L’Afghanistan a Bruxelles: il “ricatto” dell’Ue
L’Espresso – G. Battiston – 5/10/2016
A Bruxelles il 4 e 5 ottobre si è tenuta una conferenza sull’Afghanistan: “Partnership for Prosperity and Peace”. Organizzata dall’Unione europea e dal governo afghano, ha visto la presenza dei rappresentanti di 70 governi e di una ventina di importanti organizzazioni internazionali.
La conferenza ha una doppia valenza. Politica e simbolica da una parte, finanziaria dall’altra. Perché la comunità internazionale deve dimostrare di voler ancora sostenere il governo afghano, a distanza di 15 anni dall’intervento armato con cui gli Stati Uniti hanno rovesciato il regime talebano. Per farlo, al di là delle tante dichiarazioni di principio, deve mettere sul piatto un significativo contributo in aiuti allo sviluppo.
Si tratta di 15.2 miliardi di dollari per il periodo 2017-2020. Una cifra superiore a quella fatta trapelare nei giorni scorsi, ma inferiore a quella accordata per il periodo 2012-2016 nella precedente conferenza dei donatori, tenuta a Tokyo nel luglio 2012.
“Non si tratta di un assegno in bianco”, hanno tenuto a precisare in particolare i delegati degli Stati Uniti, già alla vigilia della conferenza. In cambio la comunità internazionale si aspetta un maggior impegno del governo afghano sul fronte delle riforme, nella governance e contro la corruzione, ambiti nei quali lascia molto, molto a desiderare.
Il presidente afghano Ashraf Ghani e il quasi “primo ministro” Abdullah Abdullah, che condividono la leadership del governo di unità nazionale, hanno presentato l’Afghanistan National Peace and Development Framework, un piano quinquennale. L’obiettivo è ridurre la dipendenza di Kabul dai donatori dall’attuale 75% del budget totale al 40%-50% nel 2020.
Un obiettivo ambizioso e per molti irrealistico, perché a dispetto delle crescita nell’ultimo anno delle entrate domestiche, l’economia afghana rimane paralizzata, con una crescita reale del Pil che nel 2015 è stata dello 0,8%, nel 2016 si prevede arrivi al 2%, a confronto del 14,4% del 2012. Un’economia paralizzata, legata all’economia di guerra, che ha due difetti principali, oltre alla patologica dipendenza dall’esterno: non produce ricchezza per la popolazione (la crescita del Pil è inferiore al tasso di crescita demografico, e il reddito medio pro-capite continua a diminuire) e presenta un deficit fiscale strutturale, che quei 15,2 miliardi di dollari non sapranno colmare.
Al di là dei dati, delle cifre, dei contributi dei singoli paesi, rimangono almeno due questioni politiche, su cui è necessario riflettere.
La prima ha a che fare con lo squilibrio che la comunità internazionale continua a mantenere tra contributi per il settore militare (per le forze di sicurezza afghane e per le proprie) e aiuti allo sviluppo. Lo spiega bene il Cisda, il Coordinamento italiano sostegno alle donne afghane: “negli ultimi quindici anni – recita un comunicato rivolto ai parlamentari italiani – sono stati spesi più di mille miliardi di dollari. Mediamente, il 90% di queste risorse sono andate a sostenere l’intervento militare e solo il 10% è stato impiegato in progetti di cooperazione allo sviluppo. A nulla è valso l’appello lanciato in occasione della Conferenza di Tokyo del 2012 affinché almeno il 30% dei fondi fosse investito in interventi di cooperazione civile…”.
L’altra questione è ancora più spinosa. I migranti e richiedenti asilo afghani trattati come merce di scambio. Alla viglia della conferenza di Bruxelles, l’Unione europea ha infatti ratificato un accordo con il governo afghano che consente di rimpatriare, anche con la forza, tutti quegli afghani la cui richiesta di asilo sia stata respinta nei 28 paesi dell’Unione europea. I rimpatriati verranno rispediti in patria con voli charter, come già avviene, secondo quanto abbiamo verificato di persona, ma con una frequenza maggiore, tanto che ci si aspetta perfino la costruzione di un nuovo terminal apposito all’aeroporto di Kabul.
A Kabul molti ritengono che si tratti di un ricatto bello e buono: “aiuti allo sviluppo in cambio di rimpatri”. Così sembra pensare il ministro afghano per i Rifugiati e i rimpatriati, che abbiamo incontrato a Kabul a giugno, e così pensano molti afghani. I quali sanno che l’Afghanistan è un paese in guerra, non un paese sicuro, come ritengono le cancellerie occidentali. Lo dimostrano i dati dell’Onu, secondo i quali nei primi 6 mesi del 2016 si è registrato il più alto numero di vittime civili dal 2009.
In un simile contesto, e in un paese in cui già ci sono più di un milione di sfollati interni, il rimpatrio forzato dei migranti afghani dall’Europa rischia di far esplodere una bomba demografica, hanno accusato i rappresentanti della società civile afghana presenti a Bruxelles.
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