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La prigione talebana: un inferno per le donne

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Il racconto di due attiviste afghane sulla loro tragica esperienza nella prigione talebana

Azadah, Rukhshana Media, 12 gennaio 2024

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Zarifa Yaqubi, 29 anni, è stata arrestata e imprigionata per 41 giorni dai talebani. Hakima Mahdawi, 25 anni, ha trascorso una notte in prigione dopo essere stata detenuta. Il suo calvario è stato breve ma non per questo meno traumatico. “Una notte è stata come un anno per me”, dice Hakima.

Ecco i racconti di Zarifa e Hakima sui loro arresti, la detenzione e trattamento a loro riservato. Le esperienze di abuso, coercizione e tortura sono comuni a tutte le donne imprigionate sotto il governo di fatto dell’Afghanistan.

Dal 1° gennaio, la repressione talebana sull’inappropriato uso del hijab ha portato il gruppo a detenere decine di donne e ragazze a Kabul, alimentando timori per la loro incolumità.

 

La storia di Hakima, etichettata come prostituta

Io e la mia amica Sahar stavamo parlando al Tabasom Cultural Café, nella zona Pol-e-Khoshk, a ovest di Kabul. Ridevamo insieme, inconsapevoli che quella risata avrebbe portato un pandemonio.

Con un forte botto il cancello dell’edificio venne chiuso e tutti furono sorpresi. Entrarono tre uomini, uno di loro indossava un turbante bianco e un abito afghano bianco e gli altri due avevano uniformi militari e fruste in mano.

Era l’inizio di marzo e la Giornata internazionale della donna si stava avvicinando, quindi io e la mia amica Sahar ci stavamo preparando per una protesta. Prima che i Talebani prendessero il potere, studiavo psicologia all’Università di Kabul. [Dopo la presa del potere] con circa 50 ragazze e donne socialmente attive abbiamo formato un gruppo di protesta senza alcun supporto esterno.

Quel giorno stavamo pianificando la protesta al Tabasom Cultural Café. Era giovedì 5 marzo alle 11,30 del mattino quando i tre uomini entrarono.

In un batter d’occhio, l’atmosfera del ristorante è diventata terrificante. I talebani hanno alzato la tenda che divideva gli uomini e le donne nel ristorante [segregato sotto le restrizioni talebane], hanno messo in fila le donne da una parte e gli uomini dall’altra e hanno detto a tutti di mettere i cellulari sui tavoli. Stavo cercando di nascondere il mio ma uno degli uomini se n’è accorto e me l’ha strappato di mano. Mi ha dato un forte schiaffo in faccia, dicendo: “Puttana, volevi nascondere le tue corruzioni morali? È troppo tardi per quello!”

Il talebano con il turbante – credo fosse un Mawlawi – ha ordinato al personale del ristorante di spegnere la luce. Avvicinandosi agli uomini allineati nel ristorante li ha maledetti, dicendo che erano venuti qui a fare un’attività immorale con donne di cui non erano i mahram [tutori maschi].

“Non avete da mangiare a casa che portate qui le vostre mogli?” ha chiesto loro.

Nessuno di quegli uomini osava dire nulla.

Il Mawlawi ordinò che tutti gli uomini fossero frustati 20 volte. Nessuno degli uomini disse una parola.

Alcune donne e ragazze hanno detto: “Che peccato abbiamo commesso perché tu faccia una cosa del genere?”. ll talebano ha risposto: “State zitte, puttane Hazara!”

C’erano circa 20 uomini lì. Ognuno di loro è stato frustato 20 volte e poi è rimasto in disparte.

Quando è stato il turno delle donne, il Mawlawi ha costretto ciascuna di loro a parlare davanti a un video registrato: “Eravamo qui per attività immorali e abbiamo avuto relazioni extraconiugali con questi uomini, e ora siamo state arrestate”.

Quando è stato il mio turno, ho rifiutato. Non avevo fatto nulla di sbagliato. “Perché dovrei confessare?”, ho chiesto.

Mi ha separato dalle altre donne. Su ordine del Mawlawi, uno di loro ha preso il numero di mia madre dal mio cellulare e l’ha chiamata. “Abbiamo sorpreso tua figlia a fare un lavoro immorale e la stiamo portando al distretto di polizia”, le ha detto.

Quando ho sentito questo, sono rimasta senza forze e senza parole. Non potevo dire nulla, non hanno lasciato dire nemmeno una parola a mia madre, hanno subito interrotto la chiamata e non mi hanno restituito il cellulare.

Poi uno di loro mi ha coperto la testa e il viso con una coperta e mi ha detto di camminare.

Le mie gambe non ne erano capaci, ma in qualche modo dovevo muovermi. 

Mi hanno portato via con la loro Ford Ranger. Due soldati talebani mi sedevano ai lati, parlavano in pashto e ridevano tra loro. Quando ho provato a chiedere cosa avevo fatto, mi hanno detto semplicemente: “Non parlare, puttana!”

Sono stata portata al Distretto di Polizia 18. Ad un certo punto, ho visto sul mio orologio che erano le 20: non capivo come fossero passate così tante ore.

Mi hanno messa in una stanza senza finestre che sembrava un fienile. Hanno chiamato la mia famiglia e hanno chiesto un milione di afghani (14.100 dollari) in cambio del mio rilascio, minacciando di uccidermi se questi soldi non fossero stati pagati. Mia madre piangeva e implorava: “Non fare del male a mia figlia, procureremo sicuramente i soldi”.

Quando mio fratello prese il cellulare, il Mawlawi gli disse: “Voi Hazara, le vostre mogli sono tutte puttane. Tutti i distretti di polizia sono pieni delle vostre puttane. Vieni domani con il milione di afghani e riprendi la tua.

Ogni talebano che ho incontrato [mentre ero detenuta] puzzava già a pochi metri di distanza. Si sono alternati nel torturarmi con pungoli elettrici per cercare di costringermi ad ammettere che ricevevo denaro dall’estero per protestare contro i talebani.

Quella notte sono stata picchiata così tanto che pensavo che la mia vita fosse finita, ma non sono riusciti a ottenere da me alcuna confessione forzata.

Al mattino mio fratello portò 800.000 afghani che aveva preso in prestito da tutti i suoi parenti. Sono stata costretta a firmare un impegno [contro la protesta] scritto in pashto di cui non capivo niente. Mi hanno minacciata che se avessi protestato di nuovo sarei stata punita con la morte.

Mi hanno avvertita di non parlare della mia tortura ai media perché, se lo avessi fatto, avrebbero trasmesso i video che mi avevano ripreso durante la tortura.

Ma non era finita. Quando sono stato rilasciata hanno preso mio fratello e lo hanno condannato a sei mesi di prigione perché avevano portato 200.000 afghani in meno di quanto richiesto.

Mi sentivo come morta, non avevo più forza nelle gambe e sono crollata sul pavimento.

Basta, ho detto, non protesterò mai più, mio fratello è l’unico figlio di mia madre.

Uno dei talebani disse: “Vai, sparisci! Non gridare così tanto. Qui nessuno sente la voce delle prostitute, Dio non porterà quel giorno nemmeno ai nostri nemici”.

Tornata a casa, non sapevo come dire a mia madre che il suo unico figlio era stato imprigionato al posto mio. Non volevo che succedesse qualcosa a mia madre.

Ora che sono lontana dall’Afghanistan mi sento ancora ricercata dai talebani, ho perso tutta la tranquillità. Vivo lontano dall’Afghanistan ma sempre in un purgatorio di immigrazione e indigenza.

 

La storia di Zarifa Yaqubi. Una prigione peggiore dell’inferno

Era il 3 novembre 2022. Io e le mie amiche avevamo organizzato una conferenza per annunciare il Movimento delle donne afghane per l’uguaglianza. Quando la conferenza finì, mi resi conto che la sala era circondata dalle forze speciali talebane.

Sono venuti direttamente verso di me, le poliziotte mi hanno insultata e presa a pugni e mi hanno costretta a salire su un veicolo della polizia.

All’inizio sono stata imprigionata e tenuta in isolamento per 72 ore nel Centro Golbahar. Dopo che hanno intentato una causa contro di me, sono stata trasferita al dipartimento di intelligence 040 dei talebani.

Non dimenticherò mai quelle celle. Mi hanno dato del riso mezzo crudo che aveva un cattivo odore, non c’era cibo sano. Mi veniva messo davanti da lontano, come se stessero dando da mangiare a un animale.

Lì non c’erano attrezzature: per lavarsi e andare in bagno dovevamo ottenere il permesso dal capo del dipartimento, cosa che richiedeva molto tempo. Potevo dover aspettare giorni per avere il permesso, ed era molto doloroso.

Non mi hanno consentito di contattare la mia famiglia. Ci hanno torturato mentalmente e fisicamente in diversi modi e ci hanno detto di pentirci perché eravamo miscredenti dato che protestavamo in strada contro il governo islamico davanti a uomini che non erano i nostri mahram.

La prigione è un posto molto deleterio, ma la prigione dei talebani era peggio dell’inferno. Vi ho passato 41 giorni ma sono sembrati 41 anni. Una volta mi hanno torturata e picchiata così tanto che sono svenuta. Quando ho ripreso conoscenza, ero sdraiata sul pavimento umido della cella. Tutto il corpo mi faceva male. Avevo un forte dolore alla schiena, che ancora mi dà fastidio. Mi hanno torturato per farmi ammettere che prendevo soldi dagli stranieri per protestare contro i talebani.

La prigione talebana non può essere descritta a parole, perché è puro terrore, soprattutto per una donna. I pubblici ministeri che si sono occupati del mio caso non capivano né il dari, né il persiano. Io non capivo il pashto ed è stato un grande problema. Mi hanno liberata dopo 41 giorni, il 13 dicembre, con la garanzia di una confessione forzata e l’impegno a non parlare a nessun media della mia prigionia e delle torture fisiche e mentali e la promessa che non avrei mai più protestato contro i talebani.

In prigione mi hanno dato scosse elettriche e hanno colpito parti intime del mio corpo in ​​modo non potessi presentarmi davanti alla telecamera. Mi chiedevano per quale paese facevo la spia, quale movimento politico mi sosteneva e chi ci mandava soldi per manifestare contro i talebani.

Quando sono stata rilasciata, ho avuto difficoltà a conoscere le persone intorno a me. La perdita della memoria è stato il danno più grande che mi ha lasciato la prigione talebana, un grave problema per il quale mi sto ancora curando. Ma non dimenticherò nemmeno per un minuto quello che è successo e sta succedendo a noi donne nelle prigioni talebane.

Dopo il mio rilascio non avevo più il diritto di uscire di casa. Dopo tre mesi i talebani mi hanno detto che non erano responsabili della mia sicurezza, quindi mi sono sentita ancora più in pericolo. Alla fine, ho lasciato Kabul alle tre del mattino e mi sono unita alle centinaia di rifugiati e sfollati. Lasciare Kabul e l’Afghanistan è come essere lontano da tua madre, quando penso al mio paese e alle donne lì non riesco a frenare le lacrime.

Racconto questa storia perché si ricordi. Non dovremmo mai dimenticare che i talebani sono i principali nemici della libertà delle donne e delle ragazze in Afghanistan e finchè rimangono noi non potremo guardare avanti. Le istituzioni che sostengono i diritti umani, in particolare i diritti delle donne e delle ragazze, non dovrebbero dimenticare le loro lotte e i loro sacrifici contro l’oppressione del regime talebano.

Il nostro problema sono i talebani. Forse vivo in un Paese che soddisfa le mie necessità, ma sono ancora torturata mentalmente perché migliaia di ragazze e donne vivono in condizioni più pietose delle mie e non possono nemmeno ad alzare la voce. Noi almeno abbiamo potuto farlo, invece ora le condizioni per loro sono diventate molto più severe.

Non credo che la mia vita tornerà alla normalità finché un giorno non vedrò che le donne possono essere libere e vivere una vita pacifica. Sono andata da uno psicologo, mi sono state prescritte delle medicine, le ho prese per mesi, ma non sono la persona che ero prima dell’arresto. Non posso dimenticare facilmente quello che mi è successo dentro il carcere.

Questa è la storia di tutte le donne che protestano e cadono nelle mani dei talebani, tutte vengono torturate allo stesso modo e ci sono casi di stupro avvenuti in carcere contro donne che avevano protestato. 

Se critichi i talebani sei blasfemo e passibile di morte, e se sei un Hazara anche la tortura è un premio per i talebani.

 

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