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Afghanistan: tutti i soldi dei talebani

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L’Indro, 30 novembre 2022 – Gabriella Peretto  Soldi talebani

La relativa ‘calma finanziaria’ si scontra con una situazione economica sul terreno decisamente problematica

Nell’autunno 2021, quando a Kabul erano arrivati e si erano insediati i talebani, gli osservatori internazionali si chiedevano dove i nuovi padroni dell’Afghanistan avrebbero potuto trovare risorse finanziarie che permettessero loro di mantenere il controllo del Paese. Le aspettative erano decisamente pessimiste.

Nei mesi a seguire, il pessimismo ha preso la forma dell’indigenza galoppante che le principali organizzazioni internazionali hanno puntualmente denunciato.
Ora, a circa 15 mesi da quel 15 agosto 2021, comincia a delinearsi il quadro finanziario sul quale i talebani possono contare e non mancano le sorprese.

A radiografare la situazione è Sarajuddin Isar, già capo dello staff del governatore della banca centrale dell’Afghanistan dal 2004 al 2009, studioso della economia politica della tassazione e costruzione dello Stato in Afghanistan, presso la SOAS University di Londra. I «talebani generano grandi quantità di entrate da molte fonti», afferma Isar, tanto che, secondo lo studioso, «non ha senso sbloccare i fondi», un totale di circa 7,1 miliardi di dollari, «di riserve estere dell’Afghanistan detenute negli Stati Uniti».
Mentre l’attività economica complessiva in Afghanistan «è diminuita drasticamente dall’acquisizione del potere da parte dei talebani, portando a una diffusa preoccupazione per la fame e la povertà, i talebani sono stati in grado di mobilitare risorse interne fin dall’agosto 2021». Hanno affermato che, dopo la conquista del Paese, «avevano un bilancio annuo di circa 1,7 miliardi di dollari (al tasso di cambio attuale), di cui 800 milioni provenivano da imposte sul reddito e entrate non fiscali e oltre 900 milioni di dollari da dazi doganali». Secondo quanto dichiara la Banca mondiale, sottolinea Isar, «la riscossione delle entrate domestiche è relativamente sana», sebbene «insufficiente rispetto alle esigenze di spesa». Isar dettaglia le principali entrate sulle quali possono contare i talebani.

Il fronte energetico ha fornito al regime flussi di entrate affidabili. L’Afghanistan Breshna Sherkat (DABS), una compagnia energetica statale sotto il controllo dei talebani, secondo l’agenzia di stampa ‘Bakhtar‘, ha raccolto circa 283 milioni di dollari nell’ultimo anno.
Altra fonte di entrate ingente è il rilascio di passaporti a oltre 1 milione di afghani che si stima siano fuggiti dal Paese dall’agosto 2021. ‘Voice of America‘ ha riferito ad agosto che «da quando hanno preso il potere, lo scorso anno, i talebani hanno rilasciato più di 700.000 passaporti a cittadini afghani all’interno del Paese, guadagnando circa 50 milioni di dollari». Lo stesso rapporto afferma che i talebani hanno generato più di 1 milione di dollari in tasse per i visti da oltre 4.100 cittadini stranieri che hanno visitato l’Afghanistan nell’ultimo anno.
Altre entrate arrivano dalle esportazioni, in particolare dall’export di carbone in Pakistan, che, secondo un’analisi finanziata dal Regno Unito, è aumentato da 1 milione di tonnellate nell’anno prima della presa del potere da parte dei talebani a ben 4 milioni di tonnellate durante l’anno scorso. L’analisi ha stimato che ciò ha comportato un aumento di tre volte delle entrate fiscali, che ora valgono circa 160 milioni di dollari. Oltre al carbone, le esportazione di pinoli verso la Cina, che sono ripartite il mese scorso, potrebbero potenzialmente portare nelle casse di Kabul 800 milioni di dollari all’anno.
A queste entrate ordinarie, si aggiungono quelle che provengono da attività economiche informali, nonché da droga e da operazioni minerarie illegali.
L’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine ha riferito questo mese che, nonostante i talebani abbiano annunciato il divieto della coltivazione del papavero da oppio, ad aprile, «il raccolto di quest’anno non è stato in gran parte influenzato dal divieto». Il rapporto ha rivelato che il raccolto di papaveri è aumentato di un terzo dall’agosto 2021.

Borderline tra l’essere una fonte di entrate per lo Stato talebano e un soggetto erogatore di servizi, c’è il ‘popolo‘ dei cambiavalute. «400 scambiatori che si danno da fare nella borsa centrale di Kabul» offrendo ogni giorno una vasta «gamma di servizi finanziari, non solo cambi di valuta, ma anche trasferimenti di denaro, conti di risparmio e persino prestiti a clienti affidabili», spiega, raccontando questo mondo tra l’antico e la nuova era talebani 2.0, Nafay Choudhury, ricercatore della British Academy presso l’Università di Oxford, e ricercatore presso l’Afghan Institute for Strategic Studies. Gli «scambiatori sono diventati l’ancora di salvezza dell’economia afgana», sostiene Choudhury. Le banche dell’Afghanistan sono state tagliate fuori dal sistema finanziario internazionale, così i cambiavalute «forniscono uno dei pochi collegamenti finanziari rimasti tra il Paese e il mondo esterno». Le banche, spiega il ricercatore, «sono state spinte al punto di rottura poiché sono state tagliate fuori dal sistema finanziario globale, non essendo più in grado di impegnarsi in trasferimenti internazionali». E comunque le banche, anche nel periodo di massimo splendore, svolgevano un ruolo limitato nella società e non potevano sostituire gli scambiatori. Negli ultimi due decenni, i clienti delle banche provenivano principalmente dai centri urbani. Secondo la Banca mondiale, nel 2020 solo il 15% circa della popolazione adulta possedeva conti bancari e molte di queste persone avevano bisogno di quei conti solo per ricevere lo stipendio, che poi hanno ritirato per intero.

Con l’arrivo dei talebani, le regole di questo mercato sono cambiate. Ora, la «garanzia che ogni scambiatore è tenuto a depositare presso l’Afghanistan Bank, la banca centrale del Paese, è decuplicata, da 3.000 a 30.000 dollari. I talebani sono stati anche irremovibili affinché gli scambiatori vengano convertiti da ditte individuali a imprese multistakeholder, il che aiuta a creare una traccia cartacea e rende più facile per il governo tracciare il movimento dei fondi». Il che va a beneficio della migliore gestione della riscossione delle tasse dagli scambiatori. Nafay Choudhury non rilascia ipotesi sull’ammontare delle tasse che da qui il governo riesce trarre, ma la partita è consistente.
Inoltre, e forse ancora più importante, «i talebani sanno che il sistema di trasferimento di denaro informale degli scambiatori, noto come hawala, è l’unico collegamento finanziario che collega l’Afghanistan al mondo esterno. Gli hawala aiutano le rimesse a entrare nel Paese e consentono ai commercianti locali di pagare i loro fornitori stranieri, anche quelli dei Paesi vicini che hanno smesso di fornire visti agli afgani. Le piccole e medie imprese fanno molto affidamento sugli scambiatori sia per gli hawala che per i prestiti per aiutarli a importare merci. A gennaio, il Consiglio norvegese per i rifugiati ha rilevato che più di 70 organizzazioni umanitarie non governative utilizzano hawala. Senza di loro, la sofferenza umanitaria non farebbe che intensificarsi», spiega Nafay Choudhury. In questa situazione i cambiavalute sono un potente sedativo sociale. Non basta: «come il governo precedente, anche i talebani dipendono dagli scambiatori per stabilizzare il valore della valuta afghana attraverso aste in dollari USA, dove l’Afghanistan Bank vende dollari USA agli scambiatori per assorbire gli afghani in eccesso in circolazione che potrebbero altrimenti svalutare la valuta locale».

Il capitolo aiuti umanitari è ingente e spinoso, anche in termini strettamente tecnico-finanziari. «Dallo scorso dicembre, sono stati forniti aiuti umanitari internazionali all’Afghanistan, fino a 40 milioni di dollari a settimana, secondo i datidella banca centrale afghana. La ‘BBC‘ Persian ha recentemente riferito che tra agosto e novembre di quest’anno, un totale di 560 milioni di dollari in pacchi in contanti è stato consegnato all’Afghanistan a beneficio dei talebani», afferma Sarajuddin Isar. Secondo le Nazioni Unite, i talebani hanno interferito nella gestione sul terreno degli aiuti umanitari, cercando sempre più di influenzare «la selezione dei beneficiari e incanalando l’assistenza alle persone nelle loro liste di priorità».

Inoltre, afferma Sarajuddin Isar, «l’accesso alle consegne in contanti ha consentito ai talebani di mettere all’asta dollari statunitensi a livello locale, stabilizzando così il tasso di cambio». Secondo un rapporto della Banca mondiale pubblicato a ottobre, la «volatilità del tasso di cambio è diminuita».

Questa relativa ‘calma finanziaria‘ si scontra con una situazione economica sul terreno decisamente problematica. Le sanzioni, la cessazione dell’assistenza internazionale, l’esodo di centinaia di migliaia di afghani ha causato una contrazione dell’economia di circa il 30% dall’agosto 2021. Il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite stima che dall’anno scorso l’economia abbia perso quasi 5 miliardi di dollari. A causa della diffusa disoccupazione, circa il 50% della popolazione soffre di livelli critici di insicurezza alimentare.
«Le dimensioni del governo de facto dei talebani si sono sostanzialmente ridotte e i servizi pubblici rimangono affamati di fondi; anche la maggior parte dei dipendenti pubblici non viene pagata». Isar richiama un rapporto di Chatham House pubblicato ad agosto, secondo il quale le «istituzioni del governo civile che in precedenza erano il principale datore di lavoro del Paese non sono ora in grado di pagare gli stipendi», malgrado la drastica riduzione del numero del personale in servizio e malgrado i talebani abbiano ridotto gli stipendi dei dipendenti del governo.
«Dove sono finiti invece i soldi?», si chiede Sarajuddin Isar. «È ragionevole presumere che la maggioranza venga assegnata al settore della sicurezza o ad altre priorità dei talebani, compreso il risarcimento alle famiglie degli attentatori suicidi». Lasciando scoperte ampie fasce di popolazione esposte a fame e insicurezza sanitaria.
E’ a fronte di questa situazione drammatica per la maggior parte degli afgani che, fin dall’autunno scorso, si sono moltiplicati gli appelli allo sblocco dei fondi afferenti alle riserve estere dell’Afghanistan congelate negli Stati Uniti. A febbraio, anche i cambiavalute si erano uniti ai talebani per chiedere agli Stati Uniti di sbloccare tali fondi. I fondi che Sarajuddin Isar sostiene, invece, non sia né necessario, né opportuno sbloccare: «Dati i molti rischi per la sicurezza dell’arricchimento del regime talebano, è nel migliore interesse dell’Afghanistan -e più redditizio- mantenere la maggior parte delle riserve estere del Paese all’estero fino a quando non sarà insediato un governo inclusivo e funzionante».

Su questi fondi nelle ultime settimane ci sono stati sviluppi sui quali, da tecnico e da studioso, appunta l’attenzione Isar. «La scorsa settimana, il consiglio di amministrazione di un fondo fiduciario con sede in Svizzera, noto come Afghan Fund, si è riunito per la prima volta a Ginevra per discutere il futuro dei 3,5 miliardi di dollari -parte dei 7,1 miliardi di riserve estere dell’Afghanistan detenute negli Stati Uniti- che sono stati recentemente trasferiti da Washington al fondo, ospitato presso la Banca dei Regolamenti Internazionali», la Bank for International Settlements, in Svizzera. «Il fondo è stato annunciato il 14 settembre, con lo scopoapparente di stabilizzare i tassi di cambio e i prezzi. Ha quattro fiduciari: Anwar ul Haq Ahadi, un ex governatore della banca centrale afghana; Shah Mehrabi, un accademico statunitense che rimane nel Consiglio supremo della banca centrale afghana; Scott Miller, ambasciatore degli Stati Uniti in Svizzera; e Alexandra Baumann, un funzionario del Ministero degli Esteri svizzero».

«In una dichiarazione, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha affermato che il Fondo afghano sarebbe stato protetto dai talebani ma, in particolare, che potrebbe essere utilizzato per coprire i pagamenti del debito alle istituzioni finanziarie internazionali e pagare le importazioni di elettricità e servizi chiave della banca centrale. A conferma di ciò, uno dei quattro fiduciari del fondo ha recentemente affermato che i fondi potrebbero essere utilizzati anche per altre spese non monetarie, come la stampa di passaporti e l’importazione di energia».
Per capire perchè lo sblocco di questi fondi (a lungo e da più parti invocato) preoccupa certi settori fuori dal Paese, bisogna ricordare che i talebani continuano a non essere riconosciuti come governo legittimo, nessun Paese ha deciso per il riconoscimento. E dunque, afferma Sarajuddin Isar, «il problema con lo sblocco di riserve estere per questi scopi è che comporta in una certa misura trattare con i talebani e quindi conferisce inevitabilmente legittimità al regime». La legittimità, il riconoscimento che nessun Paese è disposto rilasciare. «Lo sblocco dei fondi rischierebbe quindi di fare un altro passo verso la normalizzazione della presa di potere dei talebani». Per altro, «la recente consegna ai talebani di nuove banconote afgane stampate in Polonia ha già aperto la strada a un più ampio riconoscimento». Questo è il problema politico della vicenda. Al quale si aggiunge poi un problema di ordine tecnico. Le «riserve valutarie devono essere mantenute a livelli sufficienti a salvaguardare la stabilità macroeconomica e dei prezzi, che è uno degli obiettivi primari della banca centrale. L’utilizzo delle riserve valutarie per scopi non monetari va oltre gli obiettivi prefissati. Ancora più importante, non ha senso sbloccare i fondi per tali scopi mentre i talebani generano grandi quantità di entrate da molte fonti», quelle di cui sopra. Per tanto, data la stabilità della valuta locale, «non vi è alcuna richiesta pressante per il rilascio dei fondi, che alla fine andrebbero a beneficio dei talebani», afferma Sarajuddin Isar. «Il pericolo sta nell’indebolire ulteriormente i controlli sui fondi. Ci sono state precedenti richieste per il rilascio di denaro alla banca centrale, che è sotto il controllo dei talebani. Tuttavia, farlo comporterebbe rischi sostanziali. Delle entrate che i talebani hanno finora raccolto, c’è stata una ‘completa mancanza di trasparenza‘ su come sono state spese».

Secondo Nafay Choudhury, i meccanismi che regolano la gestione dei fondi sbloccati «rimangono opachi e saranno probabilmente impantanati in dispute logistiche e politiche che manterranno le risorse di riserva quasi fuori dalla portata del popolo afghano». La storia insegna, sostiene Choudhury, «che gli scambiatori di denaro afghani sono qui per il lungo periodo». E, mentre ora serve sostenere le banche afghane per garantire che i clienti riabbiano indietro i loro risparmi, il che «richiederebbe che Afghanistan Bank ottenga l’accesso a tutte le sue riserve», tutti i fondi bancari commerciali attualmente congelati all’estero dovrebbero essere rilasciati, secondo il ricercatore «sono gli scambiatori, piuttosto che le banche, che garantiranno che i servizi finanziari rimangano disponibili per cittadini e imprese in tutto il Paese nei giorni a venire». Intanto il governo talebano rifocilla le sue casse, riconosciuto o meno dalla comunità internazionale.

 

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