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L’Afghanistan delle stragi

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Enrico Campofreda, 20 novembre 2020

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Nelle ricostruzioni a posteriori, del resto quest’inchiesta s’è appena conclusa, prende corpo l’idea che quei, forse all’epoca definiti ‘danni collaterali’, che erano corpi in carne e ossa poi ridotti in cadaveri, vennero massacrati per avviare alla guerra reclute. Versare sangue per fare sangue, non a caso la pratica veniva definita “sanguinamento”.
La macelleria è quella afghana. Vestivano i panni del boia divise australiane aggregate alla Nato, gli Special Air Service, non i mercenari col tempo sempre più utilizzati, ma militari di carriera sotto la direzione statunitense. Diventavano capri espiatori i contadini della provincia centro-meridionale dell’Uruzgan. Saifullah, Bismillah e decine di simili finiti sparati in testa, in petto, alle spalle più o meno come i martiri delle Ardeatine, solo in numero più ridotto: trentanove.

Rivelazioni frutto delle testimonianze acquisite dai responsabili di una Commissione sui Diritti Umani, che sono state utilizzate nell’inchiesta aperta dalle Forze armate di Canberra nei confronti dei propri corpi inviati a sostegno della guerra voluta da George W. Bush e proseguita da Barack Obama. L’epoca dei fatti s’aggira attorno al 2005.

Ma talune ‘operazioni speciali’ ed extraordinary rendition sono proseguite anche oltre, durante la prima amministrazione del “presidente della trasformazione”, un cambiamento che la politica estera americana ha solo parzialmente conosciuto. Non sul fronte afghano, dove il ripensamento attorno agli “scarponi sul terreno”, preludio del rientro di truppe che erano giunte a 100.000 unità, è una conseguenza delle ripetute battute d’arresto della campagna militare Usa nei territori occupati.

 

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Dal 2010, anno delle maggiori perdite sul campo della missione Isaf (711 proprie vittime), i marines ridussero l’attività di terra e gli stessi pattugliamenti in territori ritenuti ostili. Ora, di perfide fasi del conflitto che di per sé fanno del cinismo un metodo più o meno periodico, la travagliata Repubblica Islamica dell’Afghanistan è teatro da decenni. I fatti ricostruiti, bontà sua, da un tribunale australiano se non in cima ai crimini reiterati su quegli scenari, costituiscono comunque un’operazione criminale.

Assaltando famiglie inermi nei villaggi dell’Uruzgan, sfondando porte delle case, puntando armi su donne e bambini, aizzando su di loro cani, sequestrando e passando per le armi uomini solo perché vivevano in aree dove la guerriglia talebana era presente e aspra, ha fomentato nella gente il rifiuto di qualsiasi presenza straniera.
Un’occupazione che solo la propaganda, cui le nazioni aggregate alla Nato hanno offerto supporto di uomini e reparti speciali (l’Italia che ripudi ala guerra coi parà del Col Moschin e del 4° reggimento alpini, fino alla task Force 45, coinvolta nelle ‘consegne straordinarie’ della Cia) dichiara di sostegno logistico alla popolazione.

Chi quei tank, quelle spregevoli armi d’assalto se li è visti venire addosso e far fuoco, se sopravvissuto, ha incamerato ben altra visione dell’Enduring Freedom e dell’Isaf mission. Come l’ha dell’insulso Resolute Support utile alla conservazione di eserciti che perpetuano le proprie spese autoreferenziali. Grazie a esse, in base a un’occupazione che prosegue le forze talebane hanno costruito il mito della propria resistenza e s’apprestano a rientrare nei palazzi del potere.

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