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In viaggio lungo il muro di Erdogan che vuole cancellare i curdi

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da UIKI – 13 Marzo 2017

muro 3 599x275La barriera di cemento sigilla ormai cinquecento chilometri   di confine tra Turchia e Siria. Qui il nemico sono i guerriglieri del Pkk.

Era mattina, una mattina di primavera. Il tempo era bello, un sole giallo, vecchio, usato avanzava prudentemente nel cielo ancora un po’ grigio. Nel ristorante «Friends» a Gaziantep le tre ragazze siriane cinguettavano allegre, beccuzzando enormi piatti di pollo fritto, scambiandosi i telefonini, tra ammicchi e risa di gioia. Una era particolarmente bella, elegante, ricca, con un raffinato velo Burberry.

Il mio itinerario in Turchia non poteva che iniziare qui: come sei anni fa, e allora furono viaggi notturni, bisbigli nel buio, incontri furtivi con sconosciuti appena intravisti, attese silenziose. Attraversare il confine siriano era difficile. Il chilometro più lungo della frontiera era a Khilis, a poca distanza dalla città. Da questa parte la Turchia. Dall’altra i ribelli e i soldati di Bashar Assad, la guerra infiniti orrori. Il mostro cruento svelava la sua faccia feroce. Uomini e donne hanno impiegato anni per percorrerlo e sono morti prima di toccare la meta, prima di diventare profughi.

Adesso i campi dei rifugiati in Turchia sono quasi vuoti, in compenso si sono riempite le città di siriani, due milioni settecentomila, quartieri interi, come qui a Karatash. Case strade negozi aiuole tutto nuovo, persino tra le rotaie del tram hanno steso una moquette verde per dare l’illusione dell’erba. Ma comunque si giri ti sembra di essere nella periferia provvisoria di una provvisoria città, luogo di tappa di un popolo stanco di andar pellegrino. Aggrappati al presente, temono l’avvenire.

Una vita tra visti e fughe

Poi nel ristorante è entrata un’altra giovane, anche lei siriana. Quante ne ho viste così: che si sentono ovunque di troppo, misurano il tempo in visti e la propria biografia in timbri. Non hanno fatto nulla di male ma sono certi di essere inseguiti. Si vede dagli occhi stanchi, dal passo svelto, dai vestiti sporchi, consunti. Sorridono timidamente: per farsi accettare. Chiedono scusa sempre, di essere lì, di disturbare, di togliere posto al sole. Si è avvicinata alle tre senza esitare. Ha scelto la più bella per parlarle, quella con il velo firmato. Si sono guardate per un lungo momento, come per misurare l’abisso che questi anni e il destino hanno scavato fra di loro.

La ragazza povera stringeva i denti come se trattenesse le lacrime le immagini le parole. L’altra, la ricca, ha fatto un gesto al cameriere che ha raccolto gli avanzi del pasto e li ha fatti scivolare in una borsa di plastica. Un leggero trasalimento, la ragazza attendeva a capo chino, il tacere in fondo alla preghiera, quando dopo aver invocato tratteniamo il respiro, tendiamo l’orecchio. Ha preso il sacchetto ed è uscita mormorando brevi parole.

L’ho seguita con lo sguardo. Ha attraversato il viale che taglia il quartiere. Il pudore infinito della povertà. Si è seduta sul marciapiede e ha iniziato a mangiare, svelta, gli avanzi. La Siria fuggiasca, lì, tutta intera: i ricchi che hanno avviato in Turchia una nuova vita, vivono in quartieri loro, a fianco dei turchi che non li amano, senza integrarsi. Ho visitato una scuola pagata dai ricchi uomini d’affari siriani che sono emigrati negli Usa e in Canada: computer e proiettori in ogni aula, la musica che accompagna la pausa tra le lezioni. Da far invidia ai loro coetanei italiani.

E poi gli altri… Come sono simili, gli altri, a quelli che incontrai sei anni fa nei campi, chiusi a tutte le speranze, convinti che ciò che li aveva tenuti insieme da sempre si fosse per sempre spezzato per la decisione di qualche presidente o fanatico o per un nero destino; che tanto valeva partire o restare, in entrambi i casi non rimaneva che rinchiudersi in se stessi. E scaricavano davanti alle tende le loro robe e le portavano dentro, prendevano mogli figli vecchi e li portavano dentro.

 

Documenti in regola

Son passati sei anni e misuriamo in loro la nostra colpa: la guerra infuria e gli esseri umani continuano ad essere coloro hanno i documenti in regola, non gli altri, quelli non sono i corpi vivi che ci stanno davanti ma stanno dentro le pratiche e gli incartamenti. Età, provenienza mezzi per vivere progetti di emigrazione, perchè siete qui, perché? Che ne sarà della Turchia, dell’Europa se tutta la Siria viene a stabilirsi qui dai rispondi! E voi rispondete: quante volte ho sentito, abbiamo sentito queste parole?

Al quartiere di «Iran bazaar» mi aspettano i bambini siriani, i bambini che lavorano nei laboratori del tessile. La porta di un edifico si apre, un bimbo viene mandato in avanscoperta dall’interno giungono voci e rumori confusi di macchinari. Ci guarda incerto: il padrone non c’è. Poi lui spunta dalle scale. Ci fingiamo imprenditori italiani del tessile che vogliono approfittare del crollo della lira turca per spostare una parte della lavorazione a prezzi stracciati. L’avidità cancella anche i sospetti, saliamo tra scale sbrecciate, resti di stoffa, immondizie, in un stanzone molti bambini qualche donna un paio di vecchi, tutti siriani, tagliano e lavorano in lunghe file di macchine da cucire.

Camicine per neonati si allungano in interminabili mucchi. Il padrone, turco, ci offre condizioni vantaggiose: una lira e 50 turca per capo, è in grado di assicurarci mille capi al giorno ottomila la settimana. Farà lavorare i suoi piccoli operai su due turni senza sosta, un buon affare. I bambini, rannicchiati nei loro fagotti di cenci, non alzano nemmeno il capo per scrutarci, attenti ai gesti di tagliare e cucire e unire i lembi dei vestitini con il ritmo di una danza, con la devozione alla macchina che hanno davanti di un cane sulla tomba del padrone. Nel quartiere in ogni soffitta e sottoscala, basta scendere gradini sudici addentrarsi in antri scuri da medioevo, ci sono decine di laboratori come questo, dove sono sfruttati i piccoli fuggiaschi della rivoluzione siriana. Tutta la produzione viene poi spedita a Istanbul e all’estero. Altri bambini ti incrociano trascinando penosamente carretti di legno sovraccarichi di stoffe e vestiti diretti verso i magazzini.

Nei cinema proiettano trionfalmente «Il Reiss», film epopea sulla vita e la carriera del presidente Erdogan, un misto tra Victor Hugo e le mille e una notte: l’infanzia di povero, la persecuzione politica, il trionfo. Il sedici aprile si voterà per il referendum che ne rafforza i poteri, fino al 2029. I sondaggi danno favorito il no. Ma c’è tempo, mezza opposizione è in galera dopo il fallito golpe del 15 luglio, c’è lo stato di emergenza che vieta i comizi, e poi funziona la semplificazione eterna: o noi o il caos, se voti no aiuti i terroristi. Il mito ossessivo della congiura di forze oscure contro la Turchia, che solo Lui può fermare. Martellante universale efficacissimo. Va bene sempre, come sempre.

Lascio Gaziantep, mi attende un lungo viaggio verso Est: la porta d’Oriente, uno dei confini più delicati del mondo. Impossibile sbagliare strada, ti accompagna per centinaia di chilometri il Muro di Erdogan. Sembra solo una regolare linea grigia sulla pianura. Talora si avvicina alla strada fino a qualche centinaio di metri, talora si allontana: ma sempre ben visibile, definitivo, cementizio, invalicabile, con la sua corona di filo spinato. L’ha tirato su in breve tempo, un anno e mezzo, la «Toki», azienda edilizia di stato, la stessa che costruisce gli orribili quartieri che deturpano le città turche. Da cinquecento dovrebbe arrivare a mille chilometri di tracciato, da Hatay ad Akkari fino a chiudere tutto il confine per sbarrare la strada ai guerriglieri curdi del Pkk. Sono blocchi di cemento di due metri di spessore, altri tre metri, ogni trecento metri una torretta dove i soldati turchi staranno a guardia tutto il tempo come sentinelle medioevali sul parapetto del castello scrutando perennemente il deserto siriano. A distanze regolari postazioni zeppe di tutto l’armamentario delle guerre moderne dove, si dice, verranno poste mitragliatrici automatiche.

I bulldozer sono al lavoro, senza soste, per completare i tratti che ancora mancano. Gruppi di contadini a poca distanza con immensa fatica raccolgono pietra su pietra, per liberare la terra scura, grassa della Mesopotamia al lavoro e alla semente.

Propaganda di pietra

Ci lasciamo dietro l’Eufrate, Adyaman con i suoi enigmatici idoli di pietra e poi Urfa, che è città più araba che turca. L’immensità di questa pianura è inesorabile, crudele, infinita. Ovunque, innumerevoli, sopra le basse case le cupole delle nuove moschee come ombrelli spalancati. La propaganda di pietra del partito di Erdogan. Anche se qui non è l’islamizzazione che conta, più attenta come è alla facciata che alla sostanza, ma il vecchio nazionalismo, ombroso e orgoglioso. Nella zona curda ci cadi dentro, di colpo: con la parlata della gente che il turco o ignora o corrompe come se fosse lingua esotica, straniera. E con l’apparire delle scritte bilingui, regalo del breve periodo di tregua tra Erdogan e la minoranza detestata. Tregua dai mille sottintesi in cui ognuno sperava di giocare l’altro, e sfruttarlo. I curdi: l’eterno problema dei turchi. Non l’Europa, la democrazia, la laicità, la Siria: i curdi.

A Musaybin agli angoli delle case, sulla via, i forni collettivi dove le famiglie cuociono il pane, uguali a quelli che vide Senofonte, nelle strade passano cavalli al galoppo, nei caffè vecchi curdi giocano a carte in silenzio. C’è la sicurezza di cose vecchie e stabilite, mestieri antichi: come un fabbricante di culle legno, tutte eguali da tempo immemorabile, l’artigiano degli zoccoli e quello dei setacci. Ma gli uomini, ti accorgi, ragionano sottovoce e stanno a guardarsi aspettando di udire nell’aria lo scoppio di qualche fucilata di guerra. In città l’ultimo rastrellamento risale ad appena sette giorni fa. Si combatte e duramente nei villaggi intorno, per punizione, raccontano, bruciano le case e uccidono il bestiame. Per tagliare i rifornimenti e vendicare la collaborazione con i «terroristi».

Ecco Cizre, la nostra meta, per riprenderla ai curdi hanno dovuto bombardarla con i carri armati, sottoporla a sette mesi di coprifuoco totale, almeno duecento persone sono morte per mancanza di cibo, di acqua e medicine. Il coprifuoco è ancora in vigore dalle ventitrè alle cinque del mattino. Soldati e poliziotti hanno diritto a un soprassoldo per restarvi di guarnigione. Un terrorista ucciso venne trascinato per le vie legato a un blindato, meccanizzato lo strazio di Achille al corpo di Ettore.

Mi indicano pieni di orgoglio cittadino, uno spiazzo, strani tumuli di pietra anneriti da fuoco: lì Noè secondo la leggenda costruì l’arca per salvare l’uomo dal diluvio. Incastri che non riescono tra passato e presente. Il Tigri scorre lento, indifferente, quasi il vigore di una osservanza e di una storia immutabile.

«Abbiano fatto seicento prigionieri, non uno è rimasto in vita,l’hanno pagata i terroristi!».

A capo curvo il velo chiuso sul mento da un pizzo bianco, nascoste in implacabili tabarri neri le donne scivolano in strada in chiuso gruppo con una strana leggerezza di andare. Vestono come nel vicino Iraq; alla frontiera di Harbur mancano pochi chilometri. Le sfiorano senza rallentare i convogli dei blindati che pattugliano incessantemente le strade. Agli incroci dei quartieri più irriducibili bambini fanno strani gesti al passaggio dei mezzi militari e di qualche auto civile: le sentinelle.

«Sono tutti traditori, questi, hanno aperto le porte per far passare i terroristi da una casa all’altra, da un cortile all’altro. Ma li abbiamo fottuti questi figli di cani». A un incrocio altri bambini armati di mazze spaccano i rottami di una casa abbattuta per estrarne il ferro: come in una miniera. Lavorano metodici, lenti, in una nube di polvere grigia. Tutti bambini.

«Qui mandano gli agenti più pazzi di tutta la Turchia, quelli che rifiutano di indossare il giubbotto antiproiettile, che si gettano in ogni mischia».

Sui muri solo qualche scritta ribelle è sfuggita alla censura dell’intonaco: «Fotti la Turchia!». Rispondono, invece scintillati, le scritte di poliziotti e soldati: «La Turchia è qui!».

Saliamo su un rilievo che domina la città, una delicatissima luce blu avviluppa le montagne intorno. Celano quasi violette contr’ombra, con gelide nevi, le terre di oltrefrontiera dove i curdi hanno saldo in mano il potere e lo stanno allargando. Da lì ti accorgi di ampie chiazze vuote di edifici, il fondo del terreno ha il grigio del cemento come un inspiegabile eczema edilizio. Sono i quartieri irriducibili, li hanno rasi al suolo.

di Domenico Quirico, La Stampa

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