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“Zan Times”, il tempo delle donne *

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UNWomen, 9 novembre 2022  

La giornalista afghana Zahra Nader: Crea una ZahraNader_copy.jpgpiattaforma per far sentire la voce delle donne afgane

“Zan” vuol dire donna. “Zan Times” è la nostra piattaforma mediatica per dire che questo è il tempo delle donne, che lotteremo, che diremo la nostra verità

Zahra Nader è una giornalista afgano-canadese e caporedattrice di Zan Times un organo di informazione appena lanciato che si occupa di diritti umani in Afghanistan con particolare attenzione alle donne, alla comunità LGBT e alle questioni ambientali.

Nata in Afghanistan, appartiene alla comunità Hazara, un gruppo etnico che deve affrontare emarginazione e violenza. Ha iniziato la sua carriera giornalistica a Kabul nel 2011, prima di trasferirsi in Canada nel 2017 per seguire gli studi superiori. Attualmente sta completando un dottorato in Studi di genere, femministi e femminili.

Il 20 ottobre 2022, Zahra ha informato il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite durante il dibattito aperto su donne, pace e sicurezza. Durante la sua permanenza all’ONU, ha parlato con UN Women [‘Ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’emancipazione delle donne] dei talebani, dei diritti umani in Afghanistan e del perché la rappresentanza delle donne – nella costruzione della pace, nel giornalismo e ovunque – sia importante.

 Echi del primo regime talebano

La prima volta che c’erano i Talebani ero una bambina. Ero molto giovane, forse sei anni, quando ho lasciato l’Afghanistan, ma potevo capire che il cibo era scarso. I nostri vicini non avevano nulla da mangiare. A volte mia madre dava loro una ciotola di farina per aiutarli a mangiare quella sera. Da bambina non riuscivo a capire queste cose. Mi chiedevo perché queste persone non avessero da mangiare. È stata la che Ho sentito parlare dei Talebani per la prima volta quando ho sentito dire “i Talebani sono qui”.

È stata molto dura. La mia famiglia è fuggita con un camion in Iran, dove, in quanto rifugiata afghano, non avevo diritto all’istruzione. Per tutta l’infanzia ho desiderato l’istruzione: il mio sogno più grande era ricevere un’istruzione e andare a scuola.

Ecco perché l’istruzione delle ragazze in Afghanistan mi tocca molto da vicino. Sento che quello che ho vissuto io 20 anni fa sta accadendo a un’altra generazione di donne afghane. E questo è il motivo per cui sto lavorando: to facendo quello che posso fare come giornalista per resistere a questo fenomeno, per fare almeno qualcosa per cambiarlo.

Rivivere l’incubo

[Il golpe] è stato così emozionante e reale per me, perché la mia famiglia, i miei amici e tutti gli altri erano in Afghanistan. Il mio telefono squillava ogni secondo. Mentre guardavo in diretta su Al Jazeera come i Talebani entravano nel palazzo presidenziale, questo mi suscitava così tanta emozione: pensavo che i talebani fossero passati, che l’incubo che la generazione che ci aveva preceduto aveva vissuto fosse passato, ma non era così.

È stato anche il crollo della mia speranza per il futuro. Stavo studiando per un dottorato e la mia speranza era quella di tornare in Afghanistan e insegnare all’Università di Kabul, nella nuova facoltà di studi di genere e femminili.

Sognavo di scrivere la storia politica delle donne. Quando sono cresciuta come giovane donna in Afghanistan non c’era una storia che mi permettesse di guardare indietro e vedere le mie radici, come le donne che hanno lottato prima di me per i loro diritti. È stato un grande vuoto nella mia vita. [Sentivo] di aver bisogno di scrivere la storia politica delle donne per poter mostrare a questa nuova generazione che la generazione precedente ha lottato duramente per i propri diritti, come stiamo facendo noi, e che noi siamo la continuazione della loro lotta per l’uguaglianza.

Ma con i fatti di agosto è crollata questa mia speranza.

Il mondo dovrebbe sentire questo

Per tanto tempo ho avuto questo senso di colpa, per essere rimasta illesa qui e poter andare a scuola. Ho una responsabilità come donna cresciuta nell’Afghanistan post-talebano, che ha studiato, è andata a scuola, è diventata giornalista: ho la responsabilità nei confronti delle mie sorelle in Afghanistan di lottare per i loro diritti.

Come giornaliste, il nostro ruolo è quello di essere presenti e di raccontare, di fare in modo che il mondo possa ascoltare le voci delle donne afghane e soprattutto di capire cosa significa davvero quando una ragazza non può andare a scuola, quando non può vedere il futuro, cosa ci sarà dopo per lei.

Perderà lo scopo di vivere. Dall’Afghanistan ci giungono molti casi di suicidio, di donne che si uccidono. E perché succede? Stai vivendo in una situazione in cui l’autorità de facto ti nega il diritto di essere un essere umano. Che tipo di essere sei quando non puoi ricevere un’istruzione, non puoi andare a lavorare, non puoi nemmeno uscire di casa senza un accompagnatore maschio?

Zan è la parola per dire donna. E Zan Times è il nostro modo di dire che questo è il nostro tempo, che lotteremo, che diremo la nostra verità, anche se nessuno ci ascolta, anche se nessuno fa quello di cui abbiamo bisogno. Noi ci siamo e diremo la nostra verità. Ed è quello che stiamo facendo allo Zan Times: un gruppo di giornaliste, per lo più donne, che si riuniscono e si sostengono a vicenda.

E le nostre sorelle, le nostre colleghe in Afghanistan stanno lavorando. Non sapete quanto siano potenti. Quando parlo con loro, parlo di sicurezza: tipo, sei a terra, sono preoccupata per la tua sicurezza, come possiamo proteggerti? E una di loro mi ha detto: “Guarda, il rischio c’è già, sto vivendo nel rischio. Mio fratello, mio padre sono stati arrestati per quello che ho fatto come giornalista. Se non c’è lavoro per me, non ho cibo da mangiare, non ho niente; e poi non ho uno scopo per vivere. Questo è l’aspetto più importante per me, poter continuare il mio lavoro: anche in questa oppressione, anche nell’angolo della mia casa. Almeno ho una speranza per il futuro. Almeno sento che sto lottando per i miei diritti e per quelli delle mie sorelle.

E quando ricevo questo tipo di messaggi dai miei colleghi, dico che, qualunque cosa accada, dobbiamo fare questo lavoro. Dobbiamo fare in modo che la vostra voce e quella delle donne che raccontate non venga messa a tacere. Il mondo deve sentirle. Se non abbiamo donne giornaliste sul campo, che raccontano queste storie, ci perdiamo la maggior parte del quadro di ciò che sta accadendo in Afghanistan, soprattutto per le donne.

Anche prima dei Talebani, il 95% delle violenze contro le donne avveniva all’interno delle mura domestiche. A quel tempo avevamo la Commissione indipendente afghana per i diritti umani, avevamo la polizia che aveva alcuni sistemi per registrare questi casi, c’era il Ministero degli Affari Femminili e c’erano rifugi per le donne che fuggivano dagli abusi domestici. Potevano andare da qualche parte. E adesso? Tutti questi sistemi sono stati smantellati. Come vivono ora le donne nelle loro case? Abbiamo davvero un quadro della situazione? Credo che ci manchi molto.

Sopravvissute, non vittime

Le donne afghane sono combattenti, sono sopravvissute. La maggior parte delle volte i media mainstream inquadrano le donne afghane come vittime, e viviamo in questo quadro da tanto tempo.

Alle donne viene negato il diritto all’istruzione, al lavoro, in pratica tutti i diritti umani fondamentali, ma si trovano faccia a faccia con i talebani, che sono armati fino ai denti, e queste donne sono a mani vuote e gridano: “Pane, lavoro, libertà”. Queste donne non dovrebbero essere chiamate vittime, quelle donne sono combattenti.

Le donne afghane stanno lottando per i loro diritti. Hanno bisogno del sostegno del mondo per dare eco alla loro voce, per amplificarla e per mostrare che ciò che sta accadendo in Afghanistan, se il mondo non farà nulla al riguardo, stabilisce un nuovo standard per gli altri Paesi, su ciò che possono negare alle donne. Stiamo facendo passi indietro.

La situazione delle donne in Afghanistan dovrebbe essere un monito per il mondo: questa è una minaccia per i diritti delle donne ovunque, non solo in Afghanistan. E i media hanno un ruolo da svolgere. I media possono davvero far conoscere queste storie, far capire cosa significa negare a 20 milioni di donne tutti i loro diritti umani fondamentali solo perché sono donne.

Richiesta di responsabilità

[Le donne afghane] vogliono un meccanismo di monitoraggio e di responsabilità per le violazioni dei diritti che avvengono in Afghanistan. I crimini commessi contro le donne in Afghanistan dovrebbero essere documentati. E anche i crimini contro altri gruppi emarginati come le persone LGBT e i gruppi etnici come gli Hazara, che sono stati sistematicamente attaccati per tanto tempo.

[Prima dei talebani] c’erano misure, c’erano servizi che potevano utilizzare quando venivano attaccate. Ma ora abbiamo i Talebani, che sono essi stessi responsabili della maggior parte delle violazioni dei diritti, come autorità de facto incaricata di garantire la sicurezza.

I Talebani stessi hanno commesso crimini contro gli Hazara negli anni Novanta. [Ora sono] l’autorità de facto e dovrebbero essere responsabili della protezione e della fornitura di servizi a queste comunità. Ma assistiamo a discriminazioni e violenze, se non ad attacchi diretti, sulla base dell’etnia e della religione.

Questa è la situazione: vengono attaccati. E sono già stati attaccati in passato. Ma almeno c’era un modo per cercare di fare pressione sul governo, c’era un sistema che stavamo spingendo per renderlo responsabile. Anche allora c’era una discriminazione sistematica, ma non nella misura in cui la vediamo ora. La situazione è molto grave. E come chiede la gente, dovrebbero essere prese misure per prevenire il genocidio.

In Afghanistan non si parla molto delle persone LGBT. Anche negli ultimi 20 anni, non è stato fatto molto lavoro, non è stato fatto nulla per portare le persone LGBT nello spettro più ampio dei diritti in Afghanistan. Non abbiamo mai parlato di diritti dei gay. Non abbiamo mai riconosciuto la loro presenza.

E l’idea comune, o la credenza, è che non esistano. Invece esistono e siamo in contatto con loro, parliamo regolarmente, cerchiamo di coprire la loro situazione. E dicono, guarda, a quel tempo [prima dei Talebani] i nostri diritti non erano riconosciuti, ma avevamo la nostra comunità. Potevamo sopravvivere, potevamo vivere. La sopravvivenza era possibile per noi. La nostra vita è cambiata perché la nostra sopravvivenza è diventata impossibile. Quando usciamo per procurarci il cibo, veniamo individuati dai talebani. E quando ci prendono, a causa della nostra identità di genere e del nostro orientamento sessuale, veniamo detenuti, torturati, violentati e talvolta uccisi.

Questa è una delle comunità emarginate che non ha davvero voce nei media, soprattutto in quelli afghani. Noi di Zan Times diciamo che ci occupiamo di violazioni dei diritti umani con particolare attenzione alle donne, alle persone LGBT e alle questioni ambientali. Per noi questi tre aspetti sono davvero poco considerati e poco rappresentati.

 Crisi interconnesse

Penso che [il cambiamento climatico e il conflitto in Afghanistan] siano molto collegati. Innanzitutto, non riconosciamo davvero che la crisi ambientale è una cosa enorme e che l’umanità dovrà affrontare questa crisi molto presto. In Afghanistan non si parla di come l’ambiente influenzi le nostre vite e lo sfollamento delle persone.

Negli ultimi anni abbiamo avuto molte crisi ambientali, abbiamo avuto un terremoto, abbiamo avuto inondazioni in molte province. Stiamo andando verso una direzione in cui alcune zone dell’Afghanistan non sono vivibili per le persone, che devono trasferirsi in città come Kabul, e che sono sovrappopolate.

Quando le persone le cui terre sono state distrutte devono immigrare o sono sfollate nelle città, devono sopravvivere senza i loro mezzi di sostentamento, così diventando sempre più poveri. È quello che stiamo vedendo in Afghanistan. È tutto interconnesso: le crisi ambientali che stiamo vivendo e le crisi politiche e umanitarie in cui ci troviamo.

Le donne afghane devono aprire la strada

Quello che posso dire di ciò che è successo in Afghanistan è che le voci delle donne afghane, le vere voci delle donne afghane, non sono mai state ascoltate, non hanno mai fatto parte dei negoziati e non hanno mai fatto parte di nessun accordo di pace. È successo tutto a porte chiuse. È stata presa una decisione per le donne afghane e loro non ne hanno fatto parte.

E quello che stiamo vedendo ora in Afghanistan è il risultato di un accordo di pace che non ha incluso le donne. Le donne afghane fin dall’inizio hanno detto che non ci si deve fidare dei Talebani, che abbiamo vissuto sotto i Talebani e sappiamo chi sono. Ma il resto del mondo e gli uomini che hanno fatto la pace non hanno ascoltato le donne afghane.

E quello che stiamo vedendo ora è che le donne afghane avevano ragione e sono loro, ora, a vivere le conseguenze di decisioni che non hanno mai preso.

*[trad. a cura di Cisda]

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