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Trump rischia di rimangiare le promesse di politica estera: ecco perché non potrà ignorare l’Afghanistan

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International Business Times – di Andrea Spinelli Barrile – 18/11/2016

Cosa farà il Presidente Donald Trump dell’Afghanistan? Ecco le due possibili opzioni.

Noi di IBTimes Italia lo abbiamo scritto chiaramente lo scorso 7 novembre, poche ore prima che chiudessero le urne negli Stati Uniti: la prima grande crisi che nuovo presidente americano, che sarà Donald Trump, dovrà affrontare sarà l’Afghanistan, dove la recrudescenza della violenza dei Taliban – e non solo – è sempre più preoccupante.

Oggi siamo convinti più che mai che quella triste, seppur semplice, profezia sia sempre più concreta: lo scorso 10 novembre un kamikaze si è fatto esplodere con la sua autobomba lanciata a tutta velocità contro il muro del compound del consolato tedesco a Mazar-i-Sharif, nel nord dell’Afghanistan a un centinaio di chilometri dal confine con l’Uzbekistan. Si è trattato di “una vendetta” rivendicata dai Taliban per i raid americani e tedeschi nella provincia di Kunduz all’inizio del mese di novembre: 32 morti, tutti civili, il pretesto perfetto per una nuova strage spettacolare dei Taliban. Dopo l’esplosione, che ha provocato 4 vittime e 115 feriti, un portavoce del Ministero degli Esteri tedesco ha annunciato una riunione di emergenza a Berlino mentre a Mazar-i-Sharif le forze NATO tedesche e le forze di sicurezza afghane ingaggiavano battaglia a colpi di fucile automatico con alcuni Taliban che volevano entrare nel compound.

 Poche ore dopo, il 12 novembre, un altro attentato sventrava l’ingresso della base americana di Bagram, la più importante in Afghanistan nella provincia di Parwan, 60 chilometri a nord di Kabul: un uomo imbottito di esplosivo, presumibilmente un lavoratore afghano nella base, si è fatto esplodere non appena superati i controlli di sicurezza, dove una lunga fila di lavoratori e lavoratrici attendevano pazientemente l’ingresso. Anche in questo caso i morti, tutti militari americani (due dell’esercito e due professionisti), sono stati 4 e i feriti 17. A Bagram vive la maggior parte dei 10.000 soldati statunitensi che ancora si trovano in Afghanistan: nei piani del Presidente uscente Barack Obama i soldati americani in territorio afghano, tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017, sarebbero dovuti essere ridotti di poco meno della metà, a 5.500 unità, ma l’ingresso dell’elefante Trump laddove prima c’era il chiuchino Obama e l’escalation di violenza che da mesi preoccupa tutti gli analisti militari, e i piani alti dell’esercito americano, potrebbe cambiare le carte in tavola a dispetto della svolta anti-interventista sbandierata dal Presidente eletto.

La settimana precedente gli attacchi due militari americani erano stati uccisi in combattimento proprio nella zona di Kunduz. Insomma l’Afghanistan è sempre più, per gli Stati Uniti, il nuovo Vietnam: “Non ci faremo intimidire […] noi lottiamo per la stabilità, la pace e la tolleranza in Afghanistan” ha dichiarato il segretario di Stato USA John Kerry, il quale oramai parla a titolo personale. “L’Afghanistan non è stato una priorità durante la campagna elettorale, questo è ovvio. […] Almeno però, con la signora Clinton sapevamo più o meno quello che sarebbe potuto succedere” ha dichiarato un funzionario governativo afghano alla Reuters presentando i suoi dubbi, che poi son quelli di tutto il mondo, su cosa vorrà fare Trump della guerra più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti.

In un comunicato stampa emesso il 13 novembre l’ambasciata americana a Kabul, capitale dell’Afghanistan, ha annunciato la propria chiusura per ragioni di sicurezza: si tratterebbe di “una misura precauzionale temporanea” ma da giorni si rincorrono voci su possibili attentati ai corpi diplomatici nel Paese. Tra i tedeschi – ad esempio – è allarme generale ma la preoccupazione attiene a tutti i diversi contingenti e colletti bianchi della NATO presenti nel Paese; tra questi ci sono, ovviamente, anche gli italiani: i 945 soldati rappresentano il secondo contingente armato più consistente, schierato nell’ovest dell’Afghanistan con base a Herat.

Fino ad oggi la missione militare in Afghanistan è costata a Washington 115 miliardi di dollari. A 15 anni dall’ingresso del primo scarpone made in USA però la situazione generale è la peggiore di sempre, una spirale verso il basso che dura da almeno un paio d’anni: oggi l’Afghanistan è considerato il secondo paese più pericoloso al mondo dopo lo Yemen, la Siria è “soltanto” terza, e l’insurrezione dei Taliban non è l’unico elemento destabilizzante. Se la lettura della nuova amministrazione americana si fermasse qui, probabilmente il nuovo comandante in capo Donald Trump deciderà per il ritiro delle truppe, cosa che potrebbe avere conseguenze oscure e preoccupanti.

Tuttavia il nuovo potere dei Taliban – economico, territoriale, militare e culturale – ha concesso nuovi spazi per una resurrezione di Al-Qaeda ed oggi la ritrovata unione d’intenti tra i due gruppi potrebbe far risorgere la guerra santa in Afghanistan in tutto il suo orrore. A questi due gruppi va aggiunto Daesh: in fuga, quasi disperata, dall’Iraq e dalla Siria, molti miliziani foreign fighters stanno disertando fuggendo in Afghanistan, trovando nuovi amici tra Taliban e quaedisti. Ma anche molti dirigenti del gruppo Stato Islamico starebbero ripiegando in Asia minore, dove il progetto del Califfato potrebbe riprendere piede. Se la lettura della situazione della nuova amministrazione Trump fosse questa allora il Presidente potrebbe anche scegliere di restare per rispettare la parola data ai suoi elettori: “Distruggere l’Isis”.

Il futuro per l’Afghanistan, insomma, non è per niente luminoso: il procuratore capo della Corte Penale Internazionale (CPI), Fatou Bensouda, ha annunciato lunedì 14 novembre di avere “base ragionevoli per credere” che i soldati americani abbiano commesso crimini di guerra in Afghanistan, tra cui detenzioni arbitrarie e tortura. La CPI starebbe valutando l’apertura di un’indagine internazionale, data come “probabile” dal New York Times, ma è difficile credere che tale iniziativa possa avere grandi sviluppi: gli Stati Uniti non sono tra i firmatari dello Statuto di Roma, che ha istituito la CPI – in un primo tempo lo furono ma poi ritirarono la firma – e questo non obbliga in alcun modo investigatori, magistratura, Corte Marziale ed esercito americano a collaborare con la giustizia internazionale.

Tuttavia l’Afghanistan è invece tra i paesi firmatari e i reati commessi sul suo territorio, a prescindere dalla nazionalità degli autori dei presunti reati, potrebbero essere considerati perseguibili. Nel mirino della CPI ci sono le prigioni segrete della CIA in Afghanistan, i metodi atroci per estorcere informazioni, quegli stessi metodi promossi come un baluardo valoriale da Donald Trump, e le torture a carico dei prigionieri tra il 2003 e il 2004.

Tutti questi elementi, uniti da un filo rosso sempre più intriso di sangue, rappresentano il bubbone della prossima crisi internazionale, purulento e massiccio che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Riaprendo uno dei fronti più problematici della storia bellica americana.

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