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La penetrazione di Mosca in Afghanistan

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L’Afghanistan sta progressivamente tornando nell’orbita russa, a trent’anni dal ritiro della 40° Armata sovietica.

Marco Petrelli, InsideOver, 15 novembre 2022

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L’Ucraina nella Nato e l’Afghanistan russo. Se l’Ucraina è ormai legata a doppio filo all’Unione Europea e all’Alleanza Atlantica, l’Afghanistan sta progressivamente tornando nell’orbita russa, a trent’anni dal ritiro della 40° Armata sovietica. In verità l’Urss prima e la Federazione Russa poi non hanno mai perso di vista lo Stato centro-asiatico, cruciale per la sicurezza e la stabilità di Mosca nell’Asia centrale. Così, il Cremlino ha iniziato schierando dapprima la 201° motorizzata nel 1991 lungo il confine con Tajikistan ed Uzbekistan, per poi tessere una rete sempre più fitta di rapporti commerciali e diplomatici con i governi afgani. 

Le missioni ISAF e Resolute Support, per Vladimir Putin, non erano il problema. Ovvero, lo erano in parte poiché la Russia mal digeriva la presenza Nato in un’area che ritiene parte della sua sfera d’influenza. La priorità, tuttavia, era tentare di inserirsi nel dialogo internazionale della Repubblica islamica poi dell’Emirato talebano, garantendo maggiori affidabilità e neutralità dell’Occidente a guida americana

Le pesanti eredità della guerra

Nel corso degli ultimi dodici mesi (ed a fronte della gravissima crisi economica ed alimentare in cui versa l’Afghanistan), Mosca si è mostrata solidale con i talebani, ponendosi quale nazione amica e sulla quale contare in una situazione d’emergenza. Ultimo atto di un percorso lungo di (ri) costruzione e di normalizzazione dei rapporti diplomatici.

La campagna sovietica 1979-1989 ha provocato infatti danni ingenti al Paese: ai cinquantamila caduti russi ed ai diciottomila della Repubblica Democratica d’Afghanistan, vanno aggiunti i circa cento mila combattenti mujaheddeen, due milioni di civili, sette milioni di sfollati ed un numero imprecisato di feriti vittime del conflitto e dei residuati bellici. 

La campagna condotta contro i civili con elicotteri d’attacco e mine anti-uomo (le famigerate PFM – 1 dette anche “pappagalli verdi”) ha certamente contribuito a lasciare, nella popolazione, un ricordo molto negativo della Russia. 

Lo stesso presidente Hamid Karzai, nel 2010, rinfacciava a Mosca il comportamento del suo esercito durante la guerra. Tale era il risentimento che, anche in seno ad operazioni di polizia internazionale contro il traffico d’eroina, l’acredine anti-russa non tardò a manifestarsi. 

Quando Mosca, ad esempio, ammise di aver distrutto circa 157 milioni di sterline di oppio ed eroina provenienti dall’Afghanistan, Karzai ha accusato i russi di aver condotto l’operazione violando la sovranità del paese.

Il cambio di atteggiamento verso Mosca

Un atteggiamento molto duro che, però, cambia nel giro di appena un lustro. Già nel dicembre 2016, infatti, ricevendo un diplomatico russo a Kabul Karzai ha dichiarato di apprezzare l’impegno della Russia nel trovare soluzioni tali da condurre alla pacificazione della nazione centro-asiatica. 

E quando, a gennaio 2017, il 45° Presidente Usa Donald Trump espresse la volontà di migliorare i rapporti con Mosca, il leader afgano ammise che una pace duratura fra Stati Uniti e Russia avrebbe molto giovato anche all’Afghanistan. Terreno fertile, dunque, per incrementare una penetrazione russa che si è mossa seguendo due direttrici: aiuti economici e solidarietà da un lato; leva sulle difficoltà della Nato dall’altro. 

Come accaduto loro trent’anni prima, i russi hanno compreso che l’Alleanza Atlantica non sarebbe mai riuscita a pacificare le tante, battagliere anime/etnie dell’Afghanistan. E che la cicatrizzazione delle ferite del lacerato tessuto sociale avrebbe richiesto un tempo certamente superiore a qualunque più rosea aspettativa degli Occidentali. Conoscitori del territorio ed osservatori esterni, dunque, i russi avanzavano lentamente proponendosi quali arbitro internazionale nella soluzione dell’affaire Afghanistan, al fine di conquistare maggiore credibilità fra le parti belligeranti.

Inoltre, la dura guerra condotta dalla Russia contro l’Isis in Siria ha giovato alla sua immagine sia agli occhi di Kabul sia agli occhi dei talebani. Nel 2015, come noto, lo Stato Islamico si è infiltrato anche in Afghanistan, restando tutt’ora molto forte. E combattendo, senza distinzioni, le forze MAto, gli alleati locali ed anche i talebani. Nel 2019, poi, in occasione dei primi colloqui di pace pianificati dall’amministrazione Trump, anche la Russia si è detta disponibile a garantire incontri “inclusivi” per raggiungere quanto prima la pace, in controtendenza rispetto agli Stati Uniti.

Nell’estate ’19, il portavoce del ministero degli esteri di Kabul, in un’intervista rilasciata alla stampa russa, rammentava l’apprezzamento dell’esecutivo di Kabul per la linea adottata dal Cremlino di trovare una soluzione coinvolgendo, tutti, gli attori in campo.

Il disastroso ritiro Usa dall’Afghanistan

Con precipitosa ritirata delle forze occidentali nell’estate di un anno fa e con il ritorno dei talebani, la Russia ha da un lato condannato la politica repressiva dell’Emirato, per poi riallacciare contatti mano a mano più stretti. Ad oggi, la Russia è unico dei pochi (15) Paesi ad avere una sede diplomatica nell’Emirato. L’interesse principale di Putin sarebbe evitare che il Paese finisca nuovamente in una guerra civile: “I servizi segreti occidentali”, ha riportato Tass, “principalmente quelli statunitensi e britannici, stanno fornendo sostegno ai gruppi che si oppongono ai talebani, incoraggiandoli a coprire le zone di confine di alcuni paesi dell’Asia centrale. Siamo consapevoli dei rischi e delle minacce che ciò comporta e pertanto manteniamo il necessario livello di contatti con la leadership del movimento talebano”.

Non pensieri di Mosca, non c’è però solo l’Afghanistan, ma anche l’Asia centrale cioè quei paesi sopracitati ancora legati a Mosca e che rappresentano il ventre molle della sicurezza russa. Da lì, oltre ai terroristi, transitano droga e clandestini verso la Federazione e verso l’Europa. Dunque, stabilizzare l’Afghanistan significa garantirsi protezione sul fianco sud. Ma non solo. Gli Usa hanno finora inviato 1,1 miliardi di aiuti umanitari a Kabul, contro i 20 miliardi in equipaggiamenti ed armi mandati fra il 2014 ed il gennaio 2022 all’Ucraina, senza contare i successivi stanziamenti finanziari e militari.

Numeri che giocano a favore di Putin: mentre la Russia tenta di ricostruire la pace in Afghanistan, gli Stati Uniti “invadono” di armi Kiev. Si tratterebbe di propaganda spicciola (le guerre per procura sono il “gioco” delle grandi potenze sin dai tempi antichi) non fosse che, a fronte dello stallo delle operazioni, ad un conflitto che va avanti da 8 mesi malgrado i continui invii di sistemi d’arma, ad un’Europa in bilico fra garantire sostegno agli ucraini e far fronte alla crisi energetica, coinvolgere Kabul nella ricostruzione e nella pacificazione è un colpo molto duro sia a Biden sia alla Nato.

La Russia che ha invaso l’Ucraina e ad oggi isolata a livello mondiale, si propone come soluzione al caos seguito al ritiro dall’Afghanistan. Uno schiaffo agli Stati Uniti e ad un’Ue i cui destini sono quanto mai legati alle decisioni della Casa Bianca.

Il ruolo della Cina

Nello scacchiere non può non trovare posto anche la Cina. Strategia di sicurezza, credibilità e rafforzamento dell’asse con Pechino e con le nazioni dell’Asia centrale e del Medio Oriente restano sul tavolo per Kabul. La Repubblica popolare confina infatti con l’Afghanistan, così come vi confina l’Iran altra nazione isolata a seguito delle proteste scaturite dalla morte di Mahsa Amici ed a rischio destabilizzazione.

Se gli Stati Uniti dunque hanno posto sotto l’ombrello della Nato quasi tutti gli ex membri dell’ex Patto di Varsavia, la Federazione trova nuovi spazi e nuova linfa offrendosi come garante diplomatico e come risorsa commerciale ed economica a quei paesi che si sentono danneggiati dalle politiche americane. Come l’Iran, appunto, e come l’Afghanistan grande dimenticato, in piena crisi umanitaria e scomparso dal radar della politica internazionale e dei network occidentali ormai fissi sull’Ucraina.

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