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La morte di Soleimani complica la pace in Afghanistan

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Segnaliamo questo articolo di Giuliano Battiston perché ci sembra interessante per le fonti che utilizza molto accurate sulle questioni interne talebane. Anche se come sempre ci dicono le nostre fonti afghane il processo di pace tra USA e talebani che tanti commentatori, compreso Battiston, danno come unica speranza per una pace in Afghanistan non è certo fatto per la popolazione civile ma per dare modo agli Stati Uniti di lasciare il paese senza perdere “la faccia”. L’impegno del Cisda rimane sempre quello di segnalare le notizie ma di dare anche una lettura critica secondo i contatti che abbiamo costantemente con persone e organizzazioni con cui collaboriamo e che in Afghanistan lottano per una vera pace per tutto il popolo afghano.

afghanistan studentsISPI – 8 gennaio 2020, di Giuliano Battiston

Tra i fronti sui quali peseranno le conseguenze dell’uccisione del generale Qassem Soleimani ce n’è uno cruciale, pressoché trascurato dai media italiani, meno invece da quelli internazionali: l’Afghanistan.

Il Paese centroasiatico continua a ospitare il più numeroso contingente militare statunitense dell’intero “grande Medio Oriente”– circa 13.000 soldati –,  condivide un lungo, poroso confine con l’Iran, offre un quadro politico frammentato e instabile, in cui non mancano i sostenitori di Teheran e gli oppositori della presenza statunitense. E il processo di pace tra Washington e i Talebani, ripreso a fine novembre 2019 dopo l’interruzione di settembre voluta dal presidente Usa Donald Trump, è un un terreno di scontro indiretto ma fondamentale per tutti gli attori regionali e internazionali.

Inclusa Teheran, che gode di buoni rapporti con una parte dei Talebani, non più però con il leader supremo, Haibatullah Akhundzada, l’uomo nominato Amir al-Muminin (guida dei fedeli) in seguito alla morte, nel maggio 2016, di mullah Mansour, polverizzato da un drone americano nel Beluchistan pachistano, dopo aver trascorso diverso tempo in Iran.

Il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, martedì ha sostenuto che “il coinvolgimento dei Talebani nello sporco gioco dell’Iran non farà che danneggiare il processo di pace”. Per poi aggiungere che il governo iraniano ha rapporti “con i Talebani e gruppi associati come gli Haqqani, Tora Bora e il gruppo di mullah Dadullah”, rapporti che ostacolano la pace.

Si tratta di informazioni approssimative e in parte errate: gli Haqqani, la rete fondata dall’omonimo leader Jalaluddin Haqqani, poi sostituito dal figlio Sirajuddin, attuale numero due dei Talebani, hanno sempre fatto riferimento a Riyadh, alleato degli Stati Uniti, e a Islamabad, partner su cui Washington fa affidamento per il processo di pace con i Talebani, non a Teheran. Una unità (mahaz) talebana chiamata Tora Bora – località afghana della provincia di Nangarhar resa celebre da Osama bin Laden – ha avuto vita breve e da anni non è più attiva, mentre il gruppo di mullah Dadullah ha fatto parlare di sé soltanto anni fa, suscitando dubbi tra gli analisti ed è inattivo dalla morte del suo leader.

Più complesso, e interessante, il rapporto tra Teheran e i Talebani, che ci riconduce al generale Qassem Soleimani. Nel lontano 1998, quando Soleimani era stato nominato da poco a capo delle forze al Qods delle Guardie della rivoluzione, venne chiamato dal neoeletto presidente iraniano Mohammad Khatami a occuparsi di un grave problema oltre-confine: la presa del potere in Afghanistan dei Talebani, sunniti radicali, guardati  con sospetto da Teheran.

Secondo il dettagliato resoconto sulla sua ascesa politica e militare redatto da Ali Soufan, a pochi mesi dalla nomina Soleimani dovette affrontare uno dei dossier più difficili, la conquista talebana della città afghana settentrionale di Mazar-e-Sharif, condotta a colpi di massacri e attacchi alla minoranza sciita degli hazara, incluso un assalto al consolato iraniano in cui rimasero uccisi otto diplomatici iraniani e un giornalista.

Secondo alcune ricostruzioni, sarebbe stato proprio Soleimani a scongiurare l’ipotesi – favorita invece dall’allora capo della Guardie della rivoluzione, Yahya Rahim Safavi – di invadere il Paese con 250.000 uomini come rappresaglia, optando per una strategia diversa: aiuto e sostegno logistico e militare all’Alleanza del Nord guidata dal “leone del Panjshir”, il comandante Ahmad Shad Massoud, fieramente anti-talebano, di cui circolano foto che lo ritraggono con Soleimani.

Altri tempi. Da allora i rapporti con i Talebani sono molto cambiati. All’inizio dell’intervento degli Stati Uniti in Afghanistan, l’Iran ha fornito a Washington le coordinate sulle posizioni dei Talebani, ma in seguito – con il prolungarsi dell’occupazione militare – Teheran tramite le Guardie della rivoluzione ha fatto da sponda finanziaria e poi diplomatica ad alcune fazioni degli studenti coranici in funzione antiamericana, portando all’apertura di una nuova shura (consiglio o cupola) nella città iraniana di Mashad, non lontana dal confine con l’Iran, oltre alle tradizionali shure talebane in Pakistan.

Al di là delle differenze confessionali, Teheran vedeva e vede infatti nei Talebani degli interlocutori pragmatici, utili a sfiancare il “grande Satana” e a rendergli la vita complicata, oltre che uno strumento per inviare un messaggio politico agli Stati Uniti: l’Afghanistan, e l’intera regione, non è posto per voi.

Le recenti dichiarazioni del segretario di Stato Usa Mike Pompeo sul rapporto tra i Talebani e l’Iran non aggiungono nulla a quanto già noto, e riconducono un rapporto complesso alla semplice etero-direzione. Potrebbero però preludere a una richiesta da parte del negoziatore di Trump, Zalmay Khalilzad, di prendere le distanze dal governo degli ayatollah, complicando – inutilmente – la partita negoziale. L’idea che Teheran stia sabotando il processo di pace non è suffragata da elementi concreti, anche se la posizione iraniana è equivoca. Come i Talebani, con i quali intrattiene rapporti simili a quelli delle altre potenze regionali, Teheran auspica il ritiro delle truppe americane. Il suo obiettivo non è impedire che l’accordo si trovi, ma fare in modo che quell’accordo garantisca anche gli interessi iraniani. Un aspetto trascurato invece dall’attivismo diplomatico dell’inviato di Trump, Khalilzad, che ha consultato più volte tutte le capitali regionali, tranne una: Teheran appunto.

La morte di Soleimani complica le cose. Teheran potrebbe usare l’influenza di cui gode presso alcune fazioni degli studenti coranici per intensificare la pressione militare sulle truppe americane in Afghanistan, o cercare di ostacolare il processo di pace attirando a sé quella parte del movimento talebano che ancora guarda con scetticismo al negoziato con gli Stati Uniti.

Più in generale, potrebbe guadagnare consensi un’altra linea, rispetto a quella ufficiosa del governo iraniano sul processo di pace in corso – attendista e pragmatica, purché conduca al ritiro delle truppe straniere. È la linea dell’area più belligerante dell’establishment militare e dell’intelligence, che  vede nella presenza dei soldati americani in Afghanistan sì un rischio, ma anche un’opportunità, perché offre il fianco a operazioni di sabotaggio e il pretesto per una politica regionale più spregiudicata, muscolare e offensiva, proprio perché giustificata dall’accerchiamento del nemico storico non solo a ovest, nella penisola arabica puntellata da basi militari Usa, ma anche a est, in Afghanistan.

Teheran non ha sufficiente presa sull’intero movimento dei Talebani per fargli cambiare rotta sul processo di pace, ormai inseguito dalla Rahbari shura, il massimo organo di governo, ma fino a quando gli americani saranno in Afghanistan avrà a disposizione leve più che sufficienti per ostacolare il negoziato, complicarlo, mandare all’aria i piani di Washington o fargli perdere ulteriormente la faccia.

Per Antonio Giustozzi, tra i più autorevoli studiosi del movimento talebano, “i Pasdaran potrebbero per esempio voler giocare una carta rischiosa, quella della protesta popolare a Kabul (sul modello iracheno) – che potrebbe ben agganciarsi alla diatriba sulle elezioni” presidenziali dello scorso settembre, il cui risultato è contestato, “e farla deragliare in uno scontro violento, che sarebbe assai imbarazzante per Trump”. Una strada rischiosa, perché la protesta “sarebbe difficile da controllare e potrebbe invece spianare la strada a una successione a Ghani, che sbloccherebbe l’accordo con i Talebani”, ora sospeso anche perché il presidente afghano, sostenuto dagli americani, chiede un cessate il fuoco che i Talebani non intendono concedere.

Oltre che con i mezzi militari non convenzionali, gli iraniani potrebbero inoltre colpire gli Stati Uniti, in Afghanistan e tramite l’Afghanistan, in modo indiretto, ma altrettanto efficace quanto a effetti destabilizzanti: con un’arma demografica, il rimpatrio forzato dei due milioni di afghani residenti in Iran.

Non è un caso, dunque, che il governo di Kabul appaia preoccupato per le potenziali ripercussioni dello scontro tra Washington e Teheran. Derivano da qui le ripetute rassicurazioni pubbliche: “il suolo afghano non verrà usato contro un Paese terzo”, ha ribadito il presidente Ashraf Ghani, che ha il difficile compito di dimostrare quanto tenga all’alleanza strategica con gli Stati Uniti – principale finanziatore del governo e delle forze di sicurezza – senza compromettere i rapporti con il vicino, che resterà tale anche quando gli Stati Uniti lasceranno il paese.

Ghani ha ricordato che è lo stesso Accordo bilaterale di sicurezza con gli Stati Uniti, siglato nel settembre 2014 come primo atto della sua presidenza, a escludere che l’Afghanistan venga usato per colpire altri paesi. Ma ha dovuto comunque rassicurare il suo omologo iraniano, Hassan Rouhani, e così ha fatto con l’ambasciatore iraniano il consigliere per la sicurezza nazionale, Hamdullah Mohib.

In Afghanistan non manca chi ha pubblicamente reso omaggio a Soleimani. Il secondo vicepresidente, Sarwar Danish, lo ha ricordato  come “una figura autorevole nella lotta contro lo Stato islamico in Medio Oriente”. L’ex presidente Hamid Karzai, partecipando al Tehran Dialogue Forum, ha condannato come contraria “alle norme e ai principi internazionali” l’uccisione di Soleimani, “uomo nobile, che cercava pace e stabilità in Afghanistan”.

Come riporta il sito The Diplomat, dall’ufficio del “primo ministro”  Abdullah Abdullah è partito un comunicato ufficiale che, pur cauto per non impensierire troppo Washington, rivendica lo speciale legame con Teheran: “La repubblica islamica di Iran è uno dei nostri vicini e alleati. Durante il jihad (invasione dell’Urss) e la resistenza (lotta contro i Talebani e al-Qaeda), è stata dalla parte della gente e ci ha aiutati”. Una posizione ribadita nella conversazione telefonica tra il ministro degli esteri iraniano, Javid Zarif, e Abdullah, che si è fatto fotografare  all’interno dell’ambasciata iraniana a Kabul mentre firmava il libro di dediche per il generale scomparso, elogiato come “martire Sardar Soleimani” dall’ex consigliere per la sicurezza nazionale, Mohammad Haneef Atmar.

Giudizi opposti rispetto a quello di Rahmatullah Nabil, ex direttore dei servizi segreti (Nds) e candidato alle presidenziali, per il quale Soleimani era “un asset per gli interessi iraniani”, ma “una minaccia per la regione”, perché principale stratega e organizzatore di tante milizie militari in Medio Oriente, inclusa la brigata Fatimyoun.

Soprattutto nelle province occidentali, sul lungo e poroso confine con l’Iran, molti ricordano Soleimani non come uomo di pace, ma come il responsabile della morte di tanti ragazzi afghani, arruolati in patria o più spesso in Iran – con la promessa di un permesso di soggiorno – e finiti a far parte della brigata Fatimyoun, composta esclusivamente da afghani, anche bambini.

Ragazzi convinti o costretti a combattere una guerra non loro, in un Paese non loro, la Siria, proprio da Soleimani e dal suo successore, il generale Ismail Ghaani, di cui in queste ore sui social afghani circola una vecchia foto che lo vede a colloquio con il governatore della provincia di Bamiyan, abitata dalla minoranza sciita degli hazara.

 

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