La Turchia sulla strada verso il referendum costituzionale
Civaka Azad – Uikionlus – 28 febbraio 2017
Come è noto il 21 gennaio di quest’anno il parlamento turco ha approvato la prevista modifica della Costituzione costituita da 18 articoli. Con 367 voti, quindi una maggioranza dei 2/3, il Parlamento avrebbe potuto approvare da solo la riforma costituzionale. Ma per questo i voti di AKP e MHP non sono bastati. Dato che tuttavia è stato possibile superare la soglia di 330, ora si decide della riforma costituzionale con referendum. Prima il Presidente turco Erdoğan doveva apporre la sua firma sulla riforma costituzionale pianificata, cosa che ha fatto il 10 febbraio. E così è stato possibile proclamare il giorno del referendum: il 16 aprile 2017.
Inizialmente ci sono state speculazioni sul motivo per il quale Erdoğan si è preso così tanto tempo per la firma. Si tratta pur sempre di una modifica costituzionale con la quale in Turchia si vuole stabilire un sistema completamente tagliato per la sua persona. E anche per il resto modifiche del genere non sono proprio usuali per il Presidente dello Stato turco, che preferisce agire in fretta che lentamente. In diversi per questo avevano sospettato che Erdoğan non volesse arrivare al referendum perché al momento i sondaggi prospettano più voti per il No che per il Si. Ma queste speculazioni sono state poi contraddette dalla firma del disegno di legge.
Nel giorno del referendum i cittadini turchi ora si troveranno a confronto con la domanda se vogliono approvare o meno la nuova Costituzione. Il risultato di questa semplice domanda Si o No, tuttavia avrà una grande portata per la Turchia, il Medio Oriente e per tutto il mondo. Infatti si tratta di molto di più di una semplice modifica costituzionale. La questione è se in Turchia viene costruita una dittatura o se si riesce a mantenere in vita nonostante tutti i contraccolpi una speranza di democratizzazione del Paese.
In effetti in Turchia dalle elezioni del 7 giugno 2015 il tema della democrazia è stato messo su un binario morto. Lo stesso vale anche per i diritti umani nel Paese. Con il referendum costituzionale ora è possibile che si prospetti quella che per ora è l’ultima possibilità di volgere l’aspetto della Turchia in direzione della democrazia. Per questo però serve un grande impegno di forze. E nonostante tutte le angherie, la repressione e gli attacchi dell’AKP, l’opposizione cerca di avviare una campagna per il mantenimento della democrazia.
D’altro canto è chiaro che con un “Si” al referendum la Turchia viene condotta definitivamente in una dittatura di un solo uomo. Il Presidente dello Stato potrà prendere le decisioni che gli aggradano e poi nella pratica non ci sarà alcuna istanza che avrà la possibilità di controllarlo. Quali conseguenze potrà avere tutto ciò, lo dimostrano le esperienze con l’attuale stato di emergenza. Anche qui il Presidente dello Stato governa senza ostacoli. Può guidare il Paese a prescindere dal Parlamento tramite decreti. Il risultato è che perfino il diritto nel Paese viene calpestato come al momento lo vediamo quotidianamente in Kurdistan.
Originariamente lo stato di emergenza era stato proclamato per combattere i golpisti, in particolare contro la comunità di Gülen. Ma nella realtà dopo il fallito golpe militare del luglio 2016, il bersaglio dell’AKP sono diventati soprattutto le forze di sinistra e i curdi. 102.000 persone da allora sono state licenziate. È ancora poco chiaro come e da chi sia stato preparato questo ampio raggruppamento di nomi di persone che probabilmente erano già da tempo sulla lista nera. Tra i licenziati ci sono centinaia di accademici che hanno dovuto lasciare il posto solo per la firma di una dichiarazione a favore della pace. A questo si aggiungono innumerevoli insegnanti e dipendenti del pubblico impiego. Non vanno dimenticati le centinaia di canali radiofonici e televisivi, agenzie stampa, giornali, riviste e pagine Internet che sono stati chiusi.
Il Presidente Erdoğan e il suo governo dell’AKP ormai non sentono nemmeno più l’esigenza di nascondere la loro politica di censura dei media. Con l’etichetta della “sicurezza nazionale” si procede in modo rabbioso contro giornalisti e media. A questo si aggiunge la decisione dell’ente turco per la supervisione dei media RTÜK, che è costituito in maggioranza da componenti dell’AKP, che d’ora in avanti nei media sono vietate notizie dell’ultim’ora su attacchi terroristici. Quindi prima che una notizia su un attacco in Turchia possa essere trasmessa all’opinione pubblica, questa deve essere approvata da RTÜK.
Lotta contro l’HDP come parte della campagna referendaria dell’AKP
Solo nella scorsa settimana in Turchia sono stati arrestati oltre 2000 appartenenti all’HDP. Queste ondate di arresti cadono proprio in un periodo nel quale il partito prepara la sua “campagna per il No”. La repressione contro l’HDP e le organizzazioni affilate tuttavia non sono una novità. Così in tutto 75 delle 103 amministrazioni cittadine complessive del Partito Democratico delle Regioni (DBP), la più grande organizzazione affiliata all’HDP, si trovano in amministrazione forzata e vengono guidate da burocrati dell’AKP. Nelle rimanenti amministrazioni cittadine nelle quali il DBP nelle elezioni amministrative del 2014 aveva ottenuto la maggioranza, ogni decisione dei sindaci è legata all’approvazione del governatore, cosa che di fatto equivale a un’amministrazione forzata. A questo si aggiunge che attualmente 13 deputati dell’HDP si trovano in carcere. Già di per sé la situazione data basta per mettere in discussione la legittimità di un referendum costituzionale.
Dalle elezioni parlamentari del 7 giugno 2015 l’HDP è esposto a un’enorme pressione da parte dello Stato. Gli viene effettivamente tolto lo spazio per l’attività politica. Degli ultimi risultati di questa politica fanno parte la revoca del mandato di parlamentare della co-presidente dell’HDP in carcere Figen Yüksekdağ e il nuovo arresto del deputato HDP Idris Baluken. Sembra che l’AKP ormai abbia iniziato a trasferire le sue politiche di repressione anche su altri ambiti: così è stata arrestata per un breve periodo Sera Kadigil, componente della direzione del CHP kemalista, dopo che aveva illustrato dettagliatamente le conseguenze delle previste modifiche costituzionali nel corso di una trasmissione televisiva. Ora è stata accusata di “offesa al Presidente” e nelle trasmissioni politiche non è più un’ospite gradita. Intanto anche nell’MHP della destra radicale è iniziata una campagna di pulizia contro tutti coloro i quali si oppongono all’introduzione di un sistema presidenziale. Numerosi iscritti al partito ora devono combattere con provvedimenti di espulsione. Un’iniziativa di oltre 1.500 iscritti MHP che si sono schierati contro le modifiche costituzionali il 18 febbraio a Ankara è stata prima assediata dalla polizia, prima che nella sala venisse tagliata la corrente elettrica. Inoltre con Hüseyin Sözlü, un componente illustre dell’MHP che è anche sindaco di Adana e fa parte di quelli che nell’MHP sono schierati per il No, è stato condannato a una pena detentiva di cinque anni. A livello ufficiale il motivo è una vicenda di corruzione, ma questo davvero non convince tutti. Ora anche Adana, la quarta città della Turchia per numero di abitanti, verrà messa in amministrazione forzata.
Con la guerra contro i curdi mobilitare il potenziale elettorale nazionalista
Lo Stato turco che nello scorso anno si è reso colpevole di crimini di guerra in un gran numero di città curde, ora in modo simile a quanto avveniva negli anni ’90 ha iniziato a terrorizzare la popolazione rurale del Kurdistan. Così negli ultimi giorni sono apparse nei social media immagini del villaggio di Xerabê Bava presso Nisêbîn che mostrano soldati in posa davanti a cadaveri di persone che prima sono state palesemente torturate. Il villaggio è ancora segregato dall’opinione pubblica. E anche in altri villaggio della regione vige uno stretto coprifuoco.
Oltre alla guerra dello Stato turco nel Kurdistan del nord, il governo di Ankara continua a minacciare anche le Forze Democratiche della Siria e l’amministrazione autonoma del Rojava. Anche qui postazioni delle unità di difesa curde sono state ripetutamente attaccate dall’esercito turco e dai gruppi con esso alleati. L’aumento di questi attacchi dello Stato turco nel periodo che precede il referendum viene considerato da molti come un tentativo dell’AKP di fare propaganda nelle aree nazionaliste per un “Si” al referendum combattendo le conquiste curde. Si vuole in questo modo convincere l’elettorato dell’MHP della necessità di un “uomo forte” al vertice dello Stato turco.
Intanto in Kurdistan il partito islamista Hür Dava Partei (in breve Hüda-Par) ha reso noto che sostiene le modifiche costituzionali e quindi il sistema presidenziale. I sostenitori di Hüda-Par in linea di principio sono sovrapponibili ai seguaci dell’organizzazione islamista-curda Hizbullah che negli anni ’90 insieme alle strutture dello Stato profondo si è resa responsabile di innumerevoli omicidi di attivisti curdi. Il fronte del “No” al referendum invece va dall’HDP, passando per il CHP e una parte dell’elettorato dell’MHP fino al partito islamista Saadet, dalla cui tradizione originariamente provengono anche Erdoğan e il suo seguito, prima di fondare l’AKP.
Nonostante le circostanze politiche avverse che mettono in discussione la legittimità del referendum costituzionale nel suo complesso, l’opposizione nel Paese per la maggior parte fa appello per un No al referendum. Ma davanti allo scenario di questa situazione in Turchia si pone anche la domanda sul perché le opposizioni non invitino ad un boicottaggio per il 16 aprile? La risposta a questa domanda sta nel significato della decisione costituzionale cui si è accennato all’inizio. Perché se la maggioranza della popolazione dovesse decidere per un No, questo sarà la prima pietra per una fine della dittatura di Erdoğan in Turchia e farà di nuovo fiorire in Turchia le speranze in una democratizzazione.
Ma non dobbiamo cadere nella supposizione che il presidente turco nel caso di un No seppellirà la sua agenda fino a nuovo ordine. Sembra piuttosto che Erdoğan cercherà in ogni caso di restare aggrappato alla sua poltrona. Molte aree inoltre partono dall’idea che la guerra contro i curdi continuerà ad intensificarsi anche nel caso di un No nella giornata referendaria. Già ora i rappresentanti dell’AKP annunciano che un possibile No porterà a una guerra civile in Turchia. Ma in questo caso probabilmente si tratta di qualcosa di più di minacce da campagna elettorale, perché i seguaci dell’AKP hanno già apertamente iniziato ad armarsi. Il tutto da l’idea di preparativi di una guerra civile annunciati a gran voce.
Ma un forte No infliggerebbe un duro colpo ai piani per una dittatura di Erdoğan. Per questa ragione si mobilitano le aree più diverse che prendono posizione contro le modifiche costituzionali e cercano di tenere testa insieme al loro seguito ai tentativi di intimidazione dell’AKP. Se l’opposizione democratica in questi tempi difficili dovesse riuscire a spuntarla con un No forte, questo darà in ogni caso un forte impulso alla speranza di tempi migliori in Turchia.
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