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Voci dall’Afghanistan alla vigilia di un disimpegno statunitense

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La forza di un popolo che nonostante tutto resiste

C. Di Tommaso, L. Santa Maria, E. Capezzone, Scomodo, 28 maggio 2021

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“Sono nata con la guerra afghana”. Era il 1978 quando il partito socialista filo-sovietico afghano (PDPA) ha preso il potere con un colpo di stato. A soli cinque anni dalla proclamazione della Repubblica, la situazione politica del Paese si ribaltava di nuovo. L’anno successivo sarebbero arrivati i russi, “ero una bambina, dell’invasione ricordo solo i carri armati per le strade di Kabul che mi facevano paura”. L’intervento dell’URSS era una chiara risposta al sostegno economico e militare che gli americani stavano offrendo agli oppositori del neo insediato governo socialista, i mujaheddin, “santi guerrieri”, che volevano costituire un governo islamico. Così si è cronicizzato e aggravato un conflitto intestino e  l’Afghanistan è diventato l’ennesimo campo di battaglia della Guerra Fredda. “Mio papà, prima del governo filorusso, occupava un alta carica militare, e ha dovuto scegliere da che parte stare. Lasciando il suo lavoro, ha rinunciato alle condizioni di vita privilegiate che avevamo. Dopo 10 anni siamo dovuti scappare in Pakistan”. Huma Saeed vive in Italia da tre anni, e nella sua vita ha visto di tutto. Ha avuto la fortuna di crescere in una famiglia istruita e progressista, che le ha permesso di studiare e di costruirsi una vita diversa. Dopo aver lasciato il suo Paese, ha vissuto in un campo profughi. Perchè aveva studiato, è riuscita poi a partire per l’america dove ha completato la sua formazione, e a sfuggire al destino di tante e tanti afghani rimasti intrappolati in un conflitto che dura da più di 40 anni. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1992 e il ritiro dell’Armata Rossa, la guerra finì lasciando 1,5 milioni di morti e 5 milioni di profughi, e venne proclamata la Repubblica Islamica dell’Afghanistan. I movimenti di Resistenza Islamica (mujaheddin) che avevano combattuto contro i russi, si contendono il potere, e la guerra “finita” prosegue di fatto con una sanguinosa e stremante guerra civile. Durante questi anni  l’Afghanistan diventa il centro della rete terroristica di al-Qāʿida, movimento sunnita paramilitare, responsabile degli attentati dell’11 settembre.

“Quando sono tornata per la prima volta alla fine degli anni ‘90, sotto i talebani, Kabul era una città fantasma”. ālebān significa letteralmente studente, perché si riferiva agli studenti delle scuole coraniche, ma è poi diventato il nome del movimento politico e militare che ha prevalso dopo la guerra civile e ha instaurato un regime fondamentalista che ha controllato il Paese dal 1996 al 2001. Inizialmente la presa di potere da parte dei talebani non fu vista come un problema da parte degli USA che scelsero di non intervenire, sebbene consapevoli dell’estremismo di questo movimento, e anzi incoraggiarono il loro insediamento. “Ricordo perfettamente il giorno in cui sono arrivati i talebani, avevo 7 anni, siamo tutti scappati e ci siamo chiusi nelle case”, spiega a Scomodo Maria —, nel 2016 anche lei ha lasciato Kabul per venire a vivere in Italia. Gli anni del regime talebano sono stati durissimi per tutti ma in particolare per le donne: “Avevamo una sola ora al giorno per uscire di casa”, racconta. Lei ha visto e vissuto ogni fase, ogni cambiamento che si è susseguito in Afghanistan negli ultimi tre decenni. Quando sono arrivati gli americani nel 2001, dopo l’attentato alle Twin Towers, il peggio sembrava passato. La cacciata dei talebani, e il crollo del sistema che avevano instaurato, fondato sulla paura, sulla repressione, e sul fondamentalismo religioso, ha illuso il popolo afghano di essere giunto finalmente ad una tregua. “Quelli sono stati gli anni d’oro, tra il 2002 e il 2006, il periodo migliore che il Paese ha vissuto nell’ultimo mezzo secolo – prosegue Hamed Ahmadi, che invece è andato via dall’Afghanistan 15 anni fa – la gente non aveva più nulla, ma si vedeva una luce nei loro occhi, una luce che non avevo mai visto. C’era davvero una grande speranza”. Speranza che è stata drammaticamente disattesa, da altri anni interminabili di guerra, che prosegue ancora oggi e ci restituisce un quadro di un paese sventrato, profondamente diviso e rassegnato. I talebani hanno con il tempo riacquistato potere, nelle città minori, nelle campagne e attualmente controllano ⅔ dell’Afghanistan. Il governo ufficiale, instabile e corrotto, non è stato in grado di frenare la loro avanzata nè di migliorare le condizioni di vita del popolo afghano: “Questo governo non ha legittimità – denuncia Huma –  è stato eletto con 1 milione di voti, in Afghanistan vivono 30 milioni di persone”. E ora che le truppe americane si preparano a ritirarsi definitivamente dal Paese, come annunciato il 14 aprile dal Presidente Biden, si lasciano alle spalle una situazione irrisolta, molto simile a quella che avevano trovato 20 anni prima. 

Il punto di vista afghano 

Della corruzione del governo afghano è colpevole anche la comunità internazionale, responsabile di aver mandato una cospicua quantità di denaro in un paese che non ha istituzioni per gestirli. Lo conferma l’organizzazione SIGAR, acronimo di Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, si tratta della principale autorità di controllo del governo degli Stati Uniti sulla ricostruzione dell’Afghanistan. La legge pubblica 110-181 impone a SIGAR di presentare un rapporto trimestrale al Congresso; esso include una dichiarazione dettagliata di tutti gli obblighi, le spese e le entrate associate alla ricostruzione.

”Anche gli stessi report di SIGAR lo dicono – spiega Huma –  l’Afghanistan è un paese che non ha le capacità di gestire flussi di denaro di quella portata”. La cosa grave che è successa dopo la caduta del regime talebano è che la comunità internazionale e gli USA hanno economicamente sostenuto i signori della guerra, che invece di andare sotto processo “hanno avuto la maggior parte di quei soldi e hanno iniziato il land-grabbing per costruire le loro ville.”. Il land-grabbing è un crimine economico-statale che consiste nell’appropriazione illecita e violenta di terre private o pubbliche da parte di soggetti in posizione di potere, come ufficiali del governo. Come spiega Huma Saeed in un suo articolo, intitolato WHEN RABBITS ARE IN CHARGE OF CARROTS: LAND GRABBING, TRANSITIONAL JUSTICE AND ECONOMIC-STATE CRIME IN AFGHANISTAN, il fenomeno di land-grabbing è stato fortissimo nell’Afghanistan post-talebano e facilitato dal sostegno economico statunitense. 

“E ora, dopo tutti quei soldi, più della metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà”. Huma riporta la propria delusione nei confronti delle azioni americane avvenute fino ad oggi e della sensazione di tradimento e di solitudine che il loro passaggio ha lasciato. ” Alcuni afghani erano ottimisti, altri dicevano che non potevamo aspettarci la libertà da parte degli USA, che erano gli invasori. Alcuni dicono che questo governo è meglio dei talebani, altri che sono stanchi della corruzione”. Hamed ha le idee chiare sulle causa di stagnazione del conflitto e sulla non risoluzione che ha portato l’intervento americano: “Il problema dell’Afghanistan è economico. L’economia di guerra che avvantaggia gli interessi dei potenti. L’obiettivo era quello di mantenere il Paese come un palcoscenico mondiale della guerra”. 

E il tremendo spettacolo va avanti, gli scontri sono aumentati quest’anno, anche se i talebani si sono impegnati in colloqui di pace intermittenti con i negoziatori del governo. In un’intervista a Vice News, infatti, il presidente Ashraf Ghani, nel tentativo di stringere un patto pacifico con i talebani, ha proposto di offrire loro passaporti e di riconoscerli come un legittimo gruppo politico.

In seguito ad un report delle Nazioni Unite, che dichiara un aumento di vittime civili del 29% quest’anno, rispetto lo stesso periodo del 2020, Ghani si è espresso nuovamente, affermando di rispettare la decisione degli Stati Uniti di ritirarsi dal Paese. Allo stesso tempo Mir Rahman Rahmani, l’attuale presidente del parlamento afghano, ha dichiarato che l’attuale tensione nel paese potrebbe sfociare in una guerra civile. 

La speranza per il risultato finale è condivisa, gli afghani desiderano che le truppe americane lascino il paese, ma non ancora. Al momento, le condizioni non sono favorevoli perché questa sia la decisione migliore. Il terrore nei confronti del regime talebano non lascia spazio a messaggi di speranza, il popolo afghano trema al ricordo del regime e desidera la propria libertà. Non c’è dubbio che, agli occhi dei civili, la decisione di Biden possa risultare come una scelta irresponsabile, di abbandono. Come confidano a Scomodo Hamed e Maria:”Il popolo vuole la pace, ma in Afghanistan ci sono sempre state fazioni, gruppi etnici. C’è conflitto interno, ognuno vuole formare un governo diverso, ma la gente vuole solo la pace”.

La voce delle donne

Nonostante 40 anni di guerra logorante, gli uomini e le donne afghane hanno dimostrato una volontà ammirevole, che solo adesso sta iniziando a cedere il passo a paura e disillusione. Sotto il regime talebano infatti le donne sono state la vera forza trainante della società. Le regole che il nuovo regime ha imposto erano stringenti e inflessibili. Le ragazze erano costrette a portare il burqa, gli veniva impedito di andare a scuola e non potevano uscire dalle loro abitazioni se non in orari prestabiliti. Nonostante questo sono stati numerosissimi i casi di gruppi di giovani donne e bambine che con grande coraggio si sono organizzate per proseguire i loro studi e la loro formazione. Esemplare, come ricorda Huma, è il caso di un’insegnante che, rischiando la vita, ha portato avanti per 5 anni una scuola clandestina per ragazze. Come possiamo leggere nel Manifesto delle donne afghane, un movimento che vorrebbe dare una voce non solo alle donne afghane ma a tutte le minoranze oppresse del mondo, “anche nei momenti più bui e disperati le donne hanno continuato a combattere e resistere”. 

Anche Maria, che ha vissuto a Kabul durante gli anni del regime talebano, ricorda di diversi stratagemmi che inventava con le sue compagne per non farsi scoprire mentre andava nelle moschee a studiare, quando le scuole erano chiuse: “Usavamo dei sacchetti del supermercato dove mettevamo i libri e spesso cambiavamo il percorso per non fare capire ai talebani che andavo a studiare”. A dimostrazione di quanto il diritto allo studio fosse sentito come inalienabile: più veniva loro negato, più le donne lottavano per averlo.  

Allo stesso modo, anche in anni recenti, hanno reclamato il loro diritto ad avere un posto sui tavoli delle trattative tra governo e talebani. Le donne afghane sono infatti la parte di popolazione che più ha da perdere con l’uscita delle truppe americane dal suolo afghano: anni di conquiste rischiano di andare in fumo in pochi mesi, per questo la loro partecipazione non è solo legittima ma necessaria per l’intera società afghana, che non può pensare di proseguire il suo cammino verso la liberazione senza l’apporto fondamentale del mondo femminile. 

Le manifestazioni di coraggio e determinazione da parte delle donne afghane nell’affermare il proprio diritto all’autodeterminazione sono molte e non possono che essere motivo di ammirazione ed esempio per l’intera comunità femminile mondiale.  

Un messaggio che mal si concilia con lo stereotipo delle donne oppresse dai soprusi degli uomini, portato avanti dalla retorica americana e talebana. Secondo Huma, che ora ha alle spalle anni di attivismo per i diritti umani, lavoro come consulente indipendente per organizzazioni internazionali tra cui l’ONU e studio accademico nell’ambito della criminologia e della Transitional Justice, l’intenzione degli americani era di trovare una giustificazione alla loro entrata in guerra nel 2001: dipingendo le donne come delle vittime da salvare, il loro intervento poteva colorarsi di un benevolo interesse umanitario, soprattutto agli occhi dell’opinione pubblica. 

“Le donne afghane hanno una voce ed è anche potente”, continua Huma, si oppongono con forza all’immagine di vittime bisognose di aiuto: chiedono supporto alla comunità internazionale, non pietà e compassione. Così si legge sul Manifesto del Movement of Woman of Afghanistan:“Se non sono le stesse donne a rendersi consapevoli della cause della loro soggezione e a resistere contro di esse, nessuna forza esterna potrà rendere la loro vita migliore. Per questo pensiamo che quando arriva il momento di combattere per il cambiamento, consapevolezza e auto-consapevolezza rappresentino gli unici e legittimi strumenti”. Chiedono di non essere poste davanti all’alternativa tra giustizia sociale e pace, un accordo tra le parti che non includa l’affermazione dell’uguaglianza delle donne, della libertà e dei diritti umani conquistati fino a questo momento non può in alcun modo rappresentare un’alternativa valida alla guerra. 

Un sentimento questo che in realtà accomuna l’intera popolazione. Gli Afghani hanno continuamente dimostrato forza e coesione, soprattutto nei momenti più terribili della loro storia. Con strumenti e soldi praticamente inesistenti, ma con un forte senso di collaborazione e devozione hanno rimesso in piedi un paese che fino a poco tempo prima era devastato. In questo senso Hamed parla dell’“arte di arrangiarsi” per descrivere l’intraprendenza che connota il suo popolo: “la gente non aveva nemmeno le scarpe, ma con le ciabatte andava a scuola per studiare”. 

Negli ultimi anni tuttavia le cose sono peggiorate velocemente. Attivisti e giornalisti, temendo per la loro vita, hanno abbandonato in massa il paese. Gli attacchi terroristici sono aumentati. Gli obiettivi privilegiati sono sistematicamente ragazzi e ragazze, ovvero la fascia più giovane della società. Il motivo è evidente, per il regime talebano, impregnato di conservatorismo e immobilismo, i giovani rappresentano un nemico da combattere, in quanto simbolo del cambiamento e del futuro. 

Le condizioni sociali ed economiche attuali sono allarmanti. Quasi metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà e una quota altrettanto significativa è analfabeta. Tuttavia la società, anche se allo stremo, rimane vivace. I giovani formano la stragrande maggioranza della popolazione, il 65% della popolazione ha meno di 25 anni e l’età media è di 19 anni, hanno sogni e desideri come qualsiasi altro ragazzo della loro età, stanno solo sperando in una pace che gli permetta di vivere il futuro che vorrebbero. 

Ma la situazione rimane incerta e preoccupante. “La speranza è svanita” raccontano a Scomodo sia Huma che Maria. Le condizioni del paese non sono mai state così critiche, tanto che difficilmente si può pensare a un altro paese che stia affrontando difficoltà gravi come quelle dell’Afghanistan in questo momento. 

Costruire un futuro diverso

“È necessario ora trovare una narrativa alternativa” sostiene Huma con fermezza, rispondendo alla domanda su quali prospettive attendono il paese.  La visione americana, il racconto dei media che si concentra solo sugli attentati e le esplosioni, sono dannosi per il futuro dell’Afghanistan. Perchè quello che serve è il sostegno della comunità internazionale, non dei governi, ma della società civile. “Quello che manca è una forza capace di mobilitare il popolo – prosegue Huma- ed è su questo che ci stiamo interrogando adesso”. Huma sta partecipando proprio in questi giorni a diversi tavoli di discussione, come il Transitional Justice Coordinating Group, ai quali partecipa sia la comunità afghana all’estero, sia chi è rimasto nel Paese. è fondamentale innanzitutto una coesione di obiettivi, intento problematico per un paese che ha sempre visto diverse fazioni etniche e religiose lottare tra loro. Ma senza un interesse comune nel nome del quale indirizzare i propri sforzi, la popolazione afghana non può sperare in una vera liberazione. Aspettare un intervento esterno non si addice né allo spirito afghano né si è per ora dimostrata una strada desiderabile. L’Afghanistan ha visto il susseguirsi di governi sovietici, islamisti e occidentali, rivelatisi tutti fallimentari. “Io credo nella possibilità di un intervento esterno, ma che non sia governativo”, aggiunge Huma, ogni volta infatti che un governo straniero entra in un paese porta inevitabilmente con sé i suoi personali interessi, che mal si conciliano con gli interessi della popolazione, per questo affinché l’intervento sia efficace e disinteressato deve prescindere da qualsiasi bandiera nazionale. “Al momento l’unica cosa di cui ha bisogno l’Afghanistan è un governo stabile, eletto da tutto il popolo, per tutto il popolo”, sostiene Maria.

Tuttavia la risposta alla domanda su cosa sia necessario per l’Afghanistan per ricostituirsi come nazione e popolo rimane per tutti ancora molto incerta. Ma si può trovare: “Quello che mi sorprende ogni volta che torno in Afghanistan è che, nonostante tutto, c’è la vita – conclude Huma –  E si vede proprio”. 

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