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Autore: CisdaETS

Afghanistan: perché Trump e Harris non parlano del disastro USA

Inside Over, 16 settembre 2024, di Samuel Botti

Il dibattito presidenziale tra Donald Trump e Kamala Harris ha spostato l’equilibrio elettorale per coloro che ancora non riuscivano a prendere una decisione. Tra le varie tematiche trattate però, una in particolare non è riuscita a ritagliarsi lo spazio necessario per fornire risposte esaustive: il ritiro delle truppe in Afghanistan.

Pochi giorni prima del duello, è stata pubblicata un’indagine repubblicana intitolata Willful Blindness, realizzata con l’obiettivo di attribuire all’amministrazione Biden la vera colpa di ciò che avvenne nel 2021, guidata dal presidente della Commissione Affari esteri della Camera, il texano Michael McCaul. «Biden e la sua vice hanno tratto in inganno e, in alcuni casi, mentito direttamente al popolo americano in ogni fase del ritiro», ha commentato McCaul, affermando che questo argomento non è altro che una «macchia» sull’amministrazione democratica.

Il rapporto di oltre 350 pagine è stato subito commentato negativamente dall’ala dem che, dopo aver pubblicato il proprio minority report sull’indagine durata 18 mesi, ha accusato i repubblicani di averli esclusi dall’inchiesta e di aver scelto la politica anziché la ricerca della verità. Inoltre, i democratici accusano l’amministrazione Trump di aver preso accordi direttamente con i talebani, passando sopra il Governo afghano, e di aver imposto una tempistica irrealistica, creando conseguenze inevitabili per coloro che avrebbero guidato la Casa Bianca successivamente.

Nonostante le accuse da entrambe le parti, la responsabilità del ritiro che ha condotto nuovamente il territorio dell’Afghanistan nelle mani dei terroristi è bipartisan.

Barack Obama e la forever war

La forever war, come viene definita negli States, cambiò volto con l’ascesa del democratico Barack Obama che, una volta insediatosi alla Casa Bianca nel 2009, promise di «distruggere, smantellare e sconfiggere la rete di Al Qaeda in Pakistan e Afghanistan, e impedire loro un ritorno futuro». Questa dichiarazione, pronunciata in un discorso il 27 marzo 2009, segnava il ritorno di un’importante presenza militare a Kabul. Infatti, nel 2010 si contavano all’incirca 100mila soldati statunitensi presenti sul territorio del dari e del pashtu. La svolta significativa arrivò il 2 maggio 2011, quando le truppe americane scovarono e uccisero il leader di Al Qaeda, Osama Bin Laden, nascosto ad Abottabad, in Pakistan.

La caccia grossa a Obama poteva dirsi conclusa, e così si decise di iniziare un moderato ritiro delle truppe dai territori, con l’obiettivo di instaurare relazioni diplomatiche e di cedere il controllo alle forze locali – addestrate dallo Zio Sam – entro il 2014, per poi lasciare definitivamente il paese nel 2016. Il piano fu realizzato a metà: le truppe americane terminarono formalmente le operazioni militari e trasferirono i compiti alle forze locali. Rimasero circa 10mila soldati con lo scopo di addestrare gli afghani e di combattere i “rimasugli” di Al Qaeda. Tuttavia, nel 2017, nell’ultimo anno del mandato Obama, le truppe Usa erano ancora lì.

C’erano Trump, Biden, e i talebani

La palla passò a Donald Trump, con l’istinto iniziale di ritirarsi dall’Afghanistan, tramutato dopo poco tempo nella decisione di continuare a combattere per evitare la creazione di un nuovo insediamento terroristico, subito dopo la partenza delle truppe.

The Donald e il suo staff iniziarono i negoziati direttamente con i talebani nel 2018, fino ad arrivare alla firma dell’Accordo di Doha il 29 febbraio 2020. Ancor prima di scoprire quali fossero le condizioni del negoziato, l’amministrazione Trump viene aspramente criticata per aver trattato direttamente con i talebani, escludendo il Governo afghano e di conseguenza indebolendo la sua già bastonata figura istituzionale. Le giustificazioni che arriveranno saranno che i talebani rifiutano categoricamente il Governo, soprattutto se si parla di inserirlo in un negoziato. Inoltre, il fine mandato e una possibile rielezione erano alle porte, e negoziare direttamente con i talebani avrebbe generato un intervento più rapido, evitando così la burocrazia governativa.

L’Accordo prevedeva un ritiro graduale delle truppe statunitensi e delle forze NATO entro 14 mesi dalla firma, con una riduzione iniziale da circa 13.000 a 8.600 soldati entro 135 giorni. Il ritiro completo doveva avvenire entro il 1° maggio 2021. Tuttavia, per mantenere la sicurezza su quanto stabilito, il tycoon chiese ai talebani di interrompere i legami terroristici con Al Qaeda, ridurre la violenza contro le forze afghane e americane durante il ritiro, e non permettere che l’Afghanistan fosse utilizzato come base per attacchi contro gli States e i suoi alleati. Purtroppo, la fiducia riposta nei loro confronti fu più di quanto ci si potesse aspettare. La condizione finale prevedeva uno scambio di prigionieri tra il governo afghano e i talebani, liberando 5000 talebani e 1000 governativi.

I piani cambiano il 20 gennaio 2021, quando Joe Biden diventa il 46esimo Presidente degli Stati Uniti d’America. L’amministrazione democratica decide di ritardare il ritiro delle truppe dal 1° maggio all’11 settembre, data scelta non a caso. Questo messaggio non piacque ai talebani, instaurando in loro la sfiducia nel Governo americano e la mancata collaborazione prevista dall’accordo. In quel momento erano presenti sul campo tra 2500 e 3500 soldati americani.

Nel luglio 2021, Biden annuncia il ritiro totale delle truppe entro il 31 agosto. Dopo un mese e mezzo, i talebani conquistano Kabul.

Tra evacuazioni di emergenza e caos dilagato all’aeroporto di Kabul, il 26 agosto un attentatore suicida dell’ISIS-K uccide 13 soldati americani e 170 afghani al cancello Abbey Gate.

Le truppe americane si ritirano ufficialmente il 30 agosto 2021.

La guerra in Afghanistan è un nodo contorto e mai districato, che probabilmente non vedrà mai la luce. Ciò che è certo, è che la colpa di quanto accaduto è una storia tutta americana, a prescindere dal partito.

Afghanistan, partono i lavori del gasdotto asiatico Tapi. Così i Talebani cercano di rafforzare la loro rete diplomatica

Il Fatto Quotidiano, 16 settembre 2024 di Davide Cancarini

Isolati dalla comunità internazionale anche a causa delle folli politiche domestiche messe in campo soprattutto nei confronti della popolazione femminile dell’Afghanistan, i Talebani stanno però portando avanti con successo una strategia di accreditamento regionale. L’ultimo episodio in ordine di tempo di quella che sembra una tendenza in fase di costante consolidamento, è la presunta ripartenza dei lavori relativamente al gasdotto Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India (TAPI).

Presunta perché di quest’opera, che dovrebbe far transitare il gas naturale turkmeno attraverso il territorio afgano fino a quello pachistano e indiano, si parla da almeno tre decenni. Con finora pochissimi passi avanti, anche a causa di tutta una serie di ostacoli finanziari, politici, logistici e di sicurezza. Nei giorni scorsi a Herat si è però tenuta con grande clamore la cerimonia di inizio dei lavori della sezione afgana del gasdotto – quella turkmena stando alle dichiarazioni ufficiali dovrebbe già essere stata completata.

Anche solo l’avvio della realizzazione del TAPI darebbe respiro all’economia afgana grazie alle ricadute occupazionali, senza parlare poi delle entrate che sarebbero garantite dal passaggio del gas turkmeno, stimate in circa 500 milioni di dollari all’anno. Va detto che il TAPI è da sempre stato circondato dallo scetticismo, non da ultimo a causa della difficoltà che emergerebbe di garantire la sicurezza dell’opera in un contesto interessato da continua instabilità come quello afgano.

Se si guarda però a quanto avvenuto a Herat allargando lo sguardo al suo significato politico, l’episodio è molto rilevante, soprattutto perché i Talebani negli ultimi mesi hanno implementato un grande sforzo diplomatico per accreditarsi come interlocutori credibili soprattutto verso i paesi della regione. Con un certo successo. Pochi giorni fa la repubblica centro asiatica del Kirghizistan ha rimosso il movimento fondamentalista dalla lista delle organizzazioni considerate terroristiche, una mossa che le autorità kirghise hanno cercato di tenere sottotraccia. Non così dal lato afgano, con il ministero degli Esteri di Kabul che si è affrettato a sottolineare la rilevanza della decisione di Bishkek sulla strada della, almeno nelle intenzioni dei Talebani, piena accettazione dell’Emirato Islamico da parte della comunità internazionale.

L’iniziativa del Kirghizistan segue a distanza di pochi mesi quella identica intrapresa dal Kazakistan, ancora più significativa perché quest’ultima è la repubblica centro asiatica di gran lunga più importante dal punto di vista economico e che gode del maggiore peso politico a livello globale. Astana aveva inserito i Talebani nella lista dei movimenti terroristici nel 2005. L’altro gigante dell’Asia Centrale, in questo caso dal punto di vista demografico, l’Uzbekistan, non ha per ora agito in tal senso.

Ma Tashkent a metà agosto ha mostrato di ritenere i Talebani un interlocutore da tenere in considerazione, inviando a Kabul il primo ministro uzbeco. Quella compiuta da Abdulla Aripov è stata la visita ufficiale di più alto grado in Afghanistan dall’agosto 2021, quando Kabul è stata riconquistata dal movimento guidato dal 1994 fino alla sua morte nel 2013 dal Mullah Omar.

C’è di più, perché alcuni paesi asiatici stanno allo stesso tempo accettando i rappresentanti diplomatici nominati dai Talebani. La Cina ha compiuto per prima questo passo, a gennaio di quest’anno, seguita poche settimane fa proprio dal Kazakistan e dagli Emirati Arabi Uniti. Anche la repubblica centro asiatica decisamente più ostile nei confronti dei signori di Kabul, il Tagikistan, sta operando piccole aperture: il regime tagico ha infatti inviato in Afghanistan il capo del Comitato di Stato per la sicurezza nazionale per farlo incontrare con ufficiali dell’intelligence afgana. Un episodio che, se fosse avvenuto tra due qualsiasi paesi confinanti, si sarebbe potuto considerare di routine, ma che riguardando le controparti tagica e afgana assume un significato molto rilevante.

Il filo rosso che si nota osservando la dinamica in atto è la crescente consapevolezza del fatto che i Talebani sono destinati a rimanere al potere a lungo e che quindi aprire un canale di dialogo è necessario. Ogni paese porta poi avanti la propria agenda rispetto all’Afghanistan: gli attori confinanti come l’Iran, il Pakistan o l’Uzbekistan, allo stesso tempo temono le potenziali ricadute interne dell’instabilità afgana e guardano con interesse alle potenzialità logistiche e commerciali.

Altri, come la Cina, mirano ad avere un peso politico e a sfruttare le risorse minerarie della repubblica asiatica. Quel che è certo è che i Talebani non perdono occasione per fare leva a livello politico e di propaganda sui successi diplomatici che ottengono con sempre maggiore frequenza. Una normalizzazione che guardando alla gestione della sfera sociale interna all’Afghanistan e alle ricadute per la popolazione locale non può che incutere timore.

 

KNK: Lunga vita alla Rivoluzione Jin-Jiyan-Azadî!

Rete Kurdistan Italia, 15 settembre 2024

Sono trascorsi due anni dalla Rivoluzione Jin-Jiyan-Azadî. Commemoriamo questo anniversario con lo spirito di lotta e resistenza nella persona dell’eroica donna curda Jîna Emînî e di tutti coloro che hanno sacrificato la propria vita per la libertà e l’uguaglianza. Inviamo anche i nostri saluti a tutti i combattenti per la libertà e alle orgogliose famiglie dei martiri.

Dal 2022, dopo il brutale assassinio di Jîna Emînî da parte delle forze del regime islamico dell’Iran, le donne di Rojhîlat – Kurdistan orientale e in tutto l’Iran hanno iniziato una grande rivolta. Le rivolte contro la pressione delle autorità della Repubblica islamica dell’Iran contro la persecuzione delle persone amanti della libertà sotto lo slogan “Jin-Jiyan-Azadî” erano naturali e intenzionali.

All’ombra del concetto di Jin-Jiyan-Azadî (Donne-Vita-Libertà), che è diventato un fenomeno globale e il cui marchio è entrato nelle pagine della storia, le donne del mondo si sono radunate attorno a questo slogan e si sono unite.

Oggi, in tutto il mondo, le donne stanno lottando e resistendo alle politiche di oppressione, repressione, disuguaglianza e schiavitù. Le donne stanno alzando la voce nella verità della filosofia di “Jin-Jiyan-Azadî”.

Il principio e la condizione della vittoria delle donne sotto questo slogan derivano dalla lotta secolare delle donne curde contro la mentalità fascista degli stati occupanti del Kurdistan. Il principio e la condizione della vittoria delle donne sotto questo slogan derivano dalla lotta secolare delle donne curde contro la mentalità fascista degli stati occupanti del Kurdistan.

Le donne del Kurdistan orientale e dell’Iran, che hanno esperienza di lotta contro la mentalità patriarcale e conservatrice, hanno continuato la loro resistenza e hanno dimostrato che, nonostante le pressioni e la politica di genocidio e persecuzione del regime conservatore, non si arrenderanno mai e lavoreranno per la libertà e l’uguaglianza.

I governanti e gli stati occupanti del Kurdistan hanno paura della forza e della volontà delle donne. Pertanto, più le donne, in particolare le donne curde, diventano forti e si organizzano, più il governo e lo Stato aumenteranno la loro politica di violenza contro di loro.

Il regime islamico dell’Iran è ben consapevole del potere della lotta delle donne! Imponendo pesanti punizioni e in particolare la pena di morte alle donne attiviste e combattenti come vendetta, vuole bloccare il cammino di questa resistenza e impedirla.

Ma né la politica di intimidazione né la pena di morte saranno un ostacolo alla lotta per la libertà e l’uguaglianza delle donne. Il governo non potrà mai sottomettere le donne e fermare il lavoro delle donne uccidendole e giustiziandole. Pertanto, la lotta delle donne in molte parti del mondo sta andando avanti oggi con grande volontà e coraggio e la luce della loro lotta sta diventando sempre più luminosa.

Come Congresso Nazionale del Kurdistan – KNK, invitiamo le donne curde del Kurdistan e tutte le donne all’estero a unirsi allo spirito onorevole della rivoluzione “Jin-Jiyan-Azadî” e a portare la fiaccola per una più grande lotta collettiva.

Invitiamo tutte le organizzazioni internazionali, le istituzioni democratiche e i movimenti femminili a prendere posizione contro la politica di annientamento, omicidio e tortura delle donne curde e dei combattenti per la libertà.

Commissione delle Donne del Congresso Nazionale del Kurdistan – KNK

14.09.2024

Promuovere l’assunzione di responsabilità per gli abusi in Afghanistan

In occasione dell’apertura della 57° Sessione del Consiglio per i diritti umani dell’Onu, HRW e altre 90 organizzazioni chiedono l’istituzione di un nuovo Organismo indipendente che sia autorizzato a indagare sui crimini internazionali passati e in corso

HRW, 9 settembre 2024

Il  Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite dovrebbe creare urgentemente un organismo indipendente per perseguire l’accertamento delle responsabilità di tutti i responsabili di gravi abusi, passati e presenti, in  Afghanistan , ha affermato oggi Human Rights Watch.

Da quando i talebani hanno preso il controllo dell’Afghanistan nell’agosto 2021, la situazione umanitaria e dei diritti umani del paese è precipitata gravemente. Le politiche repressive dei talebani hanno preso di mira in modo sproporzionato donne e ragazze, rendendo l’Afghanistan la crisi dei diritti delle donne più grave al mondo.

“I talebani hanno sistematicamente violato i diritti fondamentali in Afghanistan impunemente”, ha affermato  Fereshta Abbasi , ricercatrice afghana presso Human Rights Watch. “Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite dovrebbe creare un meccanismo dedicato per raccogliere e preservare le prove degli abusi e supportare gli sforzi di responsabilizzazione, come è stato fatto in molte altre situazioni”.

L’Afghanistan è ora l’unico paese in cui alle ragazze è vietato ricevere un’istruzione oltre la sesta elementare e alle donne è vietato frequentare l’università. Le autorità talebane hanno inoltre impedito alle donne di svolgere molte forme di impiego, hanno limitato la loro libertà di movimento e imposto severe limitazioni alla loro vita pubblica, tra cui praticare sport, visitare parchi e cantare in pubblico.

I talebani hanno anche fortemente limitato la libertà di espressione e dei media. I giornalisti sono stati sottoposti a minacce, detenzioni arbitrarie e torture, creando un clima di paura che scoraggia l’informazione indipendente. Le autorità talebane hanno minacciato, aggredito e arbitrariamente detenuto  persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender .

La situazione umanitaria in Afghanistan resta disastrosa:  23 milioni di persone soffrono la fame mentre il Paese è alle prese con una crisi economica e una povertà in peggioramento.

Nel 2021, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha nominato un relatore speciale sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan, un mandato fondamentale che dovrebbe essere rinnovato a causa del continuo deterioramento della situazione.

Una coalizione di 90 gruppi per i diritti umani afghani e internazionali, tra cui Human Rights Watch,  ha rinnovato il suo appello chiedendo che l’Afghanistan assuma le proprie responsabilità , tra cui l’istituzione da parte del Consiglio per i diritti umani di un ulteriore e complementare meccanismo indipendente dedicato per indagare sugli abusi passati e in corso e affrontare decenni di impunità. Questo meccanismo dovrebbe essere abilitato a indagare, conservare le prove e identificare i responsabili degli abusi, comprese le diffuse e continue violazioni dei diritti umani da parte dei Talebani nei confronti di donne e ragazze.

“Il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite dovrebbe creare un meccanismo di responsabilità indipendente per sostenere i diritti degli afghani alla giustizia e al risarcimento per gli abusi che hanno subito per decenni senza ottenere riparazione,“, ha affermato Abbasi.

“Non ci arrenderemo all’oppressione”

Freshta Ghani, Zan Times, 13 settembre 2024

Un gruppo di donne è sceso in piazza a Kabul per protestare contro il regime talebano la mattina di mercoledì 11 settembre. Questa è stata la prima manifestazione di piazza da quando i talebani hanno introdotto il loro nuovo decreto oppressivo contro le donne, che vieta loro di mostrare il volto e la voce negli spazi pubblici.
Nei video inviati a Zan Times da una fonte interna al movimento di protesta, si può vedere un gruppo di donne nell’area di Dasht-e-Barchi a Kabul marciare e cantare “Istruzione, lavoro, libertà” e “Abbasso i talebani”.

L’atmosfera soffocante di paura e repressione generata dal regime talebano ha reso estremamente difficile organizzare proteste. Una delle partecipanti alla protesta racconta a Zan Times: “Abbiamo organizzato questa protesta nonostante fossimo estremamente preoccupate e impaurite. Ogni volta che sentivamo un veicolo dietro di noi, pensavamo che i talebani fossero qui per arrestarci”.

I talebani le hanno tolto il lavoro e la vita, ha spiegato una manifestante di 26 anni, che aveva studiato economia. “Per non pensare alla prigione e farmi coraggio, ho cercato di pensare alle donne afghane, a come la loro situazione peggiora ogni giorno e a come i talebani impongono loro leggi più severe”, aggiunge.

Spiega che la protesta è stata organizzata dal Movement of Women for Historical Change, un gruppo impegnato a continuare la lotta contro i talebani: “Continueremo la nostra lotta e non ci arrenderemo all’oppressione o alla prigione”.
Un’altra partecipante ha inviato un messaggio a Zan Times: “Oggi è andata bene, ma sfortunatamente c’erano poche partecipanti. Tutte erano terrorizzate che gli agenti talebani potessero nascondersi nelle strade”.
Roqia Saee, un’attivista per i diritti delle donne che è stata arrestata e imprigionata due volte dopo le proteste di strada a Kabul, ora lavora con un gruppo di esiliati ed è in contatto con le organizzatrici. In un’intervista con Zan Times spiega come hanno cercato di organizzare la protesta in modo da evitare arresti: “Cinque persone sono state incaricate di monitorare qualsiasi segno dei talebani, 15 donne hanno partecipato alla protesta e una persona ha registrato il video”.
Aggiunge che si stavano preparando per la protesta da diversi giorni, ma hanno capito che devono ancora affrontare delle sfide: “Abbiamo trascorso circa tre giorni a cercare qualcuno che stampasse slogan e striscioni. Nessuno era disposto ad aiutarci. Hanno detto che avevano paura e non potevano correre il rischio. Il terzo giorno, abbiamo finalmente trovato qualcuno che ha accettato di stampare solo gli slogan”.

 

La conferenza in Albania

Lo stesso giorno della protesta a Kabul, 120 donne afghane in Albania hanno iniziato una conferenza di tre giorni per stilare una “roadmap per il futuro dell’Afghanistan”.
Nella sessione di apertura, una delle organizzatrici della conferenza, Fawzia Koofi, che era membro del Parlamento afghano, ha affermato che l’evento intendeva fornire uno spazio per dare forma “alla visione per le donne nel futuro dell’Afghanistan”.
Alcune delle donne che avevano marciato per protestare contro i talebani in Afghanistan hanno partecipato a questa conferenza. Si sono alzate e hanno scandito, “Riconoscere i talebani è un tradimento delle donne” e “Riconoscere l’Afghanistan è un apartheid di genere” durante un discorso di Rina Amiri, l’inviata speciale degli Stati Uniti per le donne e i diritti umani in Afghanistan. “Quando abbiamo saputo che la signora Amiri avrebbe partecipato, abbiamo alzato la voce per chiedere che l’apartheid di genere fosse riconosciuto”, spiega Masouda Kohistani, una delle donne manifestanti.

Aggiunge che la loro richiesta principale è che il mondo interrompa gli aiuti internazionali all’Afghanistan, poiché ritengono che questi fondi sostengano indirettamente i talebani: “La maggior parte di questi aiuti va a rafforzare ed espandere il terrorismo. Abbiamo visto che i talebani non distribuiscono gli aiuti a chi ne ha bisogno, ma li incanalano invece verso la loro base, usandoli per costruire scuole e centri religiosi che producono terroristi”.
Negli ultimi tre anni, i talebani hanno di fatto chiuso le donne e le ragazze nelle loro case, hanno chiuso le scuole per le ragazze sopra la sesta elementare, hanno impedito alle ragazze e alle donne di entrare nelle università, negli uffici, nei mercati, nei bagni, nelle palestre, nei parchi e nei viaggi e ora hanno persino vietato alle voci delle donne di essere ascoltate in pubblico.
Ciò che le donne stanno sopportando sotto il regime talebano è una palese oppressione e un livello senza precedenti di discriminazione di genere, che è stato descritto come “crimine contro l’umanità”. Purtroppo la comunità internazionale e le Nazioni Unite, impegnate in altre priorità politiche, hanno scelto di tollerare e compiacere i talebani e di chiudere un occhio sui loro crimini e sull’apartheid di genere.

Come l’11 settembre ha cambiato – e non ha cambiato – l’Afghanistan

Gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 hanno apparentemente cambiato la traiettoria della storia dell’Afghanistan. Ma oggi il paese è tornato per molti aspetti allo status quo ante, fatta eccezione per le migliaia di vite perse in guerra

Freshta Jalalzai, The Diplomat, 11 settembre 2024

L’11 settembre vivevo a Kabul, la capitale dell’Afghanistan. 

Il nostro quartiere nella parte orientale di Kabul, Microryan, sorgeva come una reliquia dimenticata: un complesso residenziale grigio e anonimo di cinque piani, costruito durante l’invasione sovietica. 

Nel 2001, i talebani controllavano circa il 90 percento dell’Afghanistan , con le aree rimanenti, principalmente a nord, tenute dall’Alleanza del Nord, una coalizione di forze anti-talebane, in particolare nelle regioni settentrionali come la valle del Panjshir. L’Alleanza del Nord era composta principalmente dai resti delle fazioni dei mujaheddin che avevano combattuto contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan negli anni ’80. Tuttavia, dopo il crollo del regime filo-comunista nell’aprile 1992, scatenarono una devastante guerra civile che durò dal 1992 al 1996.

La guerra civile aveva ridotto Kabul in cenere. Le finestre rotte durante i combattimenti erano state rattoppate con la plastica e i muri degli appartamenti bruciati erano rimasti anneriti dal fuoco, crivellati di proiettili, un ricordo inquietante della violenza che aveva devastato l’antica capitale.

Nel 1996, dopo la presa del potere da parte dei talebani e la fuga dei mujaheddin, l’Afghanistan scivolò dal caos della guerra civile, dalla crudeltà dei signori della guerra e dall’anarchia al malessere della povertà, dell’isolamento e delle malattie.

All’epoca, solo gli Emirati Arabi Uniti, il Pakistan e l’Arabia Saudita riconoscevano il governo talebano. Questo abbandono lasciò noi, il popolo afghano, sanzionati e quasi tagliati fuori dal resto del mondo, mentre le autorità talebane erano incontrollate e irresponsabili. Vivendo a Kabul a quel tempo, sembrava che, per il resto del mondo, non esistessimo. Avremmo potuto morire di fame se non fosse stato per l’aiuto quotidiano di cinque pagnotte di pane da parte di un’agenzia di soccorso delle Nazioni Unite, la nostra unica ancora di salvezza in quei tempi disperati.

Non c’erano praticamente posti di lavoro, le autorità talebane riuscivano a malapena a pagare gli stipendi mensili dei dipendenti pubblici e le agenzie umanitarie internazionali avevano operazioni limitate nel Paese.

L’acqua potabile pulita scarseggiava. Ogni pochi giorni, ci mettevamo in fila presso le vecchie condutture idriche dell’era sovietica che correvano nei seminterrati per raccogliere quella che percepivamo come acqua pulita, conservandola in pentole e barili per farla durare fino alla successiva opportunità.

Per stare al caldo, abbiamo posizionato un piccolo forno portatile a carbone al centro del nostro soggiorno, usandolo anche per cucinare. Era tragicamente comune che le persone morissero per il fumo del carbone dovuto all’avvelenamento da monossido di carbonio. Una delle nostre vicine, ad esempio, ha messo a dormire il figlio di 4 anni in una stanza riscaldata da un forno a carbone. Nel giro di poche ore, le sue grida hanno echeggiato in tutto l’edificio: suo figlio era morto. In un altro straziante incidente, un’intera famiglia è stata trovata morta, vittime dello stesso killer silenzioso. Nonostante queste tragedie, le persone hanno continuato a bruciare carbone, il combustibile più economico disponibile, nelle loro case, disperate per stare al caldo durante i rigidi inverni.

L’istruzione era diventata estranea alle ragazze afghane. Alle donne era vietato lavorare. Quindi, le famiglie si riversavano nei paesi vicini, principalmente Iran e Pakistan, mentre quelle rimaste erano di fatto intrappolate in una città devastata dalla povertà, dalle malattie e dalla siccità.

Durante il loro primo governo, i talebani proibirono anche la televisione, la musica e tutte le forme di arti visive. Ma la mia famiglia aveva una vecchia radio Sony ICF-7601 quasi rotta, un modello degli anni ’80 del marchio giapponese che i miei genitori forse avevano comprato in un mercatino delle pulci a Kabul.

La radio era tenuta insieme al centro da una fascia di plastica per evitare che cadesse a pezzi. Mio padre la tirava fuori con cura dalla custodia di stoffa che mia madre aveva cucito per proteggerla dalla polvere, appoggiandola delicatamente sul bordo del tavolo del soggiorno per accendere il notiziario della BBC in pashto. Ascoltava a bassa voce, perché non volevamo attirare attenzioni indesiderate sulla nostra casa.

Quella radio era il nostro unico collegamento con il mondo esterno.

I miei genitori si inginocchiavano davanti alla radio verso le 20:00, ora di Kabul, quando iniziava la trasmissione. Ripensandoci, direi che era una programmazione di mezz’ora, dopo la quale i miei genitori ci davano la loro analisi degli eventi della giornata. Era il riassunto della nostra vita quotidiana. Andavamo a letto subito dopo per risparmiare l’olio nella lanterna.

 

Dopo l’11 settembre

Fu durante questo rituale notturno che la mia famiglia venne a conoscenza degli attacchi dell’11 settembre negli Stati Uniti.

Mio padre era via, e fu mia madre a seguire la routine. Quella notte, spense la radio e ci disse: “È successo qualcosa di enorme”. Non ne comprendemmo la portata, ma era chiaro che mia madre era molto preoccupata.

Il breve riassunto di mia madre – “L’America è stata attaccata. Persone innocenti sono state uccise. Qualcosa di brutto sta per accadere” – era un duro riflesso della nostra impotenza.

Ma eravamo troppo deboli, troppo distanti, troppo impoveriti per pensare oltre. Il nome dell’Afghanistan veniva fuori man mano che le notizie si sviluppavano, ma era un sollievo che nessuno degli aggressori o dei diretti interessati fosse afghano. “Erano tutti arabi”, disse mia madre.

Tuttavia, Osama Bin Laden, l’orchestratore saudita degli attacchi dell’11 settembre, e il capo di al-Qaida si nascondevano in Afghanistan, e gli Stati Uniti chiesero ai talebani di consegnarlo. La leadership talebana rifiutò.

Ci è voluto quasi un mese per comprendere appieno le conseguenze di quel rifiuto.

Il 7 ottobre 2001, mentre gli Stati Uniti avviavano la loro campagna militare in Afghanistan, l’allora presidente George W. Bush si rivolse alla nazione . Dichiarò: “Il popolo oppresso dell’Afghanistan conoscerà la generosità dell’America e dei nostri alleati. Mentre colpiamo obiettivi militari, lanceremo anche cibo, medicine e rifornimenti agli uomini, alle donne e ai bambini affamati e sofferenti dell’Afghanistan”.

Bush ha inquadrato l’invasione come una duplice missione: combattere il terrorismo e portare la libertà al popolo afghano sotto il dominio dei talebani. La coalizione guidata dagli Stati Uniti ha invaso l’Afghanistan e ha promesso di liberarci, costruire una democrazia e stabilire un governo in nostro nome.

I soldati della coalizione entrarono a Kabul il 12 novembre 2001, durante la fase iniziale della campagna militare volta a smantellare al-Qaida e a rimuovere i talebani dal potere. Il nostro vicino, un uomo anziano che chiamavamo Baba, portò dei fiori ai soldati. Era forse la prima volta che un anziano afghano accoglieva un invasore straniero.

All’improvviso, abbiamo avuto una nuova libertà. I ​​ragazzi ballavano per le strade del nostro quartiere e le auto sparavano musica a tutto volume con i finestrini abbassati, lasciando che il suono echeggiasse nei nostri cupi dintorni. Le scuole riaprirono immediatamente e tutte le ragazze furono esortate a tornare a lezione. Anche le università ripresero.

Era come se una nuova vita fosse stata insufflata nei cuori e nelle anime delle persone. Le famiglie che erano fuggite in Pakistan e Iran iniziarono a tornare. Kabul si sentì come se una grande ondata si fosse abbattuta su di loro, trasformando ogni cosa.

Siamo stati presumibilmente salvati, con i talebani dipinti come nostri nemici e il nuovo governo afghano che l’Occidente ha presentato come i nostri salvatori.

 

Una democrazia subito finita

Sfortunatamente, la nostra democrazia è perita fin dall’inizio, quando gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno scelto i nostri aguzzini per portarci una vita migliore. La maggior parte delle figure introdotte nel nuovo governo erano le stesse persone che avevano inflitto la guerra civile al popolo afghano solo pochi anni prima.

Questi individui venivano ora presentati come nuove, raffinate alternative, ma noi li vedevamo come semplici versioni riconfezionate dei criminali di guerra e degli abusatori dei diritti umani che un tempo erano stati noti per atrocità come lo scuoiamento vivo delle persone, lo stupro e gli omicidi di massa. Ora venivano esibiti come paladini dei diritti umani. Dopo essere saliti al potere, la loro campagna di brutalità sugli indifesi è iniziata fin dall’inizio, con stupri sistematici , torture e uccisioni per vendetta nelle aree rurali.

Abbiamo riposto la nostra speranza in Hamid Karzai, un uomo con un passato nella Jihad contro l’invasione sovietica ma nessun coinvolgimento personale nella guerra civile o nella guida di milizie o nello spaccio di droga. Tuttavia, la realtà ha presto dissipato l’illusione di una tabula rasa.

Un uomo solo non poteva rendere giustizia a una nazione così profondamente segnata, gravata da potenti signori della guerra e da una comunità internazionale che interferiva pesantemente negli affari interni del paese. Karzai si lamentò, accusando gli Stati Uniti di agire come una “potenza coloniale”.

Nei due decenni successivi, migliaia di civili innocenti furono massacrati. Le cifre riportate di 70.000 morti tra militari e poliziotti afghani, insieme alle 46.319 vittime civili stimate dall’United States Institute of Peace, iniziano a illustrare l’enormità della perdita. La campagna per conquistare i cuori e le menti degli afghani fu dura. Arresti, imprigionamenti, incursioni notturne e bombardamenti furono così indiscriminati che molti abitanti dei villaggi afghani estranei ai talebani furono presi nel fuoco incrociato e alienati. Matrimoni, funerali, scuole e moschee furono bombardati.

Le statistiche ufficiali sulle vittime, sia militari che civili, sono solo un accenno alla vera portata del conflitto. Lentamente ma costantemente, l’aria a Kabul è cambiata. La città puzzava di esplosioni, gomma bruciata e sangue. Per una crudele ironia, durante il bombardamento dell’ospedale di Medici Senza Frontiere a Kunduz da parte delle forze statunitensi, una delle 42 persone uccise era il nipote del nostro vicino Baba, l’uomo che aveva accolto i soldati stranieri con dei fiori.

Le conseguenze della guerra vanno oltre l’immediata sofferenza umana, fino a gravi danni ambientali. Ad esempio, uno studio del 2017 ha rivelato livelli allarmanti di sostanze tossiche nell’acqua afghana, tra cui arsenico, boro e fluoro, gravi inquinanti con gravi implicazioni per la salute.

Nel mezzo di questa crisi ambientale e umanitaria, vale la pena notare che Osama Bin Laden è stato infine scoperto mentre viveva in Pakistan, a breve distanza dal suo potente quartier generale militare.

 

La guerra più lunga

La campagna statunitense per diffondere la democrazia in Afghanistan si è rapidamente trasformata nella guerra più lunga del paese. Circa 2.459 militari statunitensi sono stati uccisi e 20.769 sono rimasti feriti durante il conflitto, che si è protratto dall’ottobre 2001 all’agosto 2021.

Dopo una guerra durata due decenni, il gruppo ha firmato l’Accordo di Doha con gli Stati Uniti nel febbraio 2020, un documento incentrato principalmente sul ritiro delle truppe e sull’impegno dei talebani a impedire che l’Afghanistan diventasse un rifugio per i terroristi. Ancora una volta, il popolo afghano è stato dimenticato e i talebani sono tornati al potere.

In base all’accordo, l’ultimo soldato statunitense ha lasciato l’Afghanistan il 30 agosto 2021.

I talebani affermano di proteggere l’Afghanistan dai terroristi stranieri, forse avendo imparato dalle lezioni del passato. Ma il 31 luglio 2022, il leader di al-Qaeda Ayman al-Zawahiri, uno dei terroristi più ricercati dagli Stati Uniti, è stato ucciso in un attacco con drone a Kabul. Sembra improbabile che potesse vivere nella capitale dell’Afghanistan senza un certo livello di cooperazione da parte di chi detiene il potere. I talebani affermano anche di combattere la branca locale dello Stato islamico, segnalando frequentemente arresti e imboscate contro gli agenti dell’IS in tutto il paese. Ma gli attacchi terroristici transfrontalieri rimangono una delle principali preoccupazioni per i vicini dell’Afghanistan.

Sebbene l’accordo di Doha non affrontasse esplicitamente i diritti umani, in particolare i diritti delle donne, delineava il processo per i negoziati intra-afghani volti a raggiungere un accordo politico. Ma in realtà, il ritiro degli Stati Uniti ha lasciato l’Afghanistan in una posizione precaria, di nuovo sotto il controllo dei talebani, con un governo che non ha alcun riconoscimento formale dal mondo esterno. Per coloro che vivevano a Kabul nel 2001, la situazione è tristemente familiare.

Andando avanti, è fondamentale che gli Stati Uniti stiano dalla parte del popolo afghano e sostengano una soluzione negoziata, anziché riporre ancora una volta la propria fiducia in coloro che hanno ripetutamente deluso gli afghani. Non si dovrebbe più interagire con noti violatori dei diritti umani, signori della guerra e leader delle milizie come attori legittimi. Negli ultimi due decenni, queste persone hanno fatto ciò che sapevano fare meglio: abusare del potere, sottrarre denaro dei contribuenti americani destinato al popolo afghano e intaccare la legge, l’ordine e la giustizia in Afghanistan. Quando Kabul cadde, la maggior parte di loro scappò all’estero per vivere vite lussuose , lasciandosi alle spalle una popolazione affamata.

Nel corso degli anni, migliaia di afghani hanno svolto un ruolo cruciale nel supportare la missione statunitense durante la guerra al terrorismo, stando al fianco delle forze della coalizione guidata dagli Stati Uniti in prima linea. Hanno rischiato la vita e innumerevoli altri hanno pagato il prezzo più alto, credendo nella promessa di un Afghanistan più stabile e sicuro. Eppure, molti afghani ora affrontano un futuro incerto, sentendosi abbandonati mentre il mondo si allontana dopo il ritiro degli Stati Uniti. Oltre 40 milioni di afghani si sentono bloccati nell’isolamento, di fronte a un futuro incerto.

Anche per altri aspetti, l’Afghanistan è tornato a essere dove si trovava 23 anni fa: alle donne vengono negate le libertà più basilari, il governo non è riconosciuto e milioni di ragazze, come me, vengono private dell’istruzione, rischiano la fame e l’isolamento. La loro ultima speranza è riposta nella comunità internazionale.

Gli attacchi terroristici dell’11 settembre hanno causato la morte di migliaia di innocenti negli Stati Uniti. Hanno anche lasciato un segno indelebile nella storia dell’Afghanistan, rimodellando innumerevoli vite, inclusa la mia. Eppure, 23 anni dopo, milioni di afghani sono di nuovo in una situazione di stallo, presi tra incertezza e isolamento.

Ripensando alla vita che un tempo vivevo in quel piccolo appartamento al piano terra riscaldato dal carbone a Kabul, dove il mondo entrava solo attraverso i sussurri crepitanti di una radio rotta e l’acqua gocciolava debolmente da tubi sovietici dimenticati, sono colpito dall’eco crudele della storia.

La stessa paura, fame e isolamento che hanno plasmato la mia vita allora, gettano di nuovo le loro ombre sulle vite di milioni di ragazze afghane oggi. Ci siamo aggrappate alla speranza allora, proprio come fanno queste ragazze ora, ma la speranza, senza azione, è una fiamma fragile, che tremola nell’oscurità, finché non viene soffocata dalla disperazione. Il mondo, in particolare gli Stati Uniti, non deve permettere che l’Afghanistan scompaia di nuovo in quell’oscurità.

La colorata cultura di Daikundi cancellata dalle restrizioni talebane

Tamana Taban, Rukhshana Media, 9 settembre 2024

Arezo e sua sorella si erano recate in una panetteria vicino a casa loro, nella provincia settentrionale di Daikundi, quando sono state inseguite dai talebani perché indossavano abiti inappropriati.

I loro abiti e i loro foulard erano i tipici abiti modesti che le donne della regione hanno sempre indossato. Il problema per i talebani era che non erano completamente vestite di nero.

Arezo aveva sentito parlare del nuovo decreto dei talebani sull’abbigliamento femminile, ma lei e sua sorella pensavano che un salto veloce per prendere un po’ di pane sarebbe stato accettabile. Ma prima di raggiungere il panificio, alcuni membri dei talebani le hanno notate e hanno iniziato ad avvicinarsi.

“Siamo fuggiti dai soldati talebani e siamo tornati a casa, ma i talebani non si sono arresi e ci hanno seguito. Hanno bussato violentemente al nostro cancello diverse volte”, ha detto la venticinquenne.

“Alla fine, mio ​​padre è uscito per parlare con loro. Hanno detto a mio padre che due donne senza hijab [approvati] erano entrate nell’edificio e gli hanno chiesto di consegnarci immediatamente.”

Arezo ha affermato che l’incidente è stato risolto solo grazie all’intervento dei vicini, che hanno impedito il loro arresto.

Tuttavia, suo padre ha garantito ai talebani che le sue figlie non sarebbero più uscite di casa indossando dei colori.

 

“Un vero e proprio inferno”

Il dress code imposto dai talebani è completamente estraneo a Daikundi. L’abito popolare della provincia è famoso per i suoi disegni elaborati che decorano con eleganza abiti e copricapi luminosi e audaci.

“Non ricordo di aver mai indossato abiti simili prima”, ha affermato Sakina*, residente di Nili, capoluogo della provincia centrale di Daikundi.

“La mia famiglia e i miei antenati erano tutti musulmani e il nostro hijab era interamente islamico. Non capisco da dove venga questa interpretazione estrema e rigida dell’Islam”.

“Quando sono sola, mi chiedo quale peccato abbiamo commesso perché Dio ci decreti di vivere in questo modo sotto i talebani, che pure sono nostri contemporanei e connazionali”.

La venticinquenne ha descritto i decreti come un “inferno vero e proprio”..  

Il 29 giugno le autorità talebane locali di Daikundi hanno impartito un termine di sei giorni alle donne per indossare hijab neri che coprano tutto il corpo e per coprirsi il viso con maschere.

“Dopo la data sopra indicata (29 giugno-5 luglio), qualsiasi donna vista al mercato o in ufficio senza l’hijab in stile arabo verrà punita e imprigionata”, si legge nell’avvertimento settimanale del dipartimento di Vizio e Virtù di Daikuni.

Sakina, studentessa presso un istituto sanitario privato, racconta di provare paura nei confronti dei talebani dal momento in cui esce di casa fino a quando arriva a destinazione.

“Devo camminare per un’ora al giorno da casa all’istituto sanitario. Secondo l’ultimo decreto dei talebani, devo indossare un hijab nero su tutto il corpo. Quando torno a casa dall’istituto nel caldo soffocante, mi sento come se stessi bruciando in un incendio”, ha detto.

“È così difficile per me. Quando penso a come i talebani prendono decisioni e noi siamo costrette a obbedire, provo un senso di vuoto e umiliazione. Mi sento come se non fossi viva, come una persona morta per la quale i vivi decidono che tipo di sudario usare e dove seppellirmi”.

“Quando tolgono la volontà a una persona, c’è qualche differenza tra questo e l’essere un cadavere in movimento?” ha detto.

All’inizio di agosto di quest’anno, un rapporto congiunto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, dell’UNAMA e di UN Women ha rilevato che circa il 64% delle donne in Afghanistan non si sente al sicuro quando esce di casa.

Ciò è particolarmente grave per le donne che non hanno un padre o un marito che le difenda come Arezo e sua sorella.

 

Donne che scompaiono dagli spazi pubblici

In una zona remota di Nili, Sabira* si prende cura da sola dei suoi cinque figli, sia come unica fonte di reddito che come badante.

La trentaseienne, che gestisce un piccolo negozio di artigianato, ha scoperto che i decreti stanno influenzando anche la sua attività.

“Il numero di donne che si presentano al mercato è diminuito in modo significativo, è meno della metà di quello che era anche solo quattro mesi fa”, ha detto.

“Il motivo è la rigida applicazione da parte dei talebani dell’hijab in stile arabo. La maggior parte dei nostri clienti sono donne, quindi man mano che il numero di donne nel mercato diminuisce, la nostra base di clienti si riduce di conseguenza.”

Sabira ha affermato che suo marito era un civile ucciso a colpi di arma da fuoco dai talebani il 7 luglio 2019, nel distretto di Jalrez, nella provincia di Maidan Wardak.

Jalrez collega Kabul alle province centrali dell’Afghanistan. La strada che la attraversa è diventata nota colloquialmente come la “Valle della Morte” a causa delle centinaia di soldati e civili, per lo più Hazara, che sono stati presi in ostaggio, uccisi e decapitati dai Talebani in questa zona.

Nonostante il suo disagio, Sabira rispetta tutti i decreti imposti dai talebani per proteggere i suoi figli.

“Siamo state costrette a indossare l’hijab in stile arabo tutto il giorno al lavoro. Non appena torno a casa e mi tolgo questo abbigliamento obbligatorio, finalmente posso tirare un sospiro di sollievo”, ha detto.

“Lavorare con questi indumenti è difficile. Se non fossi così costretta dalla necessità, avrei lasciato questo negozio e avrei lavorato al mercato. Sono davvero esausta per tutte queste restrizioni. Spero che il governo di questo gruppo finisca presto così che possiamo essere tutti a nostro agio”.

Monisa*, una studentessa di 24 anni che frequenta un centro di lingua inglese a Daikundi, ha dichiarato di provare un profondo disagio per le regole di abbigliamento dei talebani, ma di obbedire per paura.

“Se non obbediamo e veniamo arrestati, sarà una vergogna per le nostre famiglie”, ha affermato.

“E’ molto faticoso camminare, credetemi, facciamo fatica a respirare. Cerco di togliermi la mascherina nelle aree meno affollate per riprendere fiato, ma ho anche paura che un affiliato dei talebani possa arrivare e crearmi problemi.”

Ad agosto, il leader supremo dei talebani, Mullah Hebatullah, ha firmato una nuova legge sulla moralità che estende ulteriormente le restrizioni per le donne, includendo il divieto di parlare in pubblico.

La legge appena promulgata contiene diverse disposizioni controverse, tra cui il fatto che le voci delle donne sono definite “awrat”, il che significa che le loro voci sono considerate come le parti intime e non dovrebbero essere ascoltate dagli uomini che non siano membri della loro famiglia.

Nota*: i nomi sono stati cambiati per motivi di sicurezza.

Donne usate contro altre donne

I Talebani ingaggiano spie femminili per catturare le donne che infrangono le nuove e severe leggi. Monitorano Instagram e si aggirano nei mercati per scovare le trasgreditrici, mentre il regime introduce nuove restrizioni

Akhtar Makoii, Rawa News, 2 settembre 2024

I talebani sfruttano le lavoratrici per spiare altre donne e far rispettare le nuove e severe leggi.

Da quando è tornato al potere nel 2021 il regime afghano ha vietato alle donne di lavorare fuori casa o di frequentare la scuola e l’università.

Ma alcune donne sono ancora impiegate presso il Ministero per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio (MPVPV), l’organismo che controlla le restrizioni, e sono ricercate altre reclute.

“Sono necessarie per gestire altre donne”, ha affermato un funzionario del ministero.

 

Costrette a spiare

Il funzionario ha affermato che i talebani hanno assunto delle donne per monitorare le pagine Instagram e segnalare i casi in cui pubblicano foto a volti scoperti.

“Sapete come funziona Instagram… possono nascondere le loro pagine in modo che nessuno possa vederle, ma noi abbiamo donne che sono i nostri occhi”, ha detto il funzionario, che lavora presso il dipartimento femminile del ministero.

Ha aggiunto che alcune donne sono costrette a svolgere questo ruolo, mentre altre vengono pagate per il loro lavoro, che comprende anche l’accompagnamento dei membri maschi talebani nelle pattuglie di strada.

“Alcune donne sono state arrestate e rilasciate solo a condizione che informassero il ministero di qualsiasi attività illegale osservata dalle donne che seguivano”, ha affermato il funzionario.

“È accettabile che le donne ci aiutino a combattere la prostituzione”, ha aggiunto quando gli è stato chiesto se il fatto che le donne talebane parlino con gli uomini violi le regole.

“Il ministero ha bisogno di più donne in tutto il paese, ma la situazione attuale non è buona e sono poche quelle che si offrono volontarie per lavorare al ministero”.

Nel 2021 i talebani hanno istituito il loro MPVPV nei locali dell’ex Ministero per gli Affari femminili, svolgendo un lavoro completamente opposto.

 

Una informatrice racconta

Una delle donne che lavora per l’MPVPV è un’informatrice nota come Golnesa. La trentaseienne trascorre le sue giornate monitorando e segnalando le sue compagne afghane, alcune delle più oppresse al mondo.

“Varia di giorno in giorno”, ha detto. “Alcuni giorni, pattuglio la città per cercare coloro che non rispettano le regole della castità.

“Altri giorni, visito diversi luoghi per trovare donne che non seguono il dress code, vado nei supermercati affollati e nei negozi di abbigliamento femminile.”

Quando vede una donna con il volto scoperto o le caviglie in vista, oppure una donna che ride con i negozianti, si astiene dall’intervenire personalmente.

“Direbbero ‘Oh, anche tu sei una donna, perché fai questo?'”

Invece, contatta ufficiali uomini che arrivano con fucili americani a tracolla.

“È il loro lavoro gestire la situazione con queste donne e molte di loro vengono portate alle stazioni di polizia”, ​​afferma.

“Non sostengo le donne che protestano per le strade e affermano di rappresentare tutte le donne”, afferma. “Non rappresentano me o molte altre donne musulmane che sono stanche di vedere indecenza.

“Supportare gli infedeli non è libertà”, ha aggiunto. “La vera libertà significa che le donne dovrebbero stare a casa, crescere i figli, servire i mariti e non preoccuparsi di nient’altro.

“Questo è un paese islamico, i nostri fratelli hanno combattuto così duramente per cacciare gli infedeli, non possiamo permettere che poche donne mettano in pericolo la religione.

“Sono orgogliosa di aiutare i fratelli a implementare le nuove regole, le donne inizialmente pensavano che i nostri fratelli stessero scherzando, ma ora tutto è legge e approvato da Amir al-Mu’minin”, dice, riferendosi al leader supremo dei talebani. “Ho un dovere sacro”.

“Vergogna!”

Una delle donne catturate da queste informatrici è stata la dottoressa Zahra Haqparast dopo aver organizzato una manifestazione di protesta a Kabul in seguito alla presa del potere dell’Afghanistan da parte dei talebani nel 2021.

“Abbiamo sempre saputo che i talebani alla fine avrebbero usato le donne contro altre donne”, ha detto.

“C’erano ragazze che si sono infiltrate nei nostri gruppi WhatsApp fingendosi attiviste e hanno aiutato i talebani ad arrestare molti dei manifestanti.

“Sono stata arrestata perché una di queste donne si è infiltrata nel nostro gruppo WhatsApp e ha fornito i miei indirizzi di casa e del mio ufficio ai talebani.

“Una delle ragioni per cui alcune donne lavorano per i talebani è la disperazione finanziaria, molte erano precedentemente impiegate dal precedente governo”.

La dottoressa Haqparast racconta che durante le manifestazioni molte delle donne che rivendicavano i loro diritti fondamentali sono state picchiate e torturate da donne che lavoravano per i talebani. “Vergogna!”

“Le ragazze urlavano e dicevano che altre ragazze le inseguivano durante le proteste”, racconta.

L’ex dentista, ora residente in Germania, ha perso il lavoro quando i talebani sono tornati al potere.

Sostiene che il numero di donne che lavorano per i talebani è in aumento.

“Abbiamo protestato e sacrificato tutto per le nostre compagne”, dice. “Eppure, alcune donne fanno tutto il possibile per danneggiare altre dello stesso sesso. Posso solo dire loro: ‘Vergognatevi'”.

Nonostante avessero promesso un governo più moderato, i talebani sono tornati rapidamente a punizioni severe, come esecuzioni pubbliche e fustigazioni, simili a quelle del loro precedente governo della fine degli anni Novanta.

La scorsa settimana i talebani hanno imposto nuove restrizioni, vietando alle donne di guardare gli uomini, di parlare ad alta voce in pubblico e perfino all’interno delle proprie case.

I talebani hanno affermato che le donne che non rispetteranno le nuove regole verranno arrestate e mandate in prigione.

Chi è Khalid Hanafi, ministro della Promozione della virtù e Prevenzione del vizio?


Scheda di controinformazione  a cura del CISDACISDA, Controinformazione, 30 agosto 2024

Khalid Hanafi è nato nel 1971 nel villaggio di Kolam Shaheed nel distretto di Doabi della provincia di Nuristan in Afghanistan.

Ruolo e responsabilità attuali

Attualmente Khalid Hanafi ricopre la carica di Ministro per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio del cosiddetto Emirato islamico dell’Afghanistan, il governo de facto, non riconosciuto dalla comunità internazionale, che è al potere in Afghanistan dall’agosto 2021.

“Hanafi è emerso come una delle figure più note dal ritorno al potere dei talebani.

La comunità internazionale lo identifica come un grave violatore dei diritti umani, in particolare per il suo ruolo nell’applicazione delle leggi draconiane dei talebani che hanno gravemente limitato le libertà dei cittadini afghani, soprattutto delle donne…Il suo ministero, noto per aver imposto alcune delle più severe restrizioni alla società afghana, è stato in prima linea nella campagna dei talebani per limitare i diritti delle donne. Queste misure includono il divieto alle donne di entrare nei parchi pubblici, la limitazione della loro libertà di movimento e l’applicazione di rigidi codici di abbigliamento prendendo come riferimento la legge islamica.

La posizione intransigente di Hanafi sui diritti delle donne riduce il loro ruolo nella società confinandole al matrimonio e agli obblighi religiosi. La sua retorica ha chiarito che l’interpretazione della legge della Sharia da parte dei talebani, in particolare per quanto riguarda l’hijab e la presenza pubblica delle donne, non è negoziabilePossiamo rinunciare a qualsiasi cosa, ma non possiamo rinunciare alla Sharia. Sharia e hijab sono le nostre linee rosse perché il nostro obiettivo era implementare un sistema islamico, ha dichiarato in un recente incontro.

Hanafi è strettamente legato alla rete Haqqani, una fazione influente all’interno dei talebani, e mantiene una stretta relazione con il leader supremo dei talebani, Hibatullah Akhundzada. La sua lealtà e il suo allineamento con la visione di Akhundzada hanno portato a un’autorità ampliata sugli organi esecutivi e giudiziari dei talebani, rafforzando ulteriormente la sua influenza nel governo oppressivo del regime.

Negli ultimi anni, le azioni di Hanafi hanno suscitato una condanna diffusa, sia a livello nazionale che internazionale. Le donne afghane, in particolare, hanno sopportato il peso delle sue politiche. Sotto la guida di Hanafi, il Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio è stato autorizzato a detenere e punire coloro che sfidano le sue restrizioni, rafforzando ulteriormente il controllo dei talebani sulla società afghana.

La portata del ministero si estende oltre i codici di abbigliamento e il comportamento sociale, comprendendo restrizioni sulle pratiche culturali e la presenza stessa delle donne nella vita pubblica. Mentre l’Afghanistan continua a confrontarsi con le conseguenze del governo dei talebani, Khalid Hanafi rimane una figura fondamentale negli sforzi del regime per imporre la sua austera interpretazione della legge islamica, con effetti profondi e devastanti sul tessuto sociale del paese.” (fonte Amu TV, 24 agosto 2024)

Biografia

Khalid Hanafi è figlio di Malik Habibullah, leader jihadista del periodo dell’invasione russa e governatore locale. Cresciuto in una famiglia integralista, Hanafi ha studiato in varie madrase in Afghanistan e in Pakistan. In particolare, ha compiuto i suoi studi nella madrasa Darul Uloom Haqqania, nella provincia pakistana di Khyber Pakhtunkhwa, “importante centro di diffusione della cultura islamica sunnita del movimento Deobandi, … Fu ribattezzata l’Università della Jihād per il contenuto, i metodi della didattica e per le future occupazioni di alcuni dei suoi più noti allievi. … diede ampio sostegno ai mujahideen e ai talebani dell’Afghanistan, sfornando in particolare il loro leader, il Mullah Omar.” (fonte Wikipedia)

Tra gli allievi di questa madrasa, oltre a Hanafi e al Mullah Omar, si annoverano Jalaluddin Haqqani, ex leader della rete terroristica omonima; Akhtar Mansour, ex leader dei talebani; Sirajuddin Haqqani, succeduto al padre Jalaluddin quale leader della rete che porta il suo nome; Mohammad Yunus Khalis, esponente di spicco dei mujaheddin.

Oltre a studiarvi, Hanafi ha successivamente insegnato in questa e in altre madrase, radicalizzandosi ulteriormente nel quadro ideologico che ora guida le politiche dei talebani.

Della sua vita privata, come di quella di molti leader talebani, non si sa molto.

Formazione e carriera politica

Vicino al primo governo talebano (1996-2001), anche grazie all’attività del fratello, Maulvi Rustam, allora vice ministro dei lavori pubblici, Hanafi ha formato un movimento jihadista nei distretti di Nimroz e Delaram (nell’Afghanistan meridionale).

Negli anni dell’intervento Nato, Hanafi è stato responsabile di tre distretti nella provincia di Nuristan: Norgram, Doab e Mandol. Inoltre, è stato responsabile anche delle province di Laghman e Nuristan e dei campi di addestramento militare nella zona orientale del Paese.

Dal ritorno al potere dei talebani, nell’agosto 2021, ricopre l’incarico di Ministro per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio.

Hanafi è il promotore della legge, approvata dai vertici talebani lo scorso 22 agosto, che sistematizza i numerosi divieti già in vigore nel paese, aggiungendone di nuovi.

“La nuova legge, divisa in 35 articoliraggruppa in unico testo varie norme (alcune delle quali già in vigore nel paese) che limitano notevolmente i diritti delle donne e impongono restrizioni sul loro comportamento, sia in pubblico che in privato. Tra le altre cose la legge stabilisce che le donne debbano coprire il corpo e il viso quando sono in pubblico, e non possano indossare indumenti aderenti o corti. Non possono cantare, recitare o leggere ad alta voce in pubblico, dato che secondo i talebani la voce di una donna è considerata un aspetto intimo e deve rimanere privata. Vieta inoltre alle donne di viaggiare senza essere accompagnate da un uomo con cui hanno un legame di sangue, e di fare incontri di qualsiasi tipo con uomini con i quali non sono imparentate.

Sono regolamentati anche alcuni aspetti dell’abbigliamento maschile: gli uomini non possono portare pantaloni sopra al ginocchio e devono sempre curare la propria barba. Sono vietate la produzione e la diffusione di immagini rappresentanti esseri viventi, l’ascolto della musica, l’omosessualità, l’adulterio e le scommesse.” (fonte il post)

In risposta alle numerose critiche sollevate dall’emanazione della legge da parte della comunità internazionale e, in particolare, di UNAMA Hanafi ha liquidato le proteste sottolineando che l’Emirato islamico si impegna con il mondo solo nel quadro delle leggi islamiche. “Secondo Mohammad Khalid Hanafi, l’hijab e l’implementazione delle punizioni islamiche sono linee rosse e nessun ordine di nessuno in merito verrà accettato. Il ministro ha affermato: Se l’Emirato islamico interagisce con il mondo, lo fa secondo il quadro della Sharia. Non agirà contro il quadro della Sharia, se Dio vuole. Il nostro obiettivo è un sistema basato sulla Sharia islamica.” (fonte Tolonews)

Se non sono bastate le violazioni dei diritti delle donne e di tutti i cittadini afghani e le violenze di cui il popolo afghano è vittima, questa legge e queste dichiarazioni dovrebbero mettere una pietra tombale su ogni tentativo, diretto e indiritto, di riconoscimento del governo talebano oltre a far sprofondare nella vergogna chi ha ceduto alle loro ignobili richieste pur di averli presenti all’ultima Conferenza di Doha.

Valutazione internazionale

Khalid Hanafi compare in 2 liste di individui sanzionati in Unione Europea e negli Stati Uniti.

L’8 marzo 2023, Hanafi è stato inserito nella lista nera dei nemici delle donne redatta dall’Unione Europea, una nuova categoria di sanzioni, che va a colpire nove persone e tre entità in tutto il mondo.  L’inserimento nella black list europea viene inquadrato nell’ambito di un regime globale di sanzioni dell’Ue per i diritti umani che si applica ad atti quali il genocidio, i crimini contro l’umanità e altre gravi violazioni o abusi dei diritti umani. Tra le nove persone colpite, oltre ad Hanafi, c’è anche il ministro per l’Educazione superiore Neda Mohammed Nadeem, entrambi colpevoli di “serie violazioni dei diritti delle donne afghane”, si legge nel testo approvato a Bruxelles.

L’8 dicembre 2023 Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha imposto sanzioni a Mohammad Khalid Hanafi, Ministro per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, e a Fariduddin Mahmood, capo dell’Accademia talebana, citando violazioni dei diritti umani e repressione di donne e ragazze. Il dipartimento ha affermato che i membri del ministero di Hanafi “hanno commesso gravi abusi dei diritti umani, tra cui rapimenti, frustate e percosse”. Hanno anche aggredito gli afghani che protestavano contro le restrizioni all’attività delle donne, tra cui l’accesso all’istruzione, ha osservato la dichiarazione.

Uno schiaffo al dialogo

CISDA, Comunicato, 3 settembre 2024

Di fronte all’abominevole recente legge dei Talebani emanata dal Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio contro le donne, la loro libertà e la loro stessa esistenza, la comunità internazionale si è affrettata a esprimere la sua totale condanna e a chiederne l’abrogazione.

In realtà la legge non afferma niente di nuovo rispetto a quanto era già stato deciso e applicato dalla “giustizia” talebana in questi tre anni di suo dominio assoluto. Già le donne non potevano frequentare la scuola dopo i 12 anni, lavorare fuori casa tranne in casi rari, uscire da sole senza l’accompagnamento di un famigliare, farsi vedere senza il hijab, frequentare parchi pubblici, bagni, saloni di bellezza, palestre nemmeno se a loro riservati.

Ora è stato chiaramente sentenziato anche il divieto per le donne a far sentire in pubblico la loro voce, cantare, recitare, leggere ad alta voce, come ultimo segno della volontà di cancellare completamente le donne come esseri umani.

I talebani si sono spinti ad affermare con una legge scritta e con validità nazionale la loro interpretazione della Sharia, che considerano la base del “mandato divino” del loro governo e che intendono propagandare come la giusta interpretazione della religione musulmana.

E’ chiaramente un segno di forza, quello che vogliono mostrare, al mondo prima ancora che ai loro sudditi.

Ma come mai, nonostante tutte le dichiarazioni di condanna della loro politica verso le donne da parte di praticamente tutti gli stati della comunità internazionale e di gran parte del Mondo musulmano i Talebani hanno avuto il coraggio e la faccia tosta di promulgare una legge così forte dando uno schiaffo a tutte le istituzioni internazionali e alle sanzioni promulgate nei loro confronti?

In questi tre anni molti Governi e Stati, non solo quelli vicini nella Regione ma anche i paesi donatori occidentali, hanno praticato aperture sempre maggiori verso il riconoscimento di fatto del governo talebano, fino ad arrivare alla 3° Conferenza di Doha organizzata dall’Onu stessa dichiaratamente per avvicinare i talebani al consesso internazionale, accettando, in nome del loro avvicinamento, di non parlare di donne e diritti umani proprio per dimostrare ai talebani la buona volontà di dialogare con loro, nella speranza  che questi avrebbero poi dato qualcosa in cambio. Basta con il pugno di ferro che ha isolato i talebani e li ha resi più “cattivi” – dicevano –  lasciamo perdere i diritti umani e andiamo avanti con il dialogo su argomenti meno controversi, dimostriamo come siamo “buoni” noi e il nostro sistema democratico, così capiranno…

Ma nel terzo anniversario della loro presa del potere i talebani hanno mostrato con questa legge non solo che non hanno alcuna intenzione di fare aperture sui diritti umani per nessuno, ma addirittura hanno consolidato le loro convinzioni e la presa repressiva sulle donne e tutta la popolazione, mostrando che le norme finora applicate localmente e con arbitrio personale da parte dei vari funzionari talebani e governatorucci locali non rappresentavano semplici abusi o esagerate interpretazioni della sharia ma invece quello che è e continuerà a essere il pensiero ispiratore della loro governance.

Sarà sufficiente questa ulteriore presa di posizione ufficiale per convincere l’Onu, gli Stati e le Istituzioni internazionali che è inutile sperare in un ravvedimento e un cambiamento della loro ideologia ma che invece i Talebani vanno trattati per i delinquenti che sono e costretti alle loro responsabilità, denunciandoli agli organi di Giustizia nazionali e internazionali?

Questo è quanto chiedono le donne afghane che resistono dentro e fuori il Paese e tutte le istituzioni e le organizzazioni che lavorano per i diritti umani.

Questo chiede anche il CISDA.