Skip to main content

I Balcani, una trappola per i migranti afghani

|

Espresso+ – 12 aprile 2016, di Giuliano Battiston

imageReportage
Nel 2015 sono state 120mila persone le persone che hanno lasciato l’Afghanistan a causa della guerra che continua a mietere sempre più vittime. Ora si ritrovano tra due fuochi: al confine bulgaro subiscono violenze e maltrattamenti da parte della polizia. A Idomeni, tra Macedonia e Grecia, vengono accolti con il lancio di lacrimogeni.

I Balcani, una trappola per i migranti afghani
Profughi afghani a Dimitrov
«Qui la rotta balcanica l’hanno chiusa da tempo. Prima che altrove». Zeljko Vostic ha poco più di vent’anni. Lavora per l’organizzazione non governativa Sigma Plus, partner dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Siamo a Dimitrovgrad, la prima cittadina serba che si incontra dopo aver attraversato il confine bulgaro. Case basse dai tetti spioventi, muretti a secco, fienili, cani che abbaiano, attrezzi da lavoro: una cittadina di provincia come tante altre, diventata per qualche mese una tappa importante nella “rotta balcanica”. Oggi appare spettrale, irriconoscibile, a chi l’ha visitata «prima che i leader europei decidessero di chiudere le frontiere», delegando la gestione dei flussi migratori all’accordo del 18 marzo tra l’Unione europea e la Turchia.

«Quando sono arrivato a Dimitrovgrad nell’ottobre 2015 registravamo cento, duecento nuovi arrivi al giorno, nel mese di novembre anche di più, e poi fino a quattrocento, cinquecento arrivi giornalieri nel periodo successivo», racconta Vostic in un container trasformato in ufficio. Il container è all’interno di un parchetto recintato, proprio di fronte alla caserma della polizia, su una collina che domina il paesaggio. Da un lato c’è l’entroterra serbo, dall’altro, a pochi chilometri da qui, la Bulgaria, il Paese a cui l’Unione europea ha delegato la gestione del suo confine orientale, a ridosso della Turchia.

Su questa collina è stato allestito un campo di registrazione e accoglienza dei rifugiati a partire dall’estate scorsa, «da quando ci si è accorti che qui transitava una parte dei migranti lungo la rotta che dall’Iran e dalla Turchia, passando per la Bulgaria, arriva nei paesi del nord-Europa», spiega Irena Ighic, dottoressa del Centro medico inaugurato nel dicembre 2015 dalla Ong Women and Health Alliance International (Waha) in collaborazione con l’Unhcr. «Erano perlopiù ragazzi molto giovani, in buona parte afghani, oltre a qualche iracheno. Poche, le famiglie». «Abbiamo offerto sostegno, informazioni di ogni tipo, vestiti, scarpe, coperte, giacche per bambini, impermeabili», racconta Vostic. Che ricorda quando «i letti a disposizione non bastavano, neanche nella tenda della Croce rossa». «La nostra equipe è composta da 4 medici e 4 infermieri, attivi e disponibili 24 ore al giorno. Prima si lavorava molto, ora quasi niente», nota sconsolata la dottoressa Ighic.

 

A Dimitrovgrad, infatti, le cose sono cambiate d’un tratto, quando «il governo serbo ha deciso di modificare la procedura». Così un frequentato luogo di transito, uno degli snodi centrali nella rotta balcanica, è tornato a essere un sonnolento posto di confine. Anziché offrire assistenza ai migranti, oggi Vostic passa il tempo studiando per gli esami universitari. La casetta di legno di Info Park, l’organizzazione che forniva informazioni ai migranti, è chiusa. All’interno, rimangono alcuni fogli scritti in persiano con i consigli per affrontare il resto del viaggio. Sono sigillati anche i container della Fondazione Ana e Vlade Divac, fondata da un noto sportivo serbo. Mentre i ragazzi di I’m Human Organization, tra i più attivi nel raccogliere vestiti e solidarietà internazionale, sono fuori città, sulle strade secondarie, cercando di capire quali nuovi rotte abbiano intrapreso i migranti, ora che una delle poche vie legali verso l’Europa è stata sbarrata.

«Fino al 21 febbraio, le autorità serbe rilasciavano un documento di registrazione valido 72 ore, che consentiva ai migranti di restare nel Paese e chiedere asilo politico o proseguire il viaggio», spiega Vostic. La maggior parte proseguiva. «I tassisti aspettavano giorno e notte qui fuori», racconta Alan Ranjelov, 25 anni, anche lui membro della Ong Sigma Plus. Per diversi mesi, intorno al centro di registrazione si è sviluppato un fiorente commercio locale: i migranti puntavano a raggiungere nel più breve tempo possibile le città serbe di Belgrado o Šid, al confine con la Croazia, poi la Slovenia, l’Austria, la Germania. Molti tassisti erano pronti ad approfittarne, così come gli autisti degli autobus, «che lucravano sui prezzi dei biglietti». I tassisti sono rimasti senza lavoro. I migranti non si fanno più vedere: «Si è sparsa la voce che qui non si passa più», dice Alan. C’è chi viaggia su altre rotte. Chi attraversa il confine irregolarmente, nascondendosi tra i boschi. Chi, una volta giunto a Dimitrovgrad, è stato rispedito in Bulgaria e lì è rimasto intrappolato. Si tratta soprattutto di ragazzi afghani.

La trappola bulgara
«I politici europei prima ci hanno detto che ci avrebbero accolto, poi ci hanno chiuso le porte in faccia. Sono in viaggio da due mesi. Non so più che fare». Ahmed è un ragazzo afghano. Ha 24 anni e viene dalla provincia di Ghazni, a sud di Kabul, una delle zone contese tra l’esercito e i Talebani. Lo incontriamo in un internet caffè a poche centinaia di metri dal Centro di registrazione per rifugiati di Ovcha Kupel, a Sofia, la capitale della Bulgaria. Il Centro è in periferia, in un quartiere popolare sferzato dal vento freddo che viene dalle montagne ancora innevate, con alti palazzoni, qualche scuola, residenti dagli sguardi sospettosi.

Ahmed racconta il suo viaggio, iniziato due mesi fa. «Restare in Afghanistan non era più possibile. Non c’è lavoro, non c’è futuro. E c’è la guerra. Anziché migliorare, la situazione peggiora». Da Ghazni ha raggiunto la provincia di Nimroz, al confine con l’Iran. L’attraversamento del confine, spiega, «è stata la parte più pericolosa: i poliziotti iraniani sparano». Una volta raggiunta la Turchia, quando si avvicinava al confine bulgaro, pensava che il peggio fosse alle spalle: «Sbagliavo. I poliziotti bulgari sono come quelli iraniani». Ci sono voluti tre tentativi, «e tremila dollari» pagati ai trafficanti, prima che Ahmed riuscisse a entrare in Bulgaria, Paese membro dell’Unione europea ma non dello spazio Shengen.

Il governo bulgaro è tra i più rigidi in Europa, sulle politiche migratorie. Oltre a una legislazione severa, aggiornata poche settimane fa in chiave ancora più restrittiva , ha adottato una postura molto precisa: la Bulgaria non deve essere un Paese di transito, né di accoglienza. Ne è una prova il fatto che dalla fine del 2013 non esiste alcun piano di integrazione, per i profughi ai quali viene riconosciuto il diritto di asilo. E ne sono una prova i numeri che snocciola Roland Weil, il rappresentante dell’Unhcr, nel suo ufficio di Sofia: «nel 2013 i migranti a cui è stato impedito di attraversare il confine turco-bulgaro erano 16.736; l’anno successivo 38.502; nel 2015 (ma i dati arrivano fino al 18 settembre), quasi 66.000», anche se il totale include chi, come il nostro Ahmed, ha tentato più volte l’attraversamento.

Con l’accordo tra l’Unione europea e la Turchia, il ruolo della Bulgaria – che con il Paese di Erdogan condivide un confine di 260 chilometri – è ancor più decisivo. Il governo del primo ministro Boyko Borisov, che in Europa incarna le tendenze alla chiusura dei confini, non si è fatto trovare impreparato. Nei giorni in cui è stato sbarrato il confine di Idomeni tra la Grecia e la Macedonia, le autorità hanno dispiegato mezzi militari al confine con la Grecia, con una mossa destinata a “rassicurare” l’opinione pubblica interna e a dissuadere i migranti di Idomeni dall’intraprendere la “rotta bulgara”. Ma già prima, all’inizio di febbraio , – ricordano gli attivisti del collettivo Bordermonitoring Bulgaria – la ministra dell’Interno Rumyana Bachvarova aveva proposto un ricorso maggiore all’esercito nel pattugliamento dei confini. Ed era riuscita a ottenere l’approvazione del Parlamento di altri 17 milioni di euro, per realizzare un prolungamento di 123 chilometri della recinzione già esistente lungo il confine con la Turchia. Su quel confine, per Sofia, non si passa.

«I poliziotti bulgari sono cattivi», racconta Timur (nome di fantasia), un altro ragazzo afghano incontrato a Ovcha Kupel, nella periferia di Sofia. «Picchiano, rubano, ci trattano male. Io non sono stato picchiato, ma molti miei amici sì». La testimonianza di Timur e di altri afghani che abbiamo intervistato a Sofia coincide con quelle raccolte nei mesi scorsi dalle organizzazioni non governative. Secondo un rapporto del novembre 2015 finanziato da Oxfam e realizzato dal Belgrade Center for Human Rights, i poliziotti bulgari dispiegati sul confine turco ricorrono troppo spesso alle maniere forti. Si parla di pestaggi, percosse gratuite, estorsioni, deportazioni illegali, cani sguinzagliati. Episodi gravi, ai quali si aggiunge la morte di un ragazzo afghano di 19 anni, ucciso lo scorso 15 ottobre da un colpo d’arma da fuoco sparato da un poliziotto bulgaro.

Le procedure riservate a chi viene arrestato nel tentativo di attraversare il confine sono altrettanto preoccupanti. E i numeri, alti. «Lo scorso anno, circa 30.000 migranti sono stati arrestati dalla polizia bulgara all’interno del Paese, o ai confini con la Turchia e la Serbia», spiega il rappresentante dell’Unhcr nella sede di piazza Pozitano, a Sofia. Una tendenza confermata dai dati più recenti: secondo un rapporto reso pubblico il 17 marzo 2016 dall’Oim , l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, nei primi mesi di quest’anno sarebbero già 1124 i migranti e rifugiati arrestati sul confine turco-bulgaro.

Se un migrante considerato irregolare viene arrestato dalla polizia di frontiera, continua Roland Weil, «resta 24 ore in detenzione. Poi dovrebbe essere trasferito nei centri gestiti dall’Agenzia di Stato per i rifugiati», come quello di Ovcha Kupel, nei sobborghi di Sofia. «Il fatto è che nel 2013, contestualmente all’aumento degli ingressi nel Paese, sono state create delle strutture ad hoc. Gestite dal ministero dell’Interno, dovevano avere carattere temporaneo, ma sono ancora lì, anche se per la legge non dovrebbero esistere». Il governo li chiama Specific Temporary Centers for Accomodation of Foreigners. «Per noi sono centri di detenzione a tutti gli effetti», puntualizza il rappresentante dell’Unhcr, che ne critica un altro aspetto: «non ci sono termini fissi di detenzione. Può trattarsi di pochi giorni o di molti mesi. Nessuno può dirlo. E non c’è modo di fare appello».

La durata della detenzione dipende dalla nazionalità della persona, dalla disponibilità degli interpreti, ed è parte di quella tendenza a distinguere tra “rifugiati veri” e migranti economici che attraversa tutta l’Europa. «Siriani e iracheni hanno procedure veloci. Diverso, molto diverso, il caso degli afghani».

Gli afghani: un esodo dimenticato
«So che è brutto dirlo, ma a volte penso che sarebbe meglio se fossi siriano». Timur, il ragazzo afghano di Ovcha Kupel, ammette con imbarazzo quel che pensano altri compagni di viaggio. Sa bene che oggi l’Europa accoglie molto più facilmente i siriani, rispetto ai suoi connazionali. Per ben 32 anni l’Afghanistan è stato il Paese che ha “prodotto” il maggior numero di rifugiati al mondo. Nel 2014 ha perso “il primato”, passato alla Siria devastata dalla guerra. Nei ventotto Paesi dell’Unione europea, nel 2015 i rifugiati provenienti dalla Siria hanno visto riconosciuta la richiesta di asilo nel 97% dei casi. Per gli afghani, la percentuale era del 69% . Le politiche dei singoli Paesi tendono a limitare ulteriormente l’accoglienza ai profughi afghani.

In Bulgaria, dove Timur è in attesa di sapere se la sua richiesta di asilo verrà accolta, dal settembre 2015 gli afghani non vengono più accettati, se non in casi eccezionali. La tendenza accomuna altri Paesi. Al confine di Idomeni, dove domenica pomeriggio la polizia macedone ha sparato lacrimogeni contro i migranti bloccati da settimane, gli afghani sono stati tra i primi a vedersi negato l’accesso in Macedonia , una decisione che il governo balcanico ha assunto dopo che l’Austria aveva imposto un limite sui migranti in transito e sui richiedenti asilo. Inoltre, lo scorso febbraio i responsabili della polizia di Austria, Croazia, Macedonia, Serbia e Slovenia hanno siglato una dichiarazione congiunta che nega la validità di ogni richiesta di asilo presentata da afghani che abbiano vissuto in un Paese terzo come la Turchia e l’Iran. Ad ottobre 2015, la Germania – dove nel 2015 si sono registrate 150.000 richieste di asilo da parte di cittadini afghani – è stato il primo Paese ad annunciare apertamente la possibilità di riportare in patria gli afghani la cui richiesta di asilo viene respinta: il 23 febbraio scorso, un charter proveniente dalla Germania è atterrato a Kabul, riportando a casa i primi 125 afghani. Per il ministro degli Esteri tedesco, Thomas de Maizière, «il loro futuro è in Afghanistan». Lo pensa lo stesso presidente afghano, Ashraf Ghani, che in una recente intervista alla Bbc ha detto di «non nutrire simpatia» per gli afghani che lasciano il Paese, sui quali il governo e la comunità internazionale avrebbe investito milioni di dollari.

Per convincere il governo di Ashraf Ghani a limitare le partenze e a siglare accordi sul rimpatrio volontario degli afghani arrivati nel Vecchio continente, l’Unione europea sembra puntare proprio sulla leva finanziaria. Secondo un documento preparato dall’External Action Service della Commissione Europea e ottenuto dall’organizzazione non profit Statewatch, l’Unione europea dovrebbe parlar chiaro a Ghani: se il suo governo intende godere degli stessi aiuti finanziari ricevuti finora, deve aiutare l’Ue a rimandare in patria 80.000 afghani nei prossimi mesi, impegnandosi di più sulla questione migratoria. Così ha fatto Ghani nell’intervista alla Bbc, durante la quale ha accusato i migranti afghani di «aver rotto il contratto sociale».

«Non capisco chi dice che dovrei tornarmene in Afghanistan», replica idealmente Ahmed dalla periferia di Sofia. «Dove vivo io, fuori Ghazni, si combatte. C’è la guerra. Si muore. Perché dovrei rischiare di rimanere ucciso? Non voglio fare la fine di mio cugino», ucciso in uno scontro a fuoco tra l’esercito governativo e i Talebani. Dalla parte di Ahmed, ci sono le statistiche. Secondo l’ultimo rapporto della missione dell’Onu a Kabul , nel 2015 le vittime civili (feriti e morti) in Afghanistan sono salite del 4% rispetto all’anno precedente (3.545 morti e 7.457 feriti). Tra questi, l’11% erano donne (+ 37% rispetto al 2014) e il 26% bambini (+ 26%). Anche da questo, deriva l’incremento delle partenze.

Nel novembre 2015, il Ministro afghano per i Rifugiati ha sostenuto che lo scorso anno sarebbero stati 120.000 gli afghani che hanno lasciato il Paese. Ma sui numeri effettivi non c’è certezza. «Per essere franco, non posso parlare di numeri, ma possiamo comunque parlare di un vero e proprio esodo», ha detto Richard Danziger , a capo della sezione afghana dell’Oim. Secondo le Nazioni Unite, lo scorso anno più di 210.000 afghani sarebbero arrivati in Europa , il 21% del totale. Circa 180.000 avrebbero fatto richiesta di asilo. Una cifra significativa, ma molto circoscritta, se paragonata degli afghani accolti negli ultimi tre decenni in Iran e Pakistan. Il “paese dei puri”, il Pakistan, ancora oggi ospita 1 milione e mezzo di afghani ufficialmente registrati, ai quali si aggiungono quelli “informali”, che si stima siano altrettanti. In Iran, sono 840.000 gli afghani che godono dello status di rifugiati, ma si stima che nel Paese ne risiedano almeno 2,5 milioni. «I miei genitori hanno vissuto molti anni in Iran, e sono tornati in Afghanistan non appena hanno potuto», racconta Ahmed. «Hanno avuto problemi, certo, ma non sono stati cacciati. Io non riesco neanche ad arrivare in Germania», dice sconsolato prima di rientrare nel Centro di Ovcha Kupel, nei sobborghi di Sofia.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *