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LA VOCE DI OCALAN

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Q Code Mag – L. Sestini 10/5/19

HStrikeNon si conclude lo sciopero della fame a oltranza delle migliaia detenuti politici curdi contro l’isolamento e la violazione dei diritti umani basilari di Abdullah Öcalan: “Per noi è essenziale una pace onorevole e una soluzione di politica democratica lontana da ogni polarizzazione e cultura della violenza”.

 

Sintetizza con questa frase il pensiero del leader del PKK (Partito dei Lavoratori Curdi) Abdullah Öcalan – sottoscritto anche da altri tre detenuti nell’isola-prigione di Imrali in mezzo al Mar di Marmara – di cui si sono fatti portavoce i suoi legali attraverso una conferenza stampa all’hotel Taksim Hill di Istanbul in seguito a un permesso di colloquio a sorpresa che non veniva concesso dal 27 luglio 2011.

Otto lunghissimi anni di richieste di incontro, circa 810 regolarmente respinte, il 2 maggio 2019 rimarrà nella memoria storica della lunga e conflittuale causa del popolo curdo, non solo nella disputa con la Turchia.

Un lancio di agenzia di pochissime righe, apparso attraverso una testata giornalistica online in lingua turca nella tarda mattinata di lunedì 6 maggio, è velocemente rimbalzato nei social nell’incredulità generale dei sostenitori curdi e internazionali intenti a cercare maggiori dettagli di una notizia che pareva più falsa che reale.

L’incontro del Presidente Öcalan con i suoi avvocati, dei quali solo due hanno ricevuto il consenso a incontrarlo, è durato circa un’ora e si è focalizzato principalmente su una tematica particolarmente sentita: la ripresa dei negoziati di pace con la presidenza turca di Erdoğan, processo democratico bruscamente interrotto nel 2015 con la ripresa delle violente rappresaglie armate interne alla nazione anatolica per ciò che si può propriamente definire una paranoica ostilità di un governo contro una parte dei propri cittadini – circa 20 milioni – definiti una minoranza.

Nessuna risposta da parte delle autorità turche nei confronti della richiesta di interruzione dell’isolamento del leader politico Öcalan, che viola tutti i diritti umani basilari dei detenuti, e contro il quale oltre 7mila prigionieri politici curdi – di cui numerosi esponenti e parlamentari HDP, Partito Democratico dei Popoli – hanno aderito allo sciopero della fame a tempo indeterminato seguendo l’esempio della deputata Leyla Güven che ha raggiunto ormai il 180° giorno.

Molti anche i civili di differenti nazioni europee e oltreoceano – circa 250 – che si sono affiancati alla silenziosa resistenza curda, forma di protesta estrema che nel mese di marzo ha lasciato vittime sul campo 8 detenuti e 1 civile curdo-tedesco.

Öcalan, nel documento rilasciato ai suoi legali e co-firmato dagli altri tre detenuti della prigione e base militare dell’isola di Imrali – che non hanno potuto incontrare i legali – spinge gli scioperanti della fame a non mettere in pericolo la propria vita e chiudere la protesta, facendo sapere che sta bene e che ritiene il processo democratico l’unica forma corretta di dialogo per una soluzione pacifica della questione curda.

In Italia, al suo 45° giorno dello sciopero della fame, Erol Aydemir 30enne curdo turco è l’unico hunger striker a tempo indeterminato, solitario nella sua resistenza fisica e politica ma sostenuto da moltissime persone che gli ogni giorno gli fanno visita e talvolta lo accompagnano in un digiuno a staffetta.

Erol è in Italia da circa 5 anni – con un permesso di rifugiato politico – fuggito dalla Turchia e arrivato qui attraverso la rotta balcanica. La sua colpa – in madrepatria – era di frequentare una compagnia teatrale in ambito studentesco accusata di simpatizzare per il PKK, gruppo politico annoverato nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali di cui sono firmatarie numerose nazioni occidentali, Italia compresa.

Arrestato e condannato a oltre 7 anni di reclusione, per una delle frequenti – e ormai prevedibili – strategie politiche del governo turco fu scarcerato dopo solo due anni ma a breve nuovamente perseguitato con mandato di arresto. Da queste ulteriori vessazioni la decisione di lasciare la Turchia.

Ospitato al centro culturale curdo Ararat di Roma, arrivato qui dalla Sardegna – regione scelta quando che gli è stato concesso l’asilo politico – in cui lui individua l’affinità in determinazione alla lotta tra Sardi e Curdi, l’attivista racconta a tutti perché ha deciso di iniziare lo sciopero della fame il 21 marzo – il giorno del Newroz , capodanno curdo – e l’importanza del significato di questa data, celebrata da oltre due millenni e rappresentata da un grande fuoco purificatore.

La leggenda narra di Kawa, il fabbro che decise di liberare il suo popolo dalla tirannia del re assiro Dehak, un sovrano disumano che pretendeva il sacrificio dei giovani figli maschi dei sudditi per preservare la sua grandezza di potere.

Era il 21 marzo del 612 a.C. in Mesopotamia, terra del popolo dei Medi antenati dei Curdi, quando Kawa – gigante buono – liberò la sua gente dando avvio alla resistenza, attiva ancora oggi.

“Bisogna spiegare bene e far capire davvero a tutti che adesso la lotta del popolo curdo non è più fine a se stessa”, afferma Erol Aydemir durante l’intervista.

“Lo stesso pensiero politico del PKK, affinato nell’evoluzione politico-ideologica del Presidente Öcalan non è più quello del 1978, anno di fondazione del partito. E’ il normale flusso degli eventi geopolitici e capitalistici che indirizzano la lotta a cambiare direzione per avere un risultato migliore, diverso, adattandosi ai tempi. Io ho studiato molti pensatori politici e penso – per esempio – che il pensiero di Marx non fosse perfetto. Adesso noi sosteniamo e lottiamo per tutti i popoli oppressi e lo mettiamo in atto in Siria del Nord, in Rojava, con il Confederalismo Democratico, una forma di governo dal basso – democratica e equa – per tutti i popoli che vivono in questa area. Una società anticapitalista in assoluto, ecologista e che rispetta la parità di genere, modello impensabile in Medio Oriente fino a pochi anni fa. Con i suoi difetti – perché appena nato – il confederalismo democratico include molte etnie, lingue e religioni diverse e funziona perché sono i cittadini che lo attivano dal basso, dando spazio a tutti. Le donne poi stanno attuando una vera e propria rivoluzione di genere, delle quali a migliaia hanno combattuto in prima linea contro i mercenari del califfato e hanno offerto la loro vita – accanto agli uomini – per la libertà di tutti i popoli e per proteggere indirettamente le altre nazioni dagli attacchi terroristici.”

Anche il leader Öcalan – nel comunicato rilasciato il 2 maggio scorso da Imrali ai suoi avvocati Newroz Uysal e Rezan Sarıca – rimarca l’importanza di proteggere e ampliare il progetto di Confederalismo democratico in atto nei tre cantoni della Siria del nord a maggioranza curda, processo necessariamente parallelo alla ripresa del dialogo per la negoziazione della pace a 360° con il governo di Ankara.

Intanto, a seguito della conferenza stampa tenutasi a Istanbul dai legali di Öcalan, la concessione dell’incontro con il loro assistito convince poco e viene considerata da tutto l’apparato politico solo una strategia delle autorità turche. A febbraio 2019 era stato già repentinamente concesso un permesso di visita di 15 minuti ai famigliari del leader politico curdo dal 2016.

Alla luce di queste considerazioni la resistenza politica dentro e fuori le carceri turche è stata confermata e lo sciopero della fame degli oltre 7mila detenuti non si interromperà, neanche di coloro – 15 prigionieri – che hanno decretato il death fast, morte veloce.

Questa lotta silenziosa e pacifica, che chiede il rispetto dei diritti umani e l’affrancamento di tutti i popoli dalle ingiustizie, ha una grande valenza etico-morale che però lascia sorde e immobili anche le autorità europee alle quali i rappresentanti curdi si sono più volte appellati.

Credere che il presidente turco Erdoğan cambi improvvisamente modo di agire sembra un obiettivo impossibile, soprattutto alla luce degli ultimi fatti, il tentato linciaggio di Kemal Kılıçdaroğlu – leader del partito di opposizione CHP – compiuto il 21 aprile scorso e l’accanita ricerca di nuove elezioni, con accusa di brogli sul voto della megalopoli Istanbul, da parte dell’APK di Erdoğan.

Infine, sempre in data 6 maggio 2019, la Commissione Elettorale Suprema della Turchia ha concesso a maggioranza di voto le nuove elezioni per la sola città di Istanbul, fissate per il 23 giugno prossimo.

Come può essere intrapreso un processo democratico di pace sociale in Turchia se il Presidente Recep Tayyip Erdoğan non accetta le sfide e soprattutto le sconfitte?

Quante vite dovranno ancora essere sacrificate perché i princìpi della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 vengano davvero rispettati e applicati almeno dai paesi che allora la sottoscrissero? La Turchia fu una delle nazioni firmatarie.

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