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Afghanistan, il peggio deve ancora venire

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Avanzata dei Talebani

soldati afgani

ISPI Online Publications, 6 luglio 2021

Talebani riconquistano oltre un quarto dei distretti dell’Afghanistan, mentre il vicino Tagikistan accoglie l’esercito regolare in fuga. Con il progredire del ritiro delle truppe straniere il paese sembra sempre più instabile.

L’Afghanistan si avvia verso il caos. Il ritiro progressivo dei contingenti della NATO ha innescato la simultanea, ed altrettanto progressiva, riconquista dei territori da parte dei Talebani, che annunciano di avere sotto il proprio controllo oltre un quarto del montagnoso ed etnicamente variegato Afghanistan. Una riconquista che, stando ad alcuni media, avviene spesso senza scontri e con l’esercito regolare afgano che consegna spontaneamente le armi. Molti soldati afgani al confronto militare avrebbero preferito la fuga oltreconfine, in Tagikistan, che li avrebbe accolti per spirito di “buon vicinato”. La base militare Bagram, il principale quartier generale dei militari statunitensi e da cui per vent’anni venivano coordinate le principali operazioni, sarebbe stata abbandonata dal giorno alla notte senza che il nuovo comandante, il generale afgano Mir Asadullah Kohistani, ne venisse informato. Un episodio altamente simbolico nel processo di ritiro delle truppe USA e che lascia intendere che questo verrà ultimato anche prima del ventesimo anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle, ovvero il termine ultimo fissato dal presidente USA Joe Biden. L’impressione è che da un lato i Talebani si sentano galvanizzati dall’imminente ritiro della coalizione internazionale, mentre dall’altro che il venir meno del supporto logistico e militare fornito dalle truppe straniere abbia disincentivato l’esercito nazionale afgano, ormai rassegnato. I Talebani hanno anche riferito alla BBC che dopo l’11 settembre considereranno occupanti tutte le forze militari straniere rimaste sul territorio afgano. Più che una minaccia, una dichiarazione di intenti che vuole onorare gli Accordi di Doha con cui gli USA si impegnarono al ritiro, e che ora rischia di generare un nuovo vortice di violenze a livello locale, mentre lo spettro di un ritorno al regime teocratico torna a far paura.

 

Missione fallita?

Vent’anni fa, meno di un mese dopo l’attacco dell’11 Settembre, gli Stati Uniti e la NATO occuparono militarmente l’Afghanistan bersagliando le postazioni talebane e di Al Qaeda. In un mese, Kabul venne riconquistata dall’Alleanza del Nord – organizzazione politico-militare supportata dalle truppe NATO – e, ufficialmente, iniziò la ricostruzione dello stato afgano, delle sue istituzioni, con l’adozione di una nuova costituzione e le prime elezioni libere, nonché del suo esercito, sotto l’egida e il supporto della coalizione occidentale.
Vent’anni dopo, lo stato centrale afgano è più debole che mai, milioni di cittadini hanno preferito rifugiarsi all’estero, e l’esercito centrale consegna le armi ai Talebani, forti di un negoziato bilaterale a cui i rappresentanti di Kabul non hanno nemmeno partecipato e hanno ottenuto ciò per cui hanno combattuto in questi due decenni: la partenza dei contingenti stranieri. Incalzato in conferenza stampa da un giornalista lo scorso 4 luglio, Biden ha glissato l’argomento del ritiro dall’Afghanistan dicendo “è un giorno di festa, parliamo di cose felici, amico”. La delusione di molti afgani è cocente, ora che appare sempre più evidente come gli Stati Uniti abbiano fallito nel garantire una prospettiva di pace, stabilità e sicurezza al multietnico paese dell’Asia centrale, che rischia una nuova guerra civile e il ripristino dell’emirato islamico voluto dagli studenti coranici.

Verso la teocrazia?

Un segnale della forza della controffensiva talebana sono le notizie di diserzioni e fughe dalla regione settentrionale a maggioranza tagika del Badakhshan, dove la resistenza ha tenuto testa ai Talebani per vent’anni e dove oggi i rappresentanti locali abbandonano le istituzioni riparando nella capitale Kabul. Quella delle province del Badakhshan è una conquista militare di grande significato strategico, essendo al confine con Pakistan, Cina e Tagikistan, e che se venisse completata potrebbe assicurare ai Talebani il controllo di confini di grande importanza per la geopolitica dell’Asia centrale.
In generale, con la conquista di oltre cento dei quattrocento distretti che compongono il paese, i Talebani sono sempre più focalizzati su una definitiva vittoria militare che culmini con lo spodestamento del presidente Ashraf Ghani e un ritorno allo stato precedente all’invasione statunitense. Alla sconfitta sul campo, potrebbe quindi simultaneamente farsi largo lo smantellamento delle (piccole) conquiste in senso democratico, sancite anche dalle quattro elezioni presidenziali tenute dal 2001 ad oggi. E, qualora l’Afganistan torni ad essere un emirato islamico, a livello sociale è il futuro della condizione delle donne afgane ad essere il più incerto, e in particolare quello delle bambine, la cui alfabetizzazione dal 2001 a oggi è passata dal 20% al 60%. Sebbene i Talebani abbiano rassicurato che rispetteranno i diritti delle donne in armonia con la legge islamica, il timore che ci possa essere un lungo passo indietro resta.

La Cina sta a guardare?

Se militarmente l’Afghanistan si riconferma il pantano internazionale delle grandi potenze, da cui non riuscì a ricavarne molto nemmeno l’Unione Sovietica nell’invasione durata dieci anni terminata nel 1989, una prospettiva di stabilità politica per il paese potrebbe essere data dalla diplomazia regionale. La Cina, infatti, che con l’Afghanistan confina per pochi chilometri all’estremità dell’appendice del Badakhshan, osserva attentamente sia la ritirata statunitense che il progressivo avanzamento talebano. Il suo interesse principale è la salvaguardia dei progetti infrastrutturali in Pakistan, un paese chiave sia per la Belt and Road Initiative (BRI) cinese che per le élite talebane. Secondo alcune analisi, la strategia di Pechino potrebbe quindi essere duplice. Qualora i Talebani riprendessero il controllo definitivo del paese, la Cina potrebbe legittimare la loro leadership politica con l’obiettivo sia di preservare la sicurezza dei progetti BRI nel vicino Pakistan, sia di monitorare e contrastare i gruppi di miliziani riconducibili all’ETIM (East Turkestan Islamic Movement), tra le cui fila potrebbero trovarsi persone accusate da Pechino di terrorismo nello Xinjiang. Come riporta il Financial Times, la Cina ha già tenuto incontri con i Talebani e, sebbene i temi discussi siano rimasti segreti, i cinesi avrebbero saldato questa strategia regionale offrendo supporto finanziario ai leader talebani per la ricostruzione delle infrastrutture afgane sfruttando l’intermediazione del Pakistan, un alleato vitale di Pechino. Una strategia che ad oggi non trova riscontri ufficiali ma che in un colpo solo avrebbe un grande impatto per le relazioni internazionali, riconfermando la diplomazia cinese a livello regionale: assicurerebbe sia che altri gruppi estremisti non prendano il potere in Afghanistan – come promesso agli USA a Doha –, sia la ricostruzione del paese dopo vent’anni di guerra.

Il commento

Di Giuliano Battiston, giornalista freelance

In poche settimane i Talebani si sono assicurati il controllo di buona parte del nord e nord-ovest del paese. Una mossa preventiva per evitare la mobilitazione/resistenza nelle aree tradizionalmente più ostili. A sorprendere è soprattutto la velocità della disfatta delle forze di sicurezza afgane, sulle quali si riflette il caos politico nel governo di Kabul. Decine di migliaia i civili già costretti a lasciare le proprie case, mentre le capitali della regione guardano con crescente preoccupazione all’offensiva militare talebana e tentano di fare ripartire il processo negoziale.

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A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications)

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