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L’AFGHANISTAN DUE ANNI DOPO. Hffpost

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Baratro talebano. Fame, siccità, divieti, la rovina irreversibile dell’Afghanistan

HUFFPOST, 14 agosto 2023, di Giulia Belardelli 161506433 99b976eb 8b8a 4933 a024 d59d98b5e754

Due anni fa i sedicenti “studenti coranici” tornavano padroni a Kabul, mentre le truppe occidentali avviavano il loro rovinoso ritiro. Formalmente nessun Paese li riconosce, ma i loro emissari volano nel mondo e fanno affari con Cina, Russia e altri. Mentre il popolo afgano, soprattutto le donne, vive in condizioni sempre più disperate

A due anni dal loro ritorno al potere in Afghanistan, l’illusione che i talebani fossero cambiati o potessero cambiare si è rivelata per quello che era, una pia illusione. In questi due anni, infatti, il regime guidato dal leader talebano Haibatullah Akhundzada ha inanellato una serie di divieti che hanno reso impossibile la vita delle donne e delle ragazze afghane,

annullando tutte le conquiste e i progressi fatti nel corso degli ultimi vent’anni. Alle ragazze è stato precluso l’accesso alle scuole superiori e le donne sono bandite persino dai parchi pubblici, dalle palestre femminili, dai saloni di bellezza. Le Nazioni Unite hanno denunciato una situazione di “apartheid di genere”, ma i talebani insistono nel sostenere che questioni come i diritti delle donne non sono affari di cui il resto del mondo dovrebbe occuparsi. Formalmente, nessun Paese ha riconosciuto il loro governo, ma questo non significa che non siano riusciti a intessere relazioni promettenti con Stati potenti come Cina e Russia. L’assenza di qualsiasi opposizione significativa, e dunque di una reale alternativa, li rende fiduciosi sul fatto che prima o poi questo riconoscimento internazionale arriverà, anche perché la cooperazione in materia di stupefacenti, rifugiati e antiterrorismo è di interesse globale, anche in Occidente.

Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali, dopo il ritiro rovinoso delle truppe conclusosi nell’agosto del 2021, preferiscono volgere lo sguardo altrove, consapevoli di quello che è difficile chiamare in altro modo che un fallimento (proprio) e un tradimento della fiducia che molti afghani avevano riposto in loro. Il grande quesito di come aiutare la popolazione afghana senza scendere a patti con il regime di Kabul rimane senza risposta, con il risultato che l’impasse ha conseguenze devastanti per la stragrande maggioranza dei cittadini. Sempre più afgani vanno a letto affamati: secondo il World Food Programme, 15,3 milioni di persone stanno affrontando una grave insicurezza alimentare nel Paese di quasi 42 milioni di persone; circa l’84% delle famiglie prende in prestito denaro solo per comprare cibo. L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite evidenzia, in grassetto, che il loro appello umanitario è finanziato solo per un quarto alla fine di luglio, mentre i donatori si allontanano.

Questa situazione di insicurezza alimentare è aggravata dalla persistente siccità che sta mettendo a dura prova gli agricoltori e la già debolissima economia del Paese, che è per un terzo generata dall’agricoltura. Gli esperti affermano che la siccità è esacerbata dal cambiamento climatico che porta a un’intensificazione della pressione sulle risorse idriche. Il Global Climate Risk Index colloga l’Afghanistan al sesto posto tra i Paesi al mondo più colpiti dalle minacce legate al clima. Con un’irrigazione scarsamente funzionante, il Paese fa affidamento sullo scioglimento della neve nelle montagne per mantenere i campi irrigati durante l’estate. L’amministrazione sta costruendo un canale lungo 280 km che, se completato, potrebbe deviare l’acqua per l’irrigazione in tutte le province settentrionali. Ma mancano ancora anni al completamento e i Paesi vicini hanno espresso il timore che possa deviare ingiustamente la loro acqua. Con una forte riduzione quest’anno degli aiuti umanitari, operatori e diplomatici affermano che il livello di assistenza allo sviluppo per aiutare a risolvere il problema è limitato.

I talebani, dal canto loro, si vantano di aver tenuto a galla un’economia in condizioni difficilissime, in parte tenendo colloqui sugli investimenti con Paesi regionali ricchi di capitali, tra cui Cina e Kazakistan. Vogliono la rimozione delle sanzioni e lo sblocco di miliardi di dollari in fondi congelati, affermando che queste misure allevieranno le sofferenze degli afghani. Vedono il riconoscimento internazionale come un diritto, non qualcosa da negoziare. Sottolineano come, anche senza essere riconosciuti, i loro inviati – avvolti nelle tuniche tradizionali e nei tipici turbanti – siano tra i viaggiatori più assidui del mondo, che volano alle riunioni in molte capitali. Il ministro degli Esteri ad interim, Amir Khan Muttaqi, riceve le delegazioni a Kabul quasi quotidianamente, con tutto il consueto protocollo, comprese bandiere e fotografie ufficiali ambientate in sale eleganti. Il primo ministro del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, ha incontrato Akhundzada nella città sud-occidentale dell’Afghanistan di Kandahar a giugno, il primo incontro pubblicamente noto tra il leader supremo e un funzionario straniero. Secondo fonti diplomatiche citate dalla Bbc, durante l’incontro le parti hanno confermato ampi divari, soprattutto quando si tratta di istruzione e diritti delle donne, ma hanno anche evidenziato la possibilità di trovare una via da seguire, seppur lentamente.

Il tempo, insomma, sembra essere galantuomo verso i sedicenti “studenti coranici” e non esserlo per nulla verso le donne e le tante persone che fino all’agosto del 2021 hanno lavorato all’attuazione dei programmi sullo stato di diritto in quella che doveva essere una democrazia emergente. Secondo il Guardian, quasi 4.000 pubblici ministeri e membri del personale legale affrontano la minaccia di violenza da parte dei talebani in Afghanistan, dove almeno 28 pubblici ministeri e le loro famiglie sarebbero stati uccisi.

Il quadro dipinto dalle principali ong è a dir poco fosco. Oggi il Paese è sull’orlo di una rovina irreversibile, lancia l’allarme Amnesty International, denunciando come dal 15 agosto 2021 i talebani abbiano avviato una nuova era di violenze e violazioni dei diritti umani. Secondo Emergency, passati due anni dalla presa di Kabul da parte dei Talebani, sono diminuite le vittime di guerra, ma sono aumentati gli afghani che non hanno risorse per curarsi. Dal 15 agosto di due anni fa, le autorità talebane hanno rafforzato le “restrizioni estreme” sui diritti delle donne e delle ragazze e sui media, lamenta Human Rights Watch: hanno negato alle donne e alle ragazze il diritto all’istruzione, al lavoro, agli spostamenti, alla riunione e hanno imposto una “ampia” censura ai media, con un aumento degli arresti tra i giornalisti e gli oppositori. In due anni oltre l’80% delle giornaliste afghane ha dovuto smettere di lavorare e dei circa 12mila giornalisti – uomini e donne – su cui poteva contare l’Afghanistan nel 2021, più di due terzi hanno abbandonato la professione, denuncia Reporters sans frontières. Spariti, stando all’Afghan Independent Journalists Association (Aija), più della metà dei 547 media registrati nel 2021. Dei 150 canali tv ne restano meno di 70. Delle 307 stazioni radio, continuano le trasmissioni in 170. Dimezzate le agenzie di stampa, passate 31 a 18. In mezzo a questo deserto dei diritti umani, la comunità internazionale resta immobile, nella consapevolezza che, passato l’anniversario di quel 15 agosto che ha visto i talebani tornare padroni a Kabul, il silenzio tornerà ad avvolgere il destino di chi ha avuto la sfortuna di nascere, soprattutto donna, in questa parte di mondo.

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