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La missione italiana in Afghanistan. Considerazioni a margine di un fallimento

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Volerelaluna.itMonica Quirico 16 agosto 2021

Afghanistan 3

In questa estate semi-apocalittica – tra alluvioni, incendi e rigurgiti neo-oscurantisti – la morte di Gino Strada, concomitante alla definitiva rivincita talebana, chiude simbolicamente il cerchio di quel capolavoro al contrario che sono state le missioni internazionali in Afghanistan dal 2001 a oggi. Chi adesso celebra il fondatore di Emergency come una sorta di santo laico (!) lo liquidava con fastidio quando, vent’anni fa, disarticolando la retorica “umanitaria” dell’intervento occidentale, profetizzava che esso avrebbe solo esasperato la situazione.

Le 160.000 vittime afghane (di cui tra i 35.000 e i 43.000 civili) e i 54 morti tra i soldati italiani (32 dei quali in seguito ad atti ostili), le une e gli altri rimossi dal dibattito pubblico, sollecitano qualche riflessione sul modo in cui nella fragile democrazia italiana è stata rappresentata la più rilevante operazione militare del dopoguerra, con un’attenzione particolare per il rapporto tra lutto e politica, in una prospettiva di genere.

Il 9 ottobre 2001 il Parlamento italiano approvava quattro risoluzioni (bipartisan) che impegnavano l’Italia a onorare i suoi obblighi di membro della Nato, dando il suo sostegno all’operazione Enduring Freedom, scattata due giorni prima come ritorsione agli attentati dell’11 settembre. Un mese dopo, le Camere votavano a larghissima maggioranza a favore dell’intervento militare, che prendeva il via il 18 novembre. Per la prima volta nel dopoguerra, alle truppe italiane si applicava in modo esplicito il codice militare di guerra (introdotto nel 1941). Negli anni, in un gioco di rimpalli tra Onu e Nato, cambiavano i nomi delle missioni ma restava, anzi aumentava, la presenza occidentale.

Dell’attività delle truppe italiane (che nel 2010 superavano le 4.000 unità) e in particolare della Task Force 45, creata dal governo Prodi II, si sapeva (e tuttora si sa) poco o nulla: di fatto era una missione di combattimento, che sfruttava le ambiguità delle autorizzazioni parlamentari. Beninteso, i Governi italiani che si succedevano dal 2001 in poi, fossero di centrodestra o di centrosinistra, si guardavano bene dal menzionare la parola “guerra”, preferendole espressioni come: intervento umanitario; azione di contrasto al terrorismo; operazione di polizia internazionale. Il topos “Italiani, brava gente”, esteso anche all’esercito, è sempre spendibile e trovava infatti la sua consacrazione in una mostra patrocinata nel 2012 dalla presidenza della Repubblica (all’epoca retta da Giorgio Napolitano), che, dopo l’inaugurazione al Vittoriano, veniva riproposta in diverse città italiane. Intitolata “I volti dei militari italiani. I valori della patria in un’immagine”, l’allestimento mescolava sapientemente stralci di mail inviate a parenti e amici dai militari italiani in missione all’estero (non solo in Afghanistan) a scatti che li ritraevano in atteggiamenti cordiali nei confronti della popolazione locale. L’esposizione era strutturata come un vero e proprio catalogo delle virtù delle forze armate, nell’ordine: Solidarietà, Dedizione, Onore, Dignità, Lealtà, Altruismo, Coraggio, Fedeltà, Disciplina, Umanità, in una mescolanza di valori guerreschi tradizionali e attualizzazioni consone alla retorica umanitaria che pervadeva la narrazione delle missioni. In tal senso, il clou era rappresentato dalle immagini di donne soldato (immancabilmente sorridenti) che assistevano anziani, donne e bambini, in una sorta di incontro transnazionale fra soggetti minoritari e tuttavia tutelati, con la soldata che presumibilmente doveva fungere da modello di emancipazione per le ragazzine locali.

Mentre la protezione delle donne afghane era invocata come una delle motivazioni decisive alla base dell’intervento militare, ad altre donne – le madri e le mogli dei militari italiani – era richiesto di fare la loro parte: quella di sempre, accettare la morte dei loro cari come compimento di un destino, il sacrificio per la patria. Già, perché, in una narrazione che legittimava l’intervento militare in nome della pace e dei diritti umani, quando tornavano in Italia le salme dei “caduti” (termine che suggerisce una fatalità del tutto fuori luogo) evidentemente i valori universalistici non bastavano a dare un senso al dolore – o almeno così pensavano le istituzioni. Si rispolverava allora il repertorio classico, quello della mater dolorosa, punto di intersezione tra culto mariano (Maria spettatrice affranta ma composta della Passione) e pratiche penitenziali pagane (l’eruzione del dolore); un’icona che ha incontrato larga fortuna nel discorso nazionale forgiato a partire dal Risorgimento e la cui chiave di volta è l’attribuzione del dovere di onorare la patria tanto agli uomini in armi quanto alle donne che, a casa, sublimano la perdita nella celebrazione del valore trascendente del gesto eroico.

Le commemorazioni dei “caduti” italiani in Afghanistan ricalcavano questa divisione di genere dei ruoli, pur con qualche incrinatura: il dolore non è mai interamente addomesticabile. La continuità enfatizzata dai media e dalle liturgie funebri tra il lutto della singola famiglia biologica, quello della più ampia famiglia militare e infine quello della comunità nazionale mirava a ricordare a tutti che, di fronte all’enormità del sacrificio che il militare deceduto così come la sua famiglia avevano compiuto per il bene della nazione, le distinzioni sociali e politiche dovevano passare in secondo piano. Anche nel caso dell’intervento in Afghanistan, l’appello all’unità fondato su un sentimento universale come il lutto ha costituito infatti un potentissimo strumento di neutralizzazione del dissenso, delegittimando il confronto razionale, oltre che etico, sull’opportunità di portare avanti la missione. Indimenticabili le parole di Matteo Renzi, all’epoca presidente del consiglio, in visita a Herat nel 2015: «Non siamo qui per un motivo logistico ma per un ideale»; poi rincarava: «Possa il loro sangue [dei caduti] servire ed aiutare anche qui in Afghanistan nuove generazioni a conoscere bellezza, libertà e pace».

Non è stato così, come ben vediamo oggi, scandalizzandoci dai nostri comodi divani per la sorte che attende le donne afghane; vano chiedersi se qualcuno tra i molti politici che hanno sostenuto le varie missioni avrebbe il coraggio di incontrare i parenti dei militari morti e ammettere che il loro “sacrificio” è stato totalmente destituito di senso. È tuttavia proprio la logica dell’eroismo (e del suo brodo di coltura: il nazionalismo) a dover essere cacciata nel pattume della storia: è vero, parliamo di eserciti professionali, ma ciò non attenua lo sgomento per il paradosso che Judith Butler ha così riassunto: «Da un lato, dunque, questi soldati sono ritenuti “indispensabili” alla difesa della patria. Dall’altro, essi fanno parte della popolazione dispensabile. E anche se la loro morte è a volte oggetto di glorificazione, essi sono e restano dispensabili: persone sacrificate in nome del popolo. […] Così, in nome della difesa del popolo, la nazione spinge qualcuno sull’orlo del precipizio. E quel corpo strumentalizzato per motivi di “difesa” è reso dispensabile proprio dall’obiettivo di garantire quella stessa “difesa”».

Se la vulnerabilità è un dato ontologico, perché comune a tutti i viventi, essa è nondimeno sperimentata in modo differenziato a seconda della classe sociale, della nazionalità, del genere e di altre variabili socialmente costruite. L’attuale distribuzione del lutto pubblico nella popolazione mondiale, con la gerarchia tra le vite degne di essere piante (quelle dei cittadini USA, ad esempio) e le vite che non meritano le lacrime dell’opinione pubblica (quelle degli afghani o dei palestinesi), non può che alimentare la spirale della violenza e del militarismo. Come scriveva Gino Strada nel 2003, «questa è la vera guerra mai dichiarata: la guerra ai poveri del mondo, agli emarginati, agli sfruttati, ai deboli, ai diversi, la guerra a tutti gli “spendibili”, vittime designate dei nostri consumi».

 

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