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Afghanistan, che fare?

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Come leggere la situazione in Afghanistan da un punto di vista decoloniale, femminista e anti-capitalista?

Paola Rivetti, Intersezionale, 30 agosto 2021

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L’attentato del 27 agosto a Kabul, rivendicato dall’ISIS e seguito alla riconquista del potere da parte dei Talebani, ha riacceso la fantasia di esperti più o meno improvvisati: “la tomba degli imperi”, nomi geografici evocativi come “Khorasan”, islamisti che si scavalcano a vicenda in termini di radicalità, sono solo alcuni dei temi e delle espressioni che abbiamo letto e sentito. Alcuni, da sinistra, addirittura hanno mal celato una certa contentezza per “la fine dell’imperialismo americano”. Come leggere la situazione in Afghanistan da un punto di vista decoloniale, femminista e anti-capitalista?

 

GOOGLARE “NEO-COLONIALISMO” E “NEO-IMPERIALISMO”

Questa crisi viene da lontano e sbaglia chi pensa che la conquista territoriale e politica dei Talebani sia avvenuta “all’improvviso”. Dopo anni di occupazione militare in nome della “guerra al terrorismo”, con gli enormi costi umani e sociali ad essa correlati, nel 2013 l’amministrazione Obama decise di aprire una trattativa con i Talebani, spingendoli a stabilire una base politica in Qatar a Doha e promettendo di lasciare il paese entro il settembre del 2021, in cambio dell’assicurazione che dall’Afghanistan non sarebbero partiti attacchi terroristici contro gli Stati Uniti.

Trump promise anche di scarcerare 5000 talebani e anticipare il ritiro al maggio 2021, e Biden ha semplicemente seguito la linea già aperta dai suoi predecessori. Nel frattempo, i Talebani (che dal 2001 sono stati aiutati a non scomparire da Pakistan, Arabia Saudita, Emirati e altre potenze regionali) si sono riorganizzati: già nel 2020, i Talebani avevano completato conquiste nelle parti rurali del paese, e giungevano notizie, che pur passavano in sordina, di proteste anti-talebane da parte di donne che, armate, sfilavano per le città e i paesi.

Questo contesto di collaborazione e inviti e promesse difficilmente può essere visto come un contesto che porta alla “fine dell’imperialismo”. In Afghanistan, le amministrazioni statunitensi non hanno costruito delle istituzioni di governo e di amministrazione solide e indipendenti. Hanno invece sostenuto governi deboli, proni a servire gli interessi di altre élite e di altri paesi, quali il Pakistan o l’Iran o, certamente, gli Stati Uniti. Hanno investito poche risorse (persino truppe, in senso numerico) nella difesa, anche militare, di presidi istituzionali in teoria democratici. Hanno invece costruito e difeso le basi militari e logistiche che servivano e servono a estendere l’influenza statunitense militare, e quindi anche politica, sull’Asia Centrale. Tutte cose che resteranno immutate, anche con i Talebani. I rapporti di forza, infatti, difficilmente cambieranno. I Talebani non hanno vinto e gli Stati Uniti non hanno perso: quello odierno è uno scenario che era stato previsto e che ha soddisfatto le esigenze di entrambi le parti. Altra questione sarà gestire le sorti economiche del paese, ora in mano ai Talebani: come si farà per mantenere il paese nel mercato globale, per mettere a frutto (vendere?) le armi statunitensi ora in mano talebana, per far sì che le grandi multinazionali della sicurezza, della logistica e dell’energia non lascino l’Afghanistan proprio ora? Qui, i concetti di “neo-colonialismo” e “neo-imperialismo” possono fornire una risposta. Il controllo politico ed economico da parte di un paese egemone su un altro, e l’estrazione di risorse da un paese a beneficio di un altro paese egemone, non sono condizioni che terminano con il ritiro delle truppe militari.

Ne consegue che sarebbe bene anche abbandonare l’idea che l’Afghanistan sia “la tomba degli imperi”. Alexander Hainy-Khaleeli lo spiega bene: non solo essa oscura secoli di storia in cui l’Afghanistan è stato “la culla degli imperi” – territorio in pace, epicentro culturale, commerciale, fiorente culla di imperi e regni tra l’Asia centrale e sud-orientale – ma anche perpetua stereotipi secondo cui gli Afghani sarebbero impermeabili a influenze politico-culturali altre, chiusi in un mondo immutabile di tradizioni avverse all’idea di diritto positivo e, quindi, barbariche. Colpa loro, allora, se la democrazia non è riuscita ad attecchire, proprio come ha detto Biden il 16 agosto scorso.

 

BANNARE L’ORIENTALISMO DA POLTRONA

Un’altra linea argomentativa che si collega alla precedente è quella secondo la quale i Talebani avrebbero l’appoggio della maggioranza della popolazione, proprio in virtù della diffusa, supposta e non meglio definita, mentalità tradizionalista incompatibile con il concetto stesso di “diritto”. Chi sostiene queste posizioni sembra non voler vedere le proteste di questi giorni contro i Talebani e i disperati tentativi della popolazione di lasciare il paese. A questo proposito, Balkhi, il capo della commissione cultura dei Talebani, ha dichiarato alla BBC che è “un peccato” che così tanta gente stia cercando di andarsene, accalcandosi all’aeroporto, e che esiste una relazione di coordinamento con gli americani sulla gestione dei flussi umani. Il riconoscere che tanta gente sta scappando e che esiste un rapporto di collaborazione con gli Stati Uniti dovrebbe far riflettere sulla presunta natura anti-coloniale dei Talebani e sulla popolarità di cui essi, presumibilmente grazie al loro anti-colonialismo, godrebbero presso la popolazione. Inoltre, nonostante stiano promuovendo oggi un’immagine diversa, i Talebani hanno già governato il paese negli anni ‘90, portando violenza e povertà diffusa, cosa che la popolazione ha difficilmente dimenticato.

Infine, pensare che la popolazione afghana non sia interessata ad avere diritti – come quello di studiare, votare, manifestare o protestare, organizzarsi in sindacati o gruppi femministi – è simile all’atteggiamento delle femministe bianche che proprio durante la grande campagna di preparazione all’invasione del 2001, teorizzavano l’incapacità delle donne afghane di comprendere l’idea dell’avere dei diritti: salvarle dai Talebani significava anche salvarle da sé stesse e dar loro “l’opportunità di imparare”. L’assunto di partenza è il medesimo, ovvero l’intenzionale rifiuto di vedere l’altrə come ugualə, ponendosi e pensandosi in una posizione di superiorità – intellettuale, politica, di analisi, di abilità sociali.

Il richiamo alla cultura e alla religione come uniche forze di definizione di un’identità che resta immutabile, la concezione uniformizzante di “popolo”, il calare su questo “popolo” preferenze politiche non verificabili dal salotto di casa propria, immerso nella canicola agostana, sono gli atteggiamenti paternalisti che gli Orientalisti da poltrona nostrani dovrebbero abbandonare, se davvero mossi da senso di giustizia.

 

ALCUNE PROPOSTE CONCRETE

 Innanzitutto, non dobbiamo legittimare il potere dei Talebani giustificandolo con letture essenzialiste e culturaliste, e dobbiamo rigettare la falsa idea che tutto ciò che è retoricamente contro l’imperialismo, lo sia davvero. I Talebani non sono anti-americani né anti-imperialisti. Quando presero il controllo dell’Afghanistan nel 1996 ricevettero il riconoscimento di Pakistan, Turkmenistan, Arabia Saudita ed Emirati, tutti alleati statunitensi, e tutt’oggi ricevono aiuti militari e di intelligence dagli stessi paesi e molti altri. I leader talebani di oggi viaggiano, incontrano altri leader mondiali, si impegnano in negoziazioni con il ministro degli estri cinese, per esempio, o le istituzioni qatarine. Hanno a disposizione le armi statunitensi: non è chiaro che cosa ci vogliano fare né quanto le sappiano usare. Quello che sappiamo, però, è che saranno molti i governi nazionali e i contractors privati che faranno a gara per offrire i loro servizi – soprattutto in seguito all’attacco del 27, rivendicato dall’ISIS, che aprirà interessanti possibilità di affari all’industria militare della sicurezza e dell’antiterrorismo.

Dobbiamo rifiutare l’idea che esistano un imperialismo e un capitalismo accettabili, se arrivano da paesi che, secondo una logica da revival della guerra fredda, siamo abituati a pensare come anti-imperialisti: la Russia, la Cina, l’Iran. Se andiamo oltre la retorica, come possiamo definire rivoluzionari o socialisti o anti-imperialisti paesi che colonizzano di fatto parti della Siria, che sostengono le politiche israeliane nei Territori Occupati Palestinesi, che reprimono operai e lavoratrici in sciopero da anni, che cercano di attrarre investimenti stranieri tenendo il prezzo del lavoro criminalmente basso? In Iran, la sostituzione dei capitali europei con quelli cinesi a causa delle sanzioni, si è tradotta in un modello industriale che prevede la deportazione di carcerati cinesi negli impianti costruiti in Iran per impiegare manodopera gratuita. Spesso si ignora che Stati Uniti e Russia collaborano, si spartiscono zone di influenza cercando di non darsi fastidio, perché i loro interessi combaciano più di quanto divergano.

Tutto questo non può prescindere dalla lotta contro i confini e a favore di procedure semplificate per richiedere visti e completare ricongiungimenti famigliari. Ci sono strategie che in moltə possiamo mettere in atto, nel nostro piccolo: dall’organizzarsi in gruppi per sponsorizzare famiglie/persone che sono in viaggio, o che stanno cercando di lasciare il paese ma che hanno bisogno di una sponsorship (affiliazione e/o sostegno economico). Le persone che lavorano in istituzioni quali, ad esempio, le università, possono attivarsi chiedendo apertura di una linea di sponsorship dedicate a colleghə afghanə, o fornendo sostegno amministrativo e logistico. Lo scopo delle istituzioni che si stanno affrettando a ribadire che è necessario riconoscere il governo dei Talebani è infatti quello di fermare il flusso di persone migranti che, ci si attende, continuerà anche dopo la chiusura dei corridoi umanitari e la fine delle evacuazioni di questi giorni.

Dobbiamo costruire internazionalismo dal basso, diffidando delle élite che governano il mondo, Talebani inclusi, indipendentemente dal linguaggio che usano e l’immagine che proiettano: non è grazie a loro che realizzeremo l’emancipazione dai bisogni e la liberazione dei nostri desideri.

(Paola Rivetti è professoressa associata presso la Dublin City University e si occupa di Medio Oriente e politica. Ha recentemente pubblicato Political Participation in Iran from Khatami to the Green Movement (2020) e ha co-curato i volumi Islamists and the Politics of the Arab Uprisings: Governance, Pluralisation and Contention (2018) e Continuity and change before and after the Arab uprisings: Morocco, Tunisia and Egypt (2015). È presidentessa dell’Irish Network for Middle East and North African Studies e membra del consiglio della British Society for Middle Eastern Studies. È Associate Editor della rivista Iranian Studies e fa parte del comitato editoriale della rivista Partecipazione e conflitto).

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