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Mai più invisibili, chi sono le donne afghane che sono scappate dal loro Paese

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ELLE, 27 settembre 2021, di Federica Furino

Sono medici, attiviste, studentesse che per i loro contatti con gli occidentali rischiavano di essere uccise. Ma sono riuscite a prendere l’ultimo volo per l’Italia. Ascoltatele

«Se fossi rimasta lì, mi avrebbero uccisa: per quello che sono, per quello che dico e per quello che rappresento». Amina ha 26 anni, un inglese perfetto, una laurea e la voce ferma. Parla al telefono senza cedimenti, da un numero che mi sono impegnata a cancellare appena finita l’intervista. Non so dove si trovi. So solo che è atterrata a Roma da Kabul su un aereo militare, con le sue sorelle e altri afghani in fuga, e ora è in quarantena da qualche parte.

Racconta la sua storia perché «il mondo deve sapere che cosa sta succedendo» e lo fa usando quasi sempre il passato perché la sua vita è divisa in due: quella della ragazza libera e istruita, attivista per l’empowerment femminile e coordinatrice dell’organizzazione non profit Nove Onlus a Kabul, e quella di adesso, di esule. «Lavoravo per un progetto chiamato Women for business hub: organizzavamo corsi formazione dedicati alle donne, insegnavamo l’inglese, l’uso dei computer, come comportarsi a un colloquio. A metà agosto, avevamo un corso in partenza: ci siamo dette “andiamo avanti”. Poi il presidente si è dimesso e abbiamo capito che la situazione era senza ritorno: le lezioni non sono mai iniziate». Le attiviste per i diritti delle donne, dice, sono diventate un obiettivo e hanno cominciato a nascondersi. Chi ha potuto è scappata, attraversando la folla attorno dell’aeroporto di Kabul.

«Un mare di persone disperate. La maggior parte non aveva documenti né visto. C’era una mamma con sei figli che si trascinava dietro un’infinità di valigie pesantissime. Ho chiesto dove fossero diretti e mi ha risposto: “cerchiamo di salire su un aereo, uno qualsiasi, non importa dove andremo purché via di qui”. Sono stata lì in mezzo due giorni: sono svenuta e ho pensato che sarei morta. Finché, il terzo giorno, abbiamo messo dei nastri rossi sul braccio per farci riconoscere dai militari italiani e siamo riusciti a farci strada. C’era un fossato e, oltre, un muro. Ci hanno detto di saltare in acqua, andare verso la bandiera italiana e arrampicarci. Dopo infiniti tentativi ce l’abbiamo fatta». Dentro, ha aiutato i militari a identificare e far entrare le altre donne: le attiviste e le allieve dei suoi corsi. «Ne abbiamo salvate tantissime». Tante però stanno ancora tentando di scappare. «Se penso al mio Paese mi sento senza speranza. I talebani hanno già detto che le bambine potranno studiare fino agli undici anni, non oltre. Perché quando una donna studia e lavora, controllarla è più difficile. Ma sottomettere le ragazze cresciute libere sarà molto più difficile».

Ragazze come le attiviste di Pangea, onlus che da 18 anni attiva progetti di microcredito per accompagnare le afghane nella strada verso l’indipendenza. Anche loro, come Amina, appena arrivate in Italia. «Sabato 14 agosto i talebani fuori Kabul hanno ucciso 15 attiviste per i diritti delle donne che avevano lavorato con un’ong occidentale», dice Silvia Redigolo, portavoce di Pangea. «È stato subito chiaro che l’unico modo di salvare le nostre operatrici sarebbe stato portarle via. Convincerle non è stato facile, ma alla fine hanno capito che per continuare ad aiutare le altre devono rimanere vive. Una ragazza l’altro giorno mi ha chiesto di cambiare la foto sul profilo WhatsApp. Mi ha detto: se prendono il telefono e vedono che sei occidentale, mi ammazzano». «Le donne con cui siamo in contatto ci descrivono una situazione durissima», dice Laura Quagliuolo, attivista milanese del Cisda – Coordinamento italiano in sostegno delle donne afghane. «I talebani bruciano case, cercano dietro ogni porta documenti per scoprire chi ha collaborato con l’Occidente. Nel nord una donna è stata uccise a frustate perché non portava il burqa come si deve. E anche a Kabul, dove sono cominciati i rastrellamenti, far evacuare le persone è sempre più difficile. Chi riesce a partire è una goccia nell’oceano».

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