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Kabul, a teatro con la morte

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Giuliano Battiston – Il Manifesto – KABUL, 12 dicembre 2014

balcone emergency 1L’ospedale di Emergency a Kabul

“Bibi Jan, che ne dice se andiamo a tea­tro, domani?”. Rien­trato a Kabul dopo una decina di giorni di inter­vi­ste, appun­ta­menti man­cati e incon­tri for­tuiti tra Lash­kar­gah, nella pro­vin­cia meri­dio­nale dell’Helmand, e Jala­la­bad, a due passi dal con­fine paki­stano, ho subito chia­mato la prin­ci­pessa India d’Afghanistan.

Figlia del re rifor­ma­tore Ama­nul­lah Khan, capo di Stato negli anni Venti del Nove­cento, Bibi Jan ha pas­sato gli “ottanta” con estrema non­cha­lance, la stessa con la quale affronta la vita in una città poco ordi­na­ria come Kabul.

Sono andato a pren­derla nel primo pome­rig­gio di oggi, gio­vedì 11 dicem­bre, al Kabul Star, tra i migliori hotel di que­sta cao­tica città, a due passi dall’ambasciata ira­niana, tra la zona dei mini­steri e quella delle resi­denze diplo­ma­ti­che stra­niere.

Con un taxi abbiamo rag­giunto il liceo Este­q­lal, che al suo interno ospita il Cen­tro cul­tu­rale fran­cese, uno dei pochis­simi luo­ghi dove qui a Kabul sia ancora pos­si­bile seguire atti­vità cul­tu­rali vivaci, dalle mostre foto­gra­fi­che ai film, dagli spet­ta­coli tea­trali agli eventi musicali.

L’ingresso è ben pro­tetto. Una sbarra di metallo e un ampio can­cello impe­di­scono l’accesso alle auto­mo­bili. Si entra da una por­ti­cina di ferro, pas­sando per una stan­zetta dove due guar­diani hanno il com­pito di per­qui­sire e con­trol­lare i visi­ta­tori. Que­sta volta sono con una ospite molto spe­ciale. Nes­sun con­trollo. Solo un’ostentata rive­renza per la prin­ci­pessa India.

All’interno del Cen­tro cul­tu­rale, decine di ragazzi e ragazze scam­biano chiac­chiere, mes­saggi sui tele­fo­nini, qual­cuno scatta foto alle imma­gini appese alle pareti. È la gio­vane élite di Kabul, quella che guarda spesso con entu­sia­smo verso Occi­dente, che parla un discreto inglese, sfog­gia Iphone e scarpe lucide, i capelli impo­ma­tati per i ragazzi, il velo accen­nato e i pan­ta­loni stretti coperti da un vestito a mezza gamba per le ragazze.

 

Ci viene incon­tro la diret­trice del Cen­tro, Lau­rence Levas­seur, che entrambi cono­sciamo da tempo. Già coreo­grafa e ani­ma­trice di diverse atti­vità tea­trali, Lau­rence nel 2012 faceva le prove del suo spet­ta­colo cir­cense all’interno di un pic­colo palco rica­vato nel giar­dino della casa che con­di­vi­devo con il col­lega Ema­nuele Gior­dana, firma ben cono­sciuta dai let­tori di que­sto gior­nale. Lau­rence ci fa acco­mo­dare in sala. E’ ancora vuota. Sce­gliamo i posti. Fila cen­trale, ma nelle sedie late­rali, per evi­tare che i miei quasi due metri distur­bino troppo.

Viene a pre­sen­tarsi Inge Miss­mahl, una psi­co­loga che ha messo su una orga­niz­za­zione non gover­na­tiva che si chiama Ipso e che cerca di pro­muo­vere la “sta­bi­lità e la pace in Afgha­ni­stan attra­verso atti­vità cul­tu­rali”. I soldi ven­gono dal mini­stero degli Esteri tede­sco e dall’Unione euro­pea. E’ l’organizzatrice e la regi­stra dell’evento di oggi. Bibi Jan e Inge Miss­mahl discu­tono prima in fran­cese, poi in tede­sco: “l’ho stu­diato 70 anni fa e ancora un po’ me ne ricordo”, spiega con iro­nica mode­stia la prin­ci­pessa India.

Dopo mezz’ora la sala comin­cia a riem­pirsi. Alla nostra destra, due sim­pa­ti­che ragazze afghane, truc­cate e ben vestite. Sulla fila di sini­stra, giu­sto alle nostre spalle, notiamo due-tre uomini che “sto­nano”. Non hanno jeans e giub­botti alla moda. Indos­sano i tra­di­zio­nali vestiti afghani. Inge Miss­m­hal intro­duce la pièce tea­trale, Heart­beat. The Silence after the Explo­sion. “E’ un ten­ta­tivo di rap­pre­sen­tare i momenti che seguono un atten­tato, quando il tempo sem­bra fer­marsi e ci si guarda intorno smar­riti”. Cer­cando di capire per­ché, come, chi. E soprat­tutto se siamo ancora vivi.

Lo spet­ta­colo ini­zia sulle note dei musi­ci­sti dell’Afghan Natio­nal Insti­tute of Music. La musica è stata scritta da Yves Pignot, un com­po­si­tore fran­cese con capelli lun­ghi e bian­chi rac­colti in un codino. Entrano gli attori. Par­lano poco. E’ un tea­tro molto fisico. Fatto di gesti e musica, più che di parole. Bibi Jan decide di cam­biare posto: un ener­gu­meno le si è seduto davanti. Pre­fe­ri­sce spo­starsi, piut­to­sto che chie­derlo a lui. Si siede nella fila di sini­stra, davanti al grup­petto che “stona”. Davanti a me si siede un ragaz­zino. Non sem­bra inte­res­sato allo spet­ta­colo. Si guarda a destra e sini­stra con una certa impa­zienza. Sci­volo sulla sedia per farmi “basso”. Con le ginoc­chia tocco la sua sedia. Si gira. Mi scuso. Poco dopo, prende e se ne va.

Intanto la musica cre­sce e ral­lenta. Gli attori mimano gli attimi dopo un atten­tato. Sono stesi in terra. All’improvviso, una forte esplo­sione. Per un istante credo che fac­cia parte dello spet­ta­colo. Mi guardo intorno e capi­sco che non è così. Realtà e rap­pre­sen­ta­zione si con­fon­dono. Il fumo è dap­per­tutto. Cerco Bibi Jan. Mi alzo per andare da lei. E’ ancora seduta. “Fa parte dello spet­ta­colo?”, mi chiede incre­dula e con­fusa, come me. “No Bibi Jan, andia­mo­cene”. Cer­chiamo una via d’uscita nel buio, tra cal­ci­nacci, detriti, pozze di san­gue per terra. Bibi Jan si allon­tana. Io mi avvi­cino a un uomo in terra. Morto, la fac­cia sfi­gu­rata. L’insano vizio del gior­na­li­sta mi spinge a fare una foto. Guardo verso Bibi Jan, sola in mezzo al disa­stro, e rinun­cio. Intorno a noi le urla. Un paio di feriti ven­gono tra­spor­tati fuori. Abbrac­cio la prin­ci­pessa India. “Stai calmo, Giu­liano, non è niente”, mi ras­si­cura. Le tolgo del san­gue dal viso. Non è il suo.

Insieme ad altri cer­chiamo rifu­gio in un’altra ala del Cen­tro. Biso­gna ragio­nare sul cosa fare. Capire se si tratta di un solo atten­ta­tore o di un attacco mul­ti­plo. Alcune ragazze pian­gono. Un signore ha il volto insan­gui­nato. Lau­rence pre­sta soc­corso a un ferito, steso in terra. Usciamo fuori, nel par­cheg­gio della scuola. Urla con­ci­tate. Chi scappa di qua, chi di là. Alcuni poli­ziotti sono entrati nella scuola e si diri­gono verso l’interno. Noi usciamo fuori. I feriti ven­gono por­tati via. Molti all’ospedale “Emer­gency”, poco distante. Ci andiamo anche noi. Voglio accer­tarmi che Bibi Jan stia bene. E farmi con­trol­lare: non sento bene dall’orecchio sini­stro.

Ci accol­gono Ema­nuele Nan­nini e Luca Radaelli, colonne “sto­ri­che” di que­sto ospe­dale. “Te l’avevo detto”, fa Ema­nuele”, “l’Afghanistan è un posto sicuro fino a quando non suc­cede qual­cosa”. In que­ste set­ti­mane ne sono suc­cesse di tutti i colori. Sono undici i feriti por­tati qui dopo l’attentato al Cen­tro fran­cese, mi dicono. Sette ver­ranno dimessi, per­ché non gravi. Ne riman­gono tre. Uno è Moham­med Atif, tut­to­fare del Cen­tro cul­tu­rale fran­cese. Per for­tuna le sue con­di­zioni non sono gravi, al con­tra­rio di un altro paziente. Intanto viene con­fer­mata la morte di un cit­ta­dino tede­sco. E i Tale­bani riven­di­cano l’attentato: per­ché l’occupazione cul­tu­rale equi­vale a quella mili­tare, dicono i barbuti.

Men­tre lasciamo l’ospedale di Emer­gency, la poli­zia di Kabul fa sapere che l’attentatore era un quin­di­cenne. Forse pro­prio il ragaz­zino impa­ziente seduto di fronte a me. Anche lui una vit­tima, mi viene da pensare.

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