, la sorella attende la conferma da una catena di supermercati. E il diploma di ostetrica? «Sto cercando di farmelo riconoscere, ma la strada è lunga, e difficile. Il mio diploma di laurea è rimasto a Kabul e devo trovare il modo di farlo recuperare all’università e farmelo arrivare qui». In Italia, dice Sadia, «mi sono trovata bene, non mi sono mai sentita straniera. Se penso ai miei parenti rimasti a Kabul? Sempre. Ho paura per loro. Le mie cugine non possono più studiare e si sono sposate, giovani. Non era il loro sogno, volevano laurearsi, avere una professione. Tutto è cambiato tre anni fa».

Una primavera per Bahara: «Posso ritornare a scuola»

Brillante, determinata, afghana, diciannove anni. Quando ne aveva sedici, i taleban si prendono l’Afghanistan e di colpo niente più scuola, niente più uscite e qualsiasi libertà, solo burqa e un matrimonio combinato con uno sconosciuto molto più grande di lei. Il suo nome, Bahara, significa primavera. E lei racconta che «viveva in prigione», che avrebbe voluto «solo studiare» e che aveva «tanta, tanta paura», era «disperata» perché i taleban «avevano detto che mi avrebbero portata via da casa e data in sposa a uno di loro».
Lo aveva capito chiaro e tondo: fosse rimasta lì, «sarei morta o, peggio, venduta a un vecchio taleban» e fine della storia. Solo che Bahara non è una da destino segnato. Anche perché la sua famiglia è con lei e pronta a farla scappare e aiutarla, per farle scampare quelle due strade. Lei inventa qualsiasi cosa pur d’avere il passaporto e ci riesce, scappa in Pakistan, accompagnata dal fratello, che poi torna indietro. Tutto a posto? Macché, comincia invece la seconda parte della sua vita in ballo. Gira mesi fra case diverse e sicure, quelle per ragazze che devono nascondersi. Sa che la polizia pachistana di tanto in tanto si mette a fare retate per rimpatriare gli afghani, anche quelli con i documenti a posto. E, specie per una ragazzina sola, spesso finisce molto male. Nonostante sia entrata legalmente, con un visto regolare, un pomeriggio le si gela il sangue, un poliziotto la ferma, ma chissà perché la libera: «Stavolta ti lasciamo andare, ma sappiamo chi sei e la prossima ti deportiamo», le dice. Dopo, Bahara quasi nemmeno esce più.

Nel frattempo, cerca in ogni modo d’entrare in uno dei corridoi umanitari verso l’Italia, quelli che dopo il 15 agosto 2021 sono stati effettuati per dare una speranza a coloro che sono nelle situazioni più difficili. Per darle una mano si muovono associazioni italiane, organizzazioni internazionali, privati cittadini. Non è facile per niente, ma pian piano ce la fanno: Bahara viene presa a cuore per la sua forza, la sua voglia di cambiare quel suo destino e per l’esempio che, senza saperlo, sta dando. Senza mai perdere tempo: da profuga in Pakistan ha anche approfondito online l’inglese e imparato un po’ di italiano, sperando prima o poi di venire qui. Un sogno realizzato: qualche settimana fa proprio attraverso i corridoi umanitari è sbarcata a Roma. Senza aver mai viaggiato in vita sua. Sola. Senza parenti, né amici, senza conoscere nessuno e giusto con uno zainetto a tracolla. Lei sorride, frastornata, felice, eppure col gran dolore d’aver lasciato la sua famiglia in Afghanistan. L’hanno accompagnata subito in una cittadina del Sud e a settembre andrà a scuola, frequenterà la quinta superiore, con il sostegno dell’associazione Nove Caring Humans che cura il progetto di integrazione. Sa bene che sarà dura, durissima, però con quel che ha passato, lo ripete, due, tre volte: «Se un anno fa fossi rimasta a Kabul, sarei morta. Se un anno fa mi avessero detto che adesso sarei stata qui, non lo avrei mai creduto».

In Afghanistan i taliban celebrano il terzo anniversario della presa di Kabul

Internazionale, 14 agosto 2024

Il 14 agosto, promettendo di “mantenere la legge islamica”, i taliban hanno celebrato il terzo anniversario della riconquista dell’Afghanistan con una lunga parata militare nell’ex base americana di Bagram e un raduno in uno stadio di Kabul.

Centinaia di invitati hanno partecipato in mattinata a Bagram a una parata militare durata più di un’ora alla presenza di funzionari e alti ufficiali taliban.

Gli elicotteri hanno sorvolato il corteo formato da decine di veicoli militari sovietici o sequestrati agli americani o dell’esercito afgano durante la vittoria di tre anni fa.

Una lunga fila di lanciarazzi sovietici Bm21 Grad, camion e mezzi corazzati leggeri ha marciato davanti alle tribune dove c’erano centinaia di ospiti, tra cui alcuni diplomatici cinesi e iraniani.

Nell’ex base aerea americana, centro nevralgico delle operazioni contro l’insurrezione taliban, hanno sfilato anche l’artiglieria pesante e i carri armati sovietici e americani.

In un messaggio letto al pubblico il primo ministro afgano Mohammad Hassan Akhund ha promesso di “mantenere in piedi la legge islamica”.

I nostri leader “devono essere attenti al fatto che i nostri compiti non si sono conclusi con la jihad (guerra santa), ora abbiamo la responsabilità di mantenere il corso della legge islamica”, ha dichiarato nel messaggio il leader, che non era presente alla parata.

Il 15 agosto 2021, i talebani sono entrati a Kabul senza resistenza, provocando la fuga del governo e la debacle della coalizione occidentale guidata dagli Stati Uniti che li aveva cacciati dal potere vent’anni prima. L’anniversario viene celebrato con un giorno di anticipo, secondo il calendario afgano.

 

Afghanistan, tre anni fa il ritorno al potere dei talebani

LAPRESSE, 14 agosto 2024

Il gruppo ha ripreso il comando il 15 agosto 2021, 20 anni dopo l’inizio della guerra contro il terrorismo lanciata dagli Usa

Il 15 agosto 2021 i talebani sono tornati al potere in Afghanistan20 anni dopo l’inizio della guerra contro il terrorismo lanciata da Stati Uniti e alleati dopo gli attacchi dell’11 settembre. Nonostante non siano riconosciuti ufficialmente a livello internazionale come forza di governo del Paese, i talebani hanno partecipato a incontri di alto livello con le principali potenze regionali, comprese Russia e Cina e hanno persino partecipato ad alcuni colloqui promossi dalle Nazioni Unite. Un vero e proprio trionfo per il gruppo che si considera l’unico, vero, rappresentante dell’Afghanistan. Il loro dominio è, di fatto, incontrastato, sia all’interno del Paese che all’estero. Le guerre in Ucraina e in Medioriente attirano maggiormente l’attenzione a livello internazionale e l’Afghanistan a guida talebana non viene più percepito come una rilevante minaccia terroristica. Ma le sfide non mancano. Il Paese, resta, infatti insicuro per le donne e per le minoranze, con i civili che spesso restano vittima di attacchi kamikaze. L’affiliato afghano dell’Isis – acerrimo nemico dei talebani – ha spesso preso di mira il quartiere a maggioranza sciita di Dasht-e-Barchi a Kabul.

Il sufismo in Afghanistan può frenare le ideologie estremiste?

8AM Media, 7 agosto 2024

Una “buona” religione, quanto può influenzare la mentalità, la cultura e il comportamento di un popolo? In questo articolo si tenta una risposta applicata all’Afghanistan

Violenza e intolleranza dilagano in Afghanistan, mietendo vittime senza pietà. Per diversi decenni, l’Afghanistan ha sofferto di ideologie estremiste ed è stato impantanato nell’arretratezza, nella povertà e nell’ignoranza. Questa situazione ha spinto i teorici a intervenire. I riformatori sociali e le istituzioni competenti propongono varie soluzioni per sfuggire al dilemma dell’estremismo e della violenza, ognuno affrontando la questione in modo diverso. Le strategie principali proposte si basano sul principio che le strutture sociali, politiche e religiose dei paesi colpiti dalla violenza religiosa e dall’estremismo devono essere indirizzate, altrimenti, falliranno e saranno inefficaci.

Il sufismo è percepito come pensiero moderato e non violento

Quando gli occidentali arrivarono in Afghanistan dopo il 2001, oltre a usare strumenti duri per reprimere i talebani e gruppi simili, tentarono anche di testare metodi morbidi, rafforzando pensieri moderati e promuovendo un’interpretazione equilibrata dell’Islam. Alcune istituzioni occidentali, tra cui la RAND Corporation, che si dice abbia stretti legami con i decisori politici americani, una volta suggerirono che, per la pace e la stabilità in Afghanistan, l’istituzione del sufismo avrebbe dovuto essere rafforzata e le ideologie sufi avrebbero dovuto essere diffuse tra le persone come alternativa all’interpretazione dell’Islam dei talebani. Secondo questa istituzione, i sufi sono potenziali alleati degli Stati Uniti e possono svolgere un ruolo significativo nella lotta alla violenza e all’estremismo. L’istituzione ritiene inoltre che il sufismo abbia una presenza di lunga data in Afghanistan, fornendo una base per il rafforzamento dei pensieri sufi nel paese.

La percezione generale è che il sufismo, con il suo approccio non violento e l’enfasi sulla coesistenza e la tolleranza, non solo diffonde pensieri moderati nella società, ma ostacola anche le ideologie estremiste e marginalizza o addirittura sradica le interpretazioni violente dell’Islam. Ecco perché gli occidentali, negli ultimi vent’anni, hanno sostenuto alcuni circoli sufi e hanno cercato di rafforzare la posizione di alcuni leader. Questi sforzi hanno ottenuto un certo successo, creando importanti autorità sufi in tutto il paese. Anche ricercatori e scrittori nazionali hanno riconosciuto che usare il sufismo per contrastare ideologie estremiste e violente è efficace.

Non c’è dubbio che il sufismo abbia un alto status in Afghanistan e, nonostante gli sforzi dei chierici di prendere l’iniziativa e concentrare tutto il potere nelle loro mani, spesso sopprimendo i pensieri sufi direttamente o indirettamente, un ampio segmento di cittadini afghani mostra ancora interesse e devozione per il sufismo, i percorsi sufi e la letteratura mistica. Questo fenomeno, data l’enfasi del sufismo sulla compassione, la tolleranza e la coesistenza, è uno sviluppo positivo. Tuttavia, è importante notare che ogni volta che il sufismo si intreccia con la politica e i giochi politici assume un aspetto duro, diventa ideologico e si allontana dalla tolleranza e dalla coesistenza. La storia afghana contemporanea dimostra il ruolo dei leader sufi nel promuovere l’alterità e nel reprimere il dissenso.

Dapprima si è ritenuto il nucleo dei talebani fosse composto da individui formati in scuole religiose in Afghanistan e Pakistan, spinti alla violenza e alla guerra dall’esposizione a pensieri politico-religiosi estremisti. Tuttavia, l’amara realtà che deve essere riconosciuta è che una parte significativa delle forze talebane è composta da individui affiliati agli ordini sufi, che hanno giurato fedeltà ai quattro principali ordini sufi: Naqshbandiyya, Qadiriyya, Chishtiyya e Suhrawardiyya. Sirajuddin Haqqani è chiamato “Khalifa” perché è leader di uno dei circoli sufi in Afghanistan. Le fazioni più brutali dei talebani, comprese quelle di Kandahar, Helmand e Zabul, sono spesso seguaci di un maestro sufi.

Le trasformazioni dei movimenti intellettuali

Osservando la storia della nascita, della diffusione e del declino delle ideologie, la conclusione più importante è che i pensieri e i movimenti intellettuali si evolvono e divergono significativamente dal loro stato originale. Il sufismo inizialmente enfatizza l’auto-purificazione, il rafforzamento morale e lo sforzo di avvicinarsi a Dio, ma quando si intreccia con desideri mondani e interessi materiali, perde la sua essenza originale e segue un percorso che i suoi fondatori non hanno mai inteso. Ciò è evidente nell’era safavide in Iran, dove i Safavidi, originariamente leader sufi, si impegnarono in sanguinose purghe degli oppositori dopo aver ottenuto il potere, abbandonando compassione, gentilezza, tolleranza e clemenza religiosa.

Un altro punto da non trascurare è che idee e modi di pensare non sono alberelli da trapiantare da un posto all’altro. Le idee subiscono trasformazioni e distorsioni in diversi contesti ambientali. Sebbene il sufismo promuova fondamentalmente tolleranza e clemenza, quando viene inserito in un ambiente arretrato, violento e caotico, adotta le caratteristiche di quell’ambiente, deviando dai suoi principi originali. Sfortunatamente, la storia afghana contemporanea dimostra che anche i pensieri e le visioni del mondo più progressisti vengono degradati e usati per misantropia, violenza e intolleranza in questo paese.

Il popolo afghano segue la scuola di pensiero hanafita in giurisprudenza e teologia. I talebani hanno ripetutamente sottolineato di aderire alla scuola hanafita. Gli esperti affermano che la dottrina hanafita rispetta le donne, valorizza la libertà di pensiero ed è indulgente nelle questioni quotidiane. Tuttavia, l’attuale pratica hanafita in Afghanistan non solo è molto lontana da questi insegnamenti, ma agisce anche in modo completamente contrario ad essi. In tali casi, dovremmo incolpare il pensiero e l’ideologia, o dovremmo capire che un ambiente arretrato e oscuro inghiotte anche i pensieri più puri e raffinati, trasformandoli a loro somiglianza? Il popolo afghano professa di seguire la scuola hanafita ma, in pratica, abbraccia con tutto il cuore le ideologie più dure e takfiri. Un ambiente arretrato e inquinato interagisce con le strutture intellettuali in un modo che getta alle ortiche le loro virtù e assorbe i loro difetti e afflizioni.

La Repubblica ha sostenuto alcuni ordini sufi per stabilire pace e sicurezza, frenare pregiudizi e terrorismo e istituzionalizzare i diritti umani e la dignità umana. Questi ordini sufi sono riusciti nella loro missione di frenare terrorismo e violenza? La risposta è no. Non solo questi ordini non sono riusciti a rendere tolleranza, clemenza e facilità la norma nel paese, ma sono anche caduti nella trappola dei giochi di intelligence e ora stanno servendo l’infernale macchina dei talebani, facendo ogni sforzo per espandere l’influenza del gruppo tra la gente. Purtroppo la situazione in Afghanistan è così complessa e intricata che ha anche sconcertato e confuso i teorici.

L’Afghanistan di fronte alla crisi climatica

8AM Media, 7 agosto 2024

L’Afghanistan assetato affronta la crisi climatica: le crescenti controversie idriche con i vicini aggravano l’isolamento

L’Afghanistan è uno dei paesi del mondo più vulnerabili al cambiamento climatico. Negli ultimi tre anni i talebani non hanno fatto nemmeno il più piccolo passo per combattere il cambiamento climatico. Inondazioni devastanti, frane, tempeste di polvere e siccità persistenti hanno portato a sfollamenti interni, costringendo molti cittadini ad abbandonare le loro aree a causa della mancanza di acqua e prodotti agricoli. Di recente, Save the Children ha riferito che gli eventi legati al cambiamento climatico hanno costretto almeno 38.000 persone, metà delle quali sono bambini, ad abbandonare le loro case nella prima metà di quest’anno. Secondo le Nazioni Unite, una persona su sette in Afghanistan affronta uno sfollamento a lungo termine, il tasso più alto nell’Asia meridionale e il secondo più alto a livello globale. Il rapporto afferma inoltre che le donne e le ragazze sono più vulnerabili al cambiamento climatico rispetto agli uomini.

Le ricadute più pesanti su donne e bambini

L’Afghanistan è alle prese con il cambiamento climatico da solo, mentre affronta l’isolamento dopo la presa di potere dei Talebani. Il Paese è privo di aiuti finanziari stranieri per azioni essenziali all’adattamento al cambiamento climatico, mentre i Talebani lo considerano “opera di Dio o una cospirazione straniera”.

I resoconti indicano che il pesante fardello della crisi idrica ricade su donne e bambini, esponendoli a gravi rischi di violenza e sfruttamento. Nella maggior parte delle aree aride, sono costretti a percorrere lunghe distanze per andare a prendere l’acqua, dove subiscono violenza e maltrattamenti. Questa azione provoca danni fisici e psicologici, interrompe il senso di sicurezza dei bambini e ostacola la loro capacità di condurre una vita sana.

Di recente, Save the Children ha segnalato che i gravi cambiamenti climatici hanno costretto  ad abbandonare le proprie case più persone nella prima metà del 2024 che in tutto il 2023. L’organizzazione ha aggiunto che gli eventi estremi dovuti ai cambiamenti climatici hanno costretto almeno 38.000 persone a spostarsi in Afghanistan nella prima metà di quest’anno, circa la metà delle quali sono bambini.

Secondo il rapporto, l’analisi dei dati mostra che gli spostamenti nella prima metà di quest’anno dovuti a siccità, temperature estreme, inondazioni, frane e tempeste sono stati più elevati rispetto all’anno precedente, con metà delle persone colpite bambini, e continuerà così fino alla fine di questo anno.

Save the Children, citando le Nazioni Unite, ha scritto che nel 2022 un bambino su sette in Afghanistan ha dovuto affrontare uno sfollamento a lungo termine. Questo è il tasso più alto nell’Asia meridionale e l’Afghanistan si classifica in questo al secondo posto a livello mondiale.

Arshad Malik, responsabile di Save the Children in Afghanistan, ha affermato: “Le crisi climatiche alimentano la crisi umanitaria in Afghanistan, costringendo le persone ad abbandonare le proprie case, distruggendo le fonti  d’acqua e impedendo ai bambini di andare a scuola”. Ha aggiunto che, rispetto agli individui con più di 60 anni, i neonati in Afghanistan hanno 5,3 volte più probabilità di affrontare la siccità nel corso della loro vita, con un impatto sulla vita dei bambini.

Il rapporto di Save the Children afferma che l’Afghanistan è il sesto paese più vulnerabile al cambiamento climatico, ma ha la minore capacità di adattarsi e affrontare gli impatti della crisi. Il rapporto, citando le Nazioni Unite, ha affermato che più di una persona su tre in Afghanistan affronta livelli di fame da crisi, principalmente a causa degli shock climatici e degli alti prezzi dei prodotti alimentari.

Save the Children, citando le Nazioni Unite, ha scritto che 25 delle 34 province dell’Afghanistan stanno affrontando condizioni di siccità gravi o catastrofiche, che colpiscono più della metà della popolazione del Paese.

Studi ripetuti dimostrano che ragazze e donne sono colpite in modo sproporzionato da calamità naturali e cambiamenti climatici rispetto agli uomini. Secondo un rapporto del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) pubblicato nel 2019, almeno il 60% dei decessi dovuti a gravi eventi climatici a livello globale negli ultimi 20 anni ha riguardato donne o ragazze.

Crisi climatica e crisi umanitaria

Save the Children ha aggiunto che da quando i talebani hanno preso il potere, l’Afghanistan ha visto una significativa diminuzione degli aiuti negli ultimi tre anni e, pertanto, non ci si può aspettare che le organizzazioni umanitarie da sole possano colmare questa lacuna. L’organizzazione ha chiesto più assistenza alla comunità globale per affrontare le esigenze del cambiamento climatico e una pianificazione a lungo termine contro i disastri naturali.

Un’organizzazione chiamata “ACAPS”, che studia il cambiamento climatico globale, ha riferito che “i principali rischi che gli afghani dovranno affrontare tra il 2024 e il 2030” sono aggravati dal cambiamento climatico. Secondo l’organizzazione, il livello delle falde acquifere è aumentato a causa delle precipitazioni insufficienti e ha ridotto significativamente l’accesso all’acqua per milioni di persone e per l’agricoltura.

Il rapporto afferma che la riduzione delle precipitazioni e l’estrazione non sostenibile di acqua per l’agricoltura e l’uso domestico, combinate con l’accumulo annuale di acqua, hanno portato a una diminuzione dei livelli delle falde acquifere in tutto l’Afghanistan, con stime che mostrano un calo dei livelli idrici nella maggior parte delle parti del paese. L’organizzazione ha aggiunto che una pianificazione urbana impropria, insieme alla carenza di acqua e alle ondate di calore, ha ridotto la salute fisica e mentale e la sicurezza delle popolazioni urbane, rendendo le città sempre più vulnerabili alla carenza di acqua. Secondo l’organizzazione, le ondate di calore e le tempeste di polvere, combinate con l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, minacciano la salute e il benessere delle popolazioni urbane in Afghanistan e aumentano l’isolamento regionale a causa delle tensioni idriche con i paesi vicini.

Il rapporto dell’organizzazione afferma che la distruzione causata dalle inondazioni, le migrazioni di massa dai villaggi alle aree urbane e l’eccessivo utilizzo delle falde acquifere da parte dell’energia solare hanno ulteriormente ridotto i livelli idrici nel paese. Secondo l’organizzazione, l’intensità delle inondazioni e delle frane ha minato le capacità di risposta istituzionale dell’Afghanistan, con impatti devastanti sulle regioni settentrionali, nordorientali e meridionali.

Abdullah Öcalan: il Mandela curdo dimenticato

Benedetta Argentieri, TPI, 9 agosto 2024

Il 15 agosto ricorrono i 40 anni dell’inizio della guerra tra la Turchia e il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Un uomo in carcere da 25 anni però potrebbe mediare una soluzione politica. 69 Premi Nobel ne chiedono la liberazione. Ma Ankara continua i bombardamenti col tacito assenso degli Usa e dell’Europa

Da almeno quattro anni non vede i familiari, gli avvocati da cinque. Sta in cella 23 ore al giorno, e 24 durante il fine settimana. Non ha contatti con nessuno, gli sono vietate telefonate e lettere da più di tre anni, e dal giorno della sua cattura, nel 1999, le comunicazioni sono sempre state a singhiozzo. Le condizioni di detenzione di Abdullah Öcalan, leader del popolo curdo, da 25 anni in isolamento a İmralı, una piccola isola nel Mar di Marmara, in Turchia, violano tutte le convenzioni internazionali e persino le leggi locali. Da diversi anni, decine di organizzazioni in tutto il mondo si mobilitano con appelli alle istituzioni internazionali, veglie e marce, per chiedere che le sue condizioni migliorino, per la sua libertà, e per una soluzione politica alla questione curda. Ma  la Turchia, da sempre, si oppone in tutti i modi.

Una figura centrale

Provano a fare breccia e scuotere le istituzioni 69 premi Nobel, indirizzando una lettera al presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, per domandare un nuovo avvio dei negoziati di pace, sepolti dal 2015. E inviando un’altra lettera, tra gli altri, all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr), alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) e al Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt).

“Öcalan è considerato dalla stragrande maggioranza dei curdi il loro leader politico, spirituale ed emotivo. Senza la sua partecipazione sarebbe molto difficile trovare una soluzione  duratura alla questione curda. Per questo ho deciso di proporre un secondo appello  (il primo è stato nel 2019) rivolto agli organismi internazionali che dovrebbero essere consapevoli del  trattamento a cui Öcalan è sottoposto, alla tortura e all’illegalità dell’isolamento”, ha spiegato a Mediya Haber la presidente della Nobel Women’s Initiative, Jodi Williams, premio Nobel per la Pace nel 1997 per aver contribuito a fondare la Campagna internazionale per la messa al bando delle mine (Icbl), che ha coordinato l’iniziativa.

«Sono un’attivista per la pace da moltissimi anni. La questione curda è un enorme problema irrisolto che deve essere affrontato a livello internazionale. Senza la partecipazione di Öcalan sarà molto difficile trovare una soluzione», ha aggiunto Williams.
Tra i tanti firmatari ci sono Nobel per la fisica e per la chimica. Poi medicina ed economia. Anche Shirin Ebadi, che ha ricevuto il premio per la Pace nel 2003; Charles M. Rice, che ha scoperto il virus dell’epatite C; e poi Herta Müller e Wole Soyinka, entrambi Nobel per la letteratura.
«La preoccupazione dei Premi Nobel firmatari di questa lettera aperta deriva non solo dall’isolamento di Öcalan e dalle continue violazioni dei suoi diritti, ma anche dall’apparente mancanza di sforzi significativi a suo favore da parte delle istituzioni europee a cui ci rivolgiamo e del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite», si legge nella missiva indirizzata alle istituzioni internazionali. «Sebbene i suoi diritti siano garantiti dalla Costituzione turca e dalla legislazione nazionale, dagli statuti e dai regolamenti dell’Unione europea e dal diritto internazionale, nulla di tutto ciò sembra avere importanza».

n molti paragonano Öcalan a Nelson Mandela. Spiegano come il leader curdo, ormai 75enne, sia centrale per una risoluzione del conflitto e di come l’ostinazione di Erdoğan a non aprire una via per la pace sia un pericolo per tutto il Medio Oriente.

Nel frattempo la Turchia ha dato il via a una guerra clandestina, di cui la comunità internazionale non parla, nel nord dell’Iraq e continua le incursioni nella Siria del Nord Est. Tutte zone a maggioranza curda ben al di fuori dei confini nazionali turchi. Ma facciamo un passo indietro.

Quarant’anni di lotte

Abdullah Öcalan è nato in Turchia nel 1949, ha studiato Scienze Politiche all’università di Ankara, e nel 1978, con un gruppo di studenti ha fondato il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) con lo scopo di promuovere i diritti e il riconoscimento dei curdi. Inizialmente aveva come obiettivo la creazione di uno Stato curdo, negato dall’accordo Sykes Picot tra Francia e Impero britannico, e quindi ratificato dal trattato di Losanna nel 1923. La popolazione curda è stata divisa tra quattro Stati: Iraq, Siria, Iran e Turchia. Fin da subito hanno subito violenze e forme di assimilazione forzata.

Tra i primi militanti del Pkk c’erano anche molti turchi, e il partito aspirava a democratizzare la Turchia caduta in una spirale di violenza e arrivata sull’orlo di una guerra civile tra il blocco di sinistra, tra cui molti comunisti, e gli ultra nazionalisti di destra impegnati, tra le altre cose, a imporre una sola identità, quella turca. Intanto, i giovani del Pkk andavano in giro tra i villaggi e, in segreto, parlavano di Kurdistan. Dopo decenni di violenta assimilazione molte famiglie evitavano di parlare delle proprie origini e cultura. Rinnegavano la propria identità sperando, invano, di evitare le violenze. «Nessuno parlava così apertamente di Kurdistan. Da quel momento io e le mie compagne di classe abbiamo aperto gli occhi», ha raccontato Gültan Kişanak parlando del suo incontro con Sakine Cansiz, una delle prime militanti del partito, durante l’adolescenza.
Due anni dopo la nascita del Pkk, il 12 settembre 1980, alle 4,30 del mattino, la popolazione è stata informata via radio di un nuovo golpe militare, il terzo dal 1960. Allora, i generali, spiegarono che il Parlamento era stato sciolto e il Paese era passato sotto il controllo delle forze armate. Erano dovuti intervenire per salvare la Turchia dal collasso economico, dalla frammentazione e dalla violenza. Quella che seguì fu una pagina nera per il Paese: in un lasso di tempo molto breve tra le 250 e le 650 mila persone vennero arrestate. Di queste, 230 mila vennero processate, 50 giustiziate, 14 mila persero  la cittadinanza, 171 furono uccise mentre erano in arresto, centinaia di migliaia vennero torturate, migliaia risultano ancora disperse. Tutti i partiti politici, i sindacati e le fondazioni vennero chiusi. Molti militanti del Pkk vennero arrestati, tra cui Sakine Cansiz, mentre Öcalan fuggì in Siria. Nelle carceri cominciò una strenua resistenza, che portò a scioperi della fame e auto-immolazioni.

Così dal 15 agosto 1984, il Pkk ha abbracciato la lotta armata come strumento di difesa contro la violenza di Stato. Ad oggi è il movimento guerrigliero più longevo al mondo e si concentra sulle montagne del Kurdistan iracheno al confine tra Turchia e Iran. Influenzato dai tanti movimenti di liberazione della fine degli anni ’70, di stampo maoista, il Pkk inizialmente perseguiva la costruzione di uno Stato. Ma alla fine degli anni ’90 e all’inizio degli anni 2000, ispirato dagli scritti di Öcalan, ha abbracciato un nuovo paradigma, il Confederalismo Democratico. Un sistema di auto-governo dal basso che si basa su tre principi cardine: democrazia radicale, ecologia e liberazione delle donne.

Venticinque anni di isolamento

Il 15 febbraio 1999, dopo un lungo pellegrinaggio in Europa, Abdullah Öcalan venne arrestato in Kenya dai servizi segreti turchi (Mit) e della Cia. I curdi lo chiamano il giorno nero, puntano il dito contro il mondo occidentale, parlando di una cospirazione. «Nessuno ha avuto il coraggio di ospitarlo e portare avanti una soluzione di pace per la regione, così lo hanno consegnato ai turchi», dicono all’unisono molti militanti. Öcalan, nel 1998, venne anche in Italia dove fece richiesta di asilo politico. L’allora governo guidato da Massimo D’Alema prese tempo e la richiesta venne accolta due mesi dopo il suo arresto.

Dopo un processo considerato illegittimo da Amnesty International e su cui Human Right Watch ha sollevato molti dubbi, il 29 giugno 1999 Öcalan fu condannato alla pena capitale con l’accusa di alto tradimento e separatismo. La pena è stata commutata in ergastolo senza possibilità di appello; la Turchia ha quindi abolito la pena di morte nel tentativo di diventare un membro effettivo dell’Unione europea. Durante il processo, il leader curdo si è offerto più volte come mediatore in un possibile processo di pace.

Fin dal suo arresto Öcalan è stato trasferito nell’isola prigione di İmralı sul Mar di Marmara. Lunga otto chilometri e larga tre, nell’isola c’è un solo porto e una decina di edifici militari e amministrativi. Per dieci anni, Öcalan è stato in completo isolamento, in condizioni durissime.

Nella sua cella minuscola l’unico sguardo sull’esterno era una piccola feritoia da cui poteva scorgere un albero. Le autorità lo hanno abbattuto dopo che ha raccontato agli avvocati come quella pianta gli desse speranza. Nel 2009 a Imrali sono arrivati altri quattro detenuti, tutti curdi. Ora in totale sono quattro, guardati da un centinaio di soldati. Si possono incontrare tra loro una volta alla settimana per un’ora. Per il resto, Öcalan passa le sue giornate in cella con la possibilità di un’ora d’aria soltanto durante la settimana, mentre nel weekend è confinato per 24 ore al giorno. Non ha nessuna possibilità di contattare l’esterno. I suoi familiari negli ultimi cinque anni hanno fatto richiesta di vederlo 79 volte, tutte negate. Öcalan non vede i suoi avvocati dal 2019.

Dall’inizio della sua detenzione, non può avere più di un libro alla volta, e può prendere pochissimi appunti. Nonostante queste costrizioni, all’inizio degli anni 2000 ha scritto le sue memorie difensive da portare davanti alla Corte europea per i diritti umani (Cedu). Una collezione di analisi puntuali sul concetto di Stato, sul capitalismo, sulla necessità di democratizzare la società, e quindi sulla proposta di istituire il Confederalismo Democratico come strumento di pace non solo per il popolo curdo ma come soluzione dei tanti conflitti intorno al mondo. I suoi libri, tradotti anche in italiano, hanno ispirato tanti movimenti, e in particolare quelli delle donne. Öcalan considera le donne la prima colonia della storia e argomenta come nessuna società potrà mai essere libera se le donne non lo sono. È stato lui a ispirare il famoso slogan “Jin, Jiyan, Azadi”, “Donna, Vita, Libertà”, urlato per le strade iraniane e nel mondo intero.

E in questi 25 anni di prigionia, il partito è cresciuto in modo esponenziale, così come il movimento al suo interno. Una svolta è arrivata nel 2014 quando le milizie del Pkk sono scese dalle “loro” montagne per salvare la popolazione yazida dal massacro del sedicente Stato Islamico (Isis) che ha ucciso 30mila persone e schiavizzato almeno ottomila tra donne e bambini. I guerriglieri sono riusciti a proteggere centinaia di migliaia di persone e con l’aiuto di organizzazioni alleate della Siria del Nord Est, hanno aperto un corridoio umanitario.

Lo stesso anno la Corte di Giustizia europea si è espressa sull’etichetta di organizzazione terroristica che la Turchia e i suoi alleati gli hanno attribuito. Secondo i giudici, il Pkk è parte belligerante di una guerra civile e quindi non può essere considerato un’organizzazione terroristica. Ma l’Europa ha continuato con la repressione, ed è decisa ad affiancare la Turchia nella distruzione del partito ignorando gli organi internazionali. Nel frattempo, però, il movimento ha raggiunto milioni di persone intorno al mondo grazie alla Rivoluzione del Rojava, in Siria.

La Rivoluzione riuscita

Nel 2012, infatti, milizie curde riuscirono ad allontanare i soldati del regime di Bashar al-Assad dalla loro regione chiamata anche Rojava, o Kurdistan Occidentale. Lì, ispirandosi ai libri di Öcalan, hanno creato una zona autonoma dove viene implementato il Confederalismo Democratico. Grazie al suo carattere fortemente democratico, e alla necessità di difendersi dalla minaccia islamista, questa esperienza di autogoverno è riuscita ad arrivare a gestire un terzo della Siria e a coinvolgere cinque milioni di persone. Sotto a questo ombrello vivono tante etnie e religioni. L’area oggi è denominata “Amministrazione Autonoma della Siria del Nord Est” che riconosce lo Stato siriano per alcune funzioni ma ha una propria forza militare di auto-difesa.

Nella Siria del Nord Est tutte le minoranze sono rappresentate, e ogni istituzione ha due co-presidenti, una donna e un uomo. Le forze armate sono organizzate sotto l’ombrello delle Forze Democratiche Siriane (Fds), sotto il quale ci sono anche le Ypg e le Ypj (unità di difesa del popolo e delle donne). Sono state loro prima a fermare e poi a sconfiggere il sedicente Stato Islamico (Isis) nel 2019 in Siria. Una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti ha armato le Fds ma subito dopo la sconfitta dell’Isis ha abbandonato gli alleati alla mercé della Turchia.

Ankara però combatte una guerra senza frontiere e indisturbata su più fronti. Nel Nord Est della Siria porta avanti una guerra con i droni e a cosiddetta “bassa intensità”. Ha occupato diverse zone lungo la frontiera commettendo, anche secondo le Nazioni Unite, una pulizia etnica.

Mentre sulle montagne del Kurdistan iracheno la Turchia vuole arrivare allo scontro finale con il Pkk. La seconda potenza della Nato ha stabilito 71 basi militari nel nord dell’Iraq. Ha mandato oltre confine circa 300 carri armati e migliaia di soldati. Nove villaggi sono stati sgomberati e i militari hanno stabilito posti di blocco violando la sovranità dell’Iraq. Secondo i dati ufficiali, la sua aviazione, tra droni e caccia, solo quest’anno ha colpito 381 volte anche a centinaia di chilometri dalla frontiera turca. Erdoğan ha dichiarato di voler eliminare il Pkk entro l’estate, mentre i guerriglieri sono pronti a resistere.

Per questo ora più che mai è necessario far ripartire i colloqui di pace, dicono i Nobel. La questione curda non potrà mai essere risolta solo militarmente. Soprattutto preoccupano le condizioni di Öcalan. Una delegazione del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) è riuscita a fargli visita nel 2022. Ma la Turchia ha bloccato la pubblicazione della sua  relazione. Sono stati gli ultimi a vederlo.