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Dalla Siria arriva il contagio della vergogna

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Alberto Negri, Il Manifesto, 28 febbraio 2020

 siria

Guerre comunicanti. Erdogan ricatta gli europei minacciando ondate di profughi sulla rotta balcanica che comincia in Grecia e non è detto che non lo possa fare anche in Libia dove tiene per il bavero il governo di Tripoli sotto attacco del generale Khalifa Haftar, alleato dei russi.


Circo mediatico al valico di Cilvegozu, presso la città turca di Hatay, confine sud-orientale della Turchia con la Siria.

Dalla Siria quasi dimenticata arriva la stagione cinica e amara dei ricatti incrociati e delle contraddizioni laceranti di un conflitto iniziato nel 2011 come una guerra civile diventata sempre di più una guerra per procura tra potenze internazionali e attori regionali. In un’area, il Medio Oriente, dove le azioni di destabilizzazione – cominciate quest’anno con l’assassinio da parte degli Usa del generale iraniano Qassem Soleimani – si accavallano alle devastanti crisi economiche, politiche e sociali interne che non lasciano scampo ai cittadini siriani, curdi, iracheni, libanesi, iraniani, palestinesi.

A noi qui in Europa, per la nostra indifferenza, la mascherina del Coronavirus serve soprattutto a evitare il contagio della vergogna di non guardare quanto accade intorno a noi. Ma forse ancora per poco.

A Idlib lo scenario è quello di un’immane tragedia umanitaria e di uno scontro aperto su larga scala tra Turchia e Siria nel quale Mosca, il principale sponsor di Assad con l’Iran, non può certo fare la parte dell’attore neutrale ma appare anche l’unica potenza in grado di intervenire per abbassare una tensione giunta al culmine con l’attacco aereo di Bara e Balyoun in cui sono stati uccisi 33 soldati turchi.

Erdogan ricatta gli europei minacciando ondate di profughi sulla rotta balcanica che comincia in Grecia e non è detto che non lo possa fare anche in Libia dove tiene per il bavero il governo di Tripoli sotto attacco del generale Khalifa Haftar, alleato dei russi. Nella guerre comunicanti di Siria e Libia tutto è possibile. In Grecia intanto la guerriglia per i campi profughi in costruzione sulle isole sta già favorendo l’azione di propaganda dei neonazisti di Alba dorata.

 

La Nato – così come gli Stati Uniti – fa finta di sostenere la Turchia, membro dell’Alleanza atlantica che adesso chiede l’imposizione di una no fly zone su Idlib.

Ma nessuno dei due dimentica che Erdogan ha acquistato dai russi il sistema missilistico S-400, è diventato il principale partner del gas di Mosca e che nell’ottobre scorso ha massacrato i curdi siriani, i maggiori alleati degli Usa e dell’Occidente nella lotta al Califfato.
Americani ed europei non sono intervenuti allora, minacciando falsi embarghi sulle armi alla Turchia – che anche l’Italia vende a tutto spiano – difficilmente lo faranno oggi. Lo stesso capo del Pentagono Esper ha dichiarato che Washington non vuole essere coinvolta in un altro conflitto in Siria se non nella lotta al terrorismo.

Se si va a guardare bene chi combatte a Idlib e provincia – dove nel 2011 vivevano 1,2 milioni di persone e adesso almeno tre, con profughi e ribelli provenienti da ogni dove – un eventuale appoggio a Erdogan significa anche un aiuto alla coalizione jihadista di Hayat Tahir al Sham, l’ex fronte al Nusra affiliato ad al Qaeda. Gli stessi soldati turchi sono mescolati ai ribelli, e non è una novità perché Erdogan ha appoggiato in questi anni i jihadisti e fatto intese con l’Isis in funzione anti-curda e anti-Assad.

In poche parole, ucciso Al Baghadi, lui è diventato il vero “califfo” degli estremisti che ha spostato, insieme a truppe turche, anche a Tripoli per difendere il governo di Fayez al Sarraj in violazione dell’embargo.

Secondo gli accordi di due anni fa tra Turchia, Russia e Iran nell’area di Idlib doveva essere attuato un cessate il fuoco e il disarmo dei gruppi jihadisti e ribelli con la supervisione dei militari turchi.

Ma questo accordo non è stato mai attuato. Mentre Ankara occupava prima il cantone dei curdi siriani di Afrin e una parte consistente del Rojava, la Turchia – già entrata con le sue truppe in Siria nel 2016 in funzione anti-curda – ha insistito a mantenere il controllo di un territorio in base al principio di «profondità strategica»: in poche parole i turchi volevano tenere in pugno gli assi autostradali Nord-Sud verso Aleppo e Damasco e quello Est-Ovest in direzione della costa di Latakia e poi ricollocare in queste aerea una parte dei loro 3,5 milioni di profughi siriani.

L’obiettivo dell’avanzata delle truppe di Assad e dell’aviazione russa è strappare alla Turchia questi collegamenti essenziali anche con attacchi indiscriminati sui civili, come testimonia Medici senza Frontiere.

Questa è la posta in gioco di una battaglia che ha già prodotto 900mila rifugiati in condizione disperate.

Erdogan adesso ha cinque fronti. Due di guerra, in Siria e Libia, uno interno, sempre più insofferente sia verso i profughi siriani che nei confronti delle sue avventure militari in combutta con i jihadisti. Il quarto fronte è quello del ricatto dei profughi nei confronti dell’Europa che lo paga per tenerseli. Il quinto, il più importante, è con Vladimir Putin. Deve decidere se tentare di vincere guerre che forse non può vincere o venire a patti con il suo alleato strategico russo che gli consente di essere il più grande hub del gas nel Mediterraneo e continuare a giocare con Usa ed Europa. Forse sarà Putin a decidere per lui.

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