Skip to main content

Il massacro dei curdi di Halabja è un monito all’odio di oggi

|

Frontierenews Martino Pedrazzini – 30 novembre 2019

64661E20 CB0E 4CC1 A266 339C5D0633DE w1200 s

Il 16 marzo 1988, durante la guerra Iran-Iraq, l’esercito iracheno uccise circa 5000 curdi di Halabja attraverso armi chimiche. Una rappresaglia contro la popolazione curda che non aveva frapposto sufficiente resistenza al nemico iraniano. Ad oggi l’attacco contro i curdi di Halabja è il più grande massacro condotto attraverso armi chimiche nella storia dell’uomo. Un museo e un’associazione di cittadini di Halabja ci spiegano che la memoria di ieri può essere antidoto all’odio di oggi.

“Ci sono colline verdissime e panorami che ricordano l’Irlanda!” E ancora: “Le montagne sono innevate e sembra di stare tra le Alpi!” Così dicevano…

I quasi cinquanta gradi dell’ora di pranzo, le immense distese di erba ingiallita dal sole e i rarissimi alberelli solitari paiono descrivere una realtà ben diversa. I miei amici sono venuti qui a dicembre e io con loro sono tornato a giugno. Sembrano due luoghi diversi, ma siamo nello stesso posto. Siamo ad Halabja, nel Kurdistan iracheno al confine con l’Iran, in quella che un tempo veniva chiamata Mesopotamia. Una terra che ha visto sorgere civiltà gloriose, che è stata teatro di guerre, di violenze e di persecuzioni, ma anche una casa accogliente per molti popoli dalle culture e dalle religioni più disparate.

Halabja è una città curda semi-sconosciuta che ha malauguratamente vissuto un solo brevissimo momento di celebrità. Il 16 marzo 1988 la popolazione della città fu brutalmente bombardata dall’aviazione irachena, vennero usate armi chimiche di ogni genere. Con i gas sprigionati nell’aria vennero uccise 5000 persone e più del doppio vennero ferite e molte rese per sempre invalide.

 

Per non dimenticare quel massacro è stato costruito un museo. E noi, bruciati dal sole, è lì che stiamo andando. Prima di arrivare al museo passiamo dal cimitero, un posto mai bello dove andare, ed è lì che ti arriva il primo pugno nello stomaco. È un grande cimitero in leggera salita fatto da sole lapidi, con alcuni monumenti funebri contenenti alcune parole di ricordo e il numero di morti sepolti in quella parte del campo. Sono solo lapidi. Una lapide per famiglia. Su ogni lapide sono riportati i nomi di madri e padri, di figlie e figli, di fratelli e sorelle. Alcune con un solo nome e altre con sei, sette o otto nomi… Intere famiglie sterminate!

Foto-copertina.jpg

 

Poco tempo per ragionare e usciamo, avvicinandoci al museo. Lo si vede in lontananza, dietro le case e in fondo alla strada. Ha una forma che è diventata il simbolo della città: l’unione del fumo dell’esplosione di una bomba e di due mani protese verso il cielo in preghiera. È un simbolo che ricorre nelle associazioni locali e nei luoghi istituzionali, è il simbolo di una tragedia impossibile da dimenticare e che è necessario tenere viva nella memoria collettiva. Dal cancello principale c’è una lunga via alberata che conduce al museo circondato da bandiere del Kurdistan iracheno. Sulla destra della strada sono tenuti dei vecchi carri armati degli anni ‘80 e uno di quei maledetti aerei da bombardamento. Tutto attorno alla piazza del museo c’è un verde giardino ben curato e una statua.

La statua raffigura un uomo che sta facendo una fotografia. E non appare chiaro da subito che cosa stia fotografando. Lo capisco solo quando giungiamo alla piazza del museo, quando i cespugli e gli alberi permettono la vista. Di fronte all’entrata è posta un’altra statua, il secondo pugno allo stomaco: è una donna che, riversa a terra, abbraccia il suo bambino. Quell’uomo è il primo giornalista che arrivò ad Halabja dopo il bombardamento, il primo che documentò la tragedia.

Davanti ai nostri occhi sembra ricostruirsi quel momento. Inizio a pensare che l’avvicinamento al museo sia fatto apposta in questo modo: entri piano piano, vedi alcune cose e inizi a farti delle domande, ti chiedi che significhi la forma del museo e cosa stia fotografando quell’uomo… Le risposte però non rientrano neanche nelle più remote stanze del tuo cervello.Foto 3

 

 

Entriamo. La prima sala del museo è una raccolta di foto e di racconti della cultura curda: foto di vestiti tipici e di feste tradizionali, foto della vita agricola e delle manifestazioni dei lavoratori, foto di personaggi illustri e di uomini e donne del popolo. “A te che entri, non dimenticare! Non è stato un semplice atto di guerra, ma una vile repressione di un popolo, lo sterminio programmato del diverso”. Procediamo nella seconda stanza e qui i pugni allo stomaco sono continui e ancora più forti, da far venire le lacrime agli occhi. Qui è ricostruito l’ambiente che poteva apparire a chi fosse entrato ad Halabja nel ‘88, subito dopo il bombardamento. Corpi senza vita a terra. Due bimbi con il volto insanguinato appoggiati contro il muro. Calcinacci e detriti sulla strada. Un pickup, la cui fuga è stata fermata, pieno di corpi accatastati nel cassone. Animali esanimi e il terreno bruciato. Un uomo che stava infornando il pane. E silenzio, nessuno che riesce a dire una parola. È una ricostruzione e i muri sono dipinti, ma quei corpi in rilievo, come una Pompei irachena, sono terrificanti, puoi solo immaginare il terrore delle vittime e lo sgomento dei sopravvissuti. Non puoi dire una parola, tutto perde di significato.

Ci lasciamo alle spalle la distruzione e entriamo in una sala circolare, lì sul muro sono riportati i nomi delle vittime. In un ambiente nero saltano agli occhi le scritte bianche in alfabeto arabo, che sembrano trasportate verso l’alto nel cono che forma la struttura del museo. Sono un’infinità di nomi ed è lì che 5000 diventa un numero reale, è lì che puoi intuire le dimensioni della tragedia. Procediamo nella quarta stanza dove ci sono foto e video: fatti da lontano durante il bombardamento e nei giorni successivi in città e negli ospedali. Non penso che sia possibile descrivere adeguatamente le sensazioni, ma l’incredulità si mischia al desiderio di guardare per non dimenticare e la tristezza si mischia alla rabbia. Ogni foto, ogni video, ogni intervista ti prende a pugni con ancora più violenza di prima. Vuoi voltare lo sguardo e se riesci a non farti scalfire è solo perché tutto quello che stai vedendo è inconcepibile e cerchi di difenderti. Quella stanza e quelle testimonianze sono questo, ma anche molto altro. Se non sei del tutto insensibile è una crescita di coscienza del proprio ruolo di fronte alle sofferenze umane, è il desiderio di non veder mai più succedere cose simili. Non è solo un ricordo è anche una riflessione sul presente. E così assumono un senso ulteriore le foto della fuga da Halabja affiancate e quelle degli yazidi del Sinjar in fuga dall’Isis nel 2014, così come le foto dei bambini costretti a migrare e a morire sulle nostre coste oggi come allora.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *