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La sfida per l’Afghanistan: «Riconoscere le donne come attori politici»

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La Farnesina, mentre ricerca il dialogo e fa conferenze con personaggi politici compromessi con i signori della guerra e favorevoli al riconoscimento dei talebani, ignora le organizzazioni come Rawa che sono rimaste in Afghanistan e lavorano direttamente con e per il popolo oppresso dal governo talebano

Giuliano Battiston, il Manifesto, 14 dicembre 2022

condizione donne Afghanistan oggi

 

Alla Farnesina, si parla di Afghanistan. Si è tenuta ieri pomeriggio nella sede del ministero degli Esteri il convegno «Women for Peace: the Afghan Challenge». Promosso dall’antenna italiana di Women in International Security (WIIS), ha visto alternarsi attiviste afghane e interlocutori della diplomazia e dell’associazionismo internazionale.

Tra i volti noti della società afghana era presente Fatima Gailani (figlia di Pir Sayed Ahmed Gailani, leader di uno dei partiti che hanno combattuto contro i sovietici negli anni Novanta), a lungo presidentessa della Mezzaluna rossa a Kabul. Poi negoziatrice con i Talebani negli incontri collaterali all’accordo di Doha firmato dai militanti islamisti con Washington nel febbraio 2020.

Per Gailani, il collasso della Repubblica islamica e il ritorno al potere dei Talebani nell’estate 2021 non sono stati una sconfitta militare, ma una «bancarotta politica», con responsabilità diffuse. Oggi, di fronte a una situazione «vicina alla catastrofe», servirebbe un «nuovo approccio, prudente», che non passi semplicemente per critiche e accuse ai Talebani, ma che sappia ricondurli dentro il percorso negoziale tracciato negli incontri internazionali. Come? Sfruttando la loro ambizione a veder riconosciuto l’Emirato islamico, chiedendogli di rispettare gli impegni assunti allora.

A giudicare dalla parabola sempre più autarchica dell’ultimo anno e mezzo, dalla capacità della componente più oltranzista dei Talebani di dettare la linea al governo,un’ipotesi molto complicata. Segue logiche diverse la diplomazia italiana, secondo l’ambasciatrice per l’Afghanistan Natalia Quintavalle, che dallo scorso settembre sostituisce Vittorio Sandalli. Per Quintavalle va «mantenuta la posizione del non riconoscimento» dell’Emirato, senza però rinunciareal dialogo con i Talebani.

Anche per l’inviato speciale dell’Unione europea Tomas Niklasson un dialogo serve, soprattutto «a evitare l’ulteriore isolamento del Paese, ma senza riconoscimento». Niklasson, abituato a metterci la faccia, ammette che la presenza diplomatica europea a Kabul, per quanto ridotta, «è politicamente rischiosa», ma anche utile «a controllare che l’assistenza umanitaria arrivi senza interferenze» ai bisognosi e a mettere in chiaro cosa ci si aspetta dai Talebani: «Inclusività, rispetto dei diritti».

I risultati, per ora, sono deludenti, commenta Mahbouba Seraj, nota esponente della società civile, attivista per i diritti delle donne, giornalista. Per la quale la priorità è «evitare la disintegrazione dell’Afghanistan», facile se si continua a giocare la chiave etnica.

Più difficile, fornire raccomandazioni concrete, elencare proposte, lamenta Nilofar Ayoubi, della rete Women’s Political Participation, che si chiede: «Non ho ancora capito se queste conferenze funzionino davvero, visto che le politiche repressive continuano». Due le sue richieste principali: «Trovare strumenti per costringere i Talebani a dare conto delle proprie azioni». E «riconoscere le donne afghane come attori politici. A partire da quelle che vivono nel Paese».

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