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Delegazione CISDA a Kabul per l’8 Marzo

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Giulia Rodari, Marzo 2018

Kabul 300x225L’accoglienza, fuori dall’aeroporto di Kabul, scorre con freddezza: strette di mano, sguardi fugaci, parole frettolose. È venerdì 2 marzo e, come è ormai quotidianità, starà per esserci un attentato suicida nelle vicinanze.

Con una folle corsa, in contromano sui viali, schivando le macchine, rallentando solo in prossimità dei posti di blocco militari, le macchine arrivano a destinazione. Si incontrano volti amici, storie conosciute, e, dentro le mura private, si sciolgono emozioni che dureranno una settimana.

Come ogni anno da 18 anni, una delegazione del CISDA ha raggiunto l’Afghanistan con tre obiettivi: monitorare i progetti in atto, valutare loro implementazioni e palesare il sostegno internazionale in particolare partecipando alla Giornata Internazionale della donna.

I giorni sono scanditi da uno fitto calendario di appuntamenti, dedicati alla storia dell’Afghanistan con approfondimenti tematici sull’attualità, all’analisi delle attività di ogni organizzazione, a riflessioni rispetto alla progettualità in relazione al futuro del paese.

Politica e attualità. Incontri fondamentali si sono rivelati essere quelli con Rawa e con Hambastagi, Partito della Solidarietà, i cui membri hanno tracciato una panoramica geopolitica del paese. La strategia delle grandi potenze mira a dividere il paese secondo gruppi etnici, rendendolo instabile, prossimo a una guerra civile e, quindi, più controllabile. Occupazione americana e presenza talebana, i veri problemi, sono stati accantonati tanto che nessuno prova a interpretare o prevenire quelle reciproche dimostrazioni di forza che sono gli attacchi suicidi.

 

Ghani lavora solo in funzione della creazione di un paese capitalista, trovando come unica soluzione al controllo che va via via perdendo una tregua con i talebani, per il cui governo tifano anche i mecenati dell’arte della guerra, gli Stati Uniti.

Talebani, signori della guerra e Daesh si spartiscono l’influenza tra i villaggi, dove ognuno applica la propria legge, parallelamente a quella governativa e consuetudinaria. Violenza e crimine sono le parole d’ordine, essendo loro, o i paramilitari a loro seguito, ad essere i giudici dei crimini da loro stessi commessi.

Tutti i fondi inviati negli anni per la ricostruzione e la riqualificazione dell’Afghanistan, di Kabul in particolare, sono andati persi, reindirizzati verso gli Stati paralleli: edifici governativi, scuole ed ospedali, che da fuori paiono integri e funzionanti, all’interno sono svuotati del personale e dei prodotti necessari, riempiti di spazzatura e macerie.

I difensori dei diritti umani e le ONG si occupano solo di vicende note a tutti perché il sommerso é troppo pericoloso, alle poche sentenze che vanno a favore delle donne non fa seguito alcun monitoraggio e ricadono in una condizione quasi peggiore della precedente.

I progetti. L’operatività attuale si concentra maggiormente sulle zone remote perché incancrenite nelle situazioni peggiori, private di qualsiasi servizio governativo e, quindi, più facilmente coinvolgibili attraverso un’offerta che adempia ai bisogni essenziali. Obiettivo conseguente è l’avvio di un processo di coscientizzazione rispetto alla condizione della donna e ai diritti lei spettanti; fine ultimo è l’avvicinamento e l’adesione delle donne alla rete di Rawa, creando terreno fertile per un’attività più capillare e longeva.

Difatti, Momena e Sara raccontano dei corsi di alfabetizzazione che verranno avviati ai primi di aprile a Zargaran, nella provincia di Bamyan: con picchi di 20 gradi sotto zero, è una zona montagnosa particolarmente povera ad economia agricola, caratterizzata dalla prevalenza del gruppo etnico hazara cui consegue una privazione totale di qualsiasi aiuto governativo, tra le altre assenza di acqua corrente e mancanza di scuole. I destinatari sono solo donne, che si prospettano essere un centinaio, tra i 16 e i 50 anni, tutte sostenute da mariti e/o padri in funzione oppositiva alle politiche discriminatorie attuate dal governo.

Corso analogo a quello organizzato nella provincia di Jalalabad, qualche chilometro oltre la città, verso le pendici delle montagne. Le giovani aderenti sono un’ottantina suddivise su quattro classi gestite da una delle poche ragazze istruite della zona, anche questa contraddistinta da un alto tasso di disoccupazione che infierisce principalmente sulle donne, quasi tutte casalinghe. Oltre alla sede destinata all’insegnamento agli uomini che verrà inaugurata a settimane, la convinzione è che l’offerta di assistenza sanitaria sarà lo strumento utile a un pieno coinvolgimento della comunità locale.

Il progetto di coltivazione dello zafferano nella provincia di Herat è relazionato da Wajam e Shastika, a un anno dal suo inizio. Le difficoltà si sono subito manifestate in relazione all’arrivo di elementi di Daesh e dei talebani che hanno costretto un’improvvisa forzata sostituzione del terreno scelto e all’attuazione di misure di sicurezza nei confronti del nuovo. Ciononostante, già i primi mesi di un progetto quinquennale hanno consentito alle 12 donne coinvolte di godere di un’autonomia economica che incide sull’indipendenza di vita e sul riconoscimento di dignità da parte della comunità locale. Necessario sarà avviare percorsi paralleli di alfabetizzazione che diano origine agli altri effetti a catena.

Poi, ci sono le associazioni riconosciute. OPAWC, che organizza a Kabul corsi di formazione professionale concomitanti a corsi di alfabetizzazione e di istruzione, il cui conseguimento garantirà l’ottenimento di un diploma riconosciuto dal Ministero dell’Istruzione stesso. I destinatari sono donne di tutte le età, provenienti anche da zone distanti un paio di ore dalla capitale.

E AFCECO che, attraverso i suoi orfanotrofi, propone ai giovani ospiti corsi di lingua e attività di musica, danza, teatro e sport, potendo vantare la formazione di importanti atlete e della prima donna divenuta direttrice d’orchestra in Afghanistan. O il fondamentale lavoro di HAWCA di cui Hashim, Shafiqa e Rohina elencano le numerose azioni volte alla sensibilizzazione sui temi della violenza e dei diritti umani. Colonna portante sono gli shelter per donne vittime di maltrattamenti, 17 in tutto il paese, 4 solo nella capitale, per circa 35 posti ciascuno. Alle ospiti, età media 25 anni, sono proposti corsi di alfabetizzazione e formazione professionale, utili, insieme, all’avvio di una piccola attività commerciale.

Più recenti destinatari sono i bambini di strada in una zona di Kabul particolarmente a rischio, di sovente reclutati dai talebani per sacrificarli in attentati suicidi e ora coinvolti attraverso l’arte in un centro di educazione alla pace.

Infine SAAJS fornisce sostegno alle famiglie delle vittime degli attentati, attraverso assistenza legale e aiuti economici. Nei numerosi anni di lavoro, l’inarrestabile responsabile Weeda ha ricostruito 70.000 storie, attraverso complesse ricerche che l’hanno portata di casa in casa, dando fiducia e ricevendone indietro ancora.

La loro somma costituisce un movimento. Ad anelli, adiacenti, concatenati, mai sovrapposti, composti da cerchi concentrici che vanno restringendosi in diversi livelli di fiducia.

Conta migliaia di membri attivi, pare trasversalmente godere di un forte sostegno: forniscono risposte, aiuti concreti, offrono istruzione, si prendono cura di storie altre, creano coscienza critica. Preparano con dedizione le basi per una nuova Rivoluzione.

Ne é una dimostrazione l’8 marzo, celebrazione della Giornata Internazionale della Donna. A ricordare tutte le donne che hanno perso la vita in Afghanistan, per l’Afghanistan c’è il movimento intero, chiuso in quel salone, immenso eppure troppo piccolo per contenere tutti.

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