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Una capra e un pistillo di zafferano: la strada (difficile) per uscire dalla segregazione

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27esimaora Federica Villa, 9 gennaio 2018

foto afghanistnUna capra e un campo di zafferano. Per le donne che vivono in Afghanistan possono essere strumenti di emancipazione. E di riscatto. Possedere una capra significa avere latte, da bere e da vendere. Coltivare pistilli, vuol dire praticare una professione e ricavarne un guadagno. Obiettivi che sono stati quasi inimmaginabili per le afghane cresciute sotto il regime talebano che – dal 1990 al 1996 – le bandì dalle università, proibì loro di lavorare fuori casa, di essere visitate da medici uomini, di truccarsi con rossetto o smalto obbligandole a indossare il burqa. Essere indipendenti, ora, non è più vietato. Così, la Costa Family Foundation ha deciso di aiutare le donne del territorio attraverso due progetti apparentemente semplici. La fondazione nasce nel 2007, partendo dal presupposto che «il mondo gira, e per milioni di persone gira con estrema fatica. Alleviare il peso di questa fatica si può, anche attraverso piccole azioni quotidiane». Il primo progetto per le donne afghane arriva qualche anno dopo, nel 2014.

Si chiama Una capra per una donna afghana e ha un obiettivo preciso: restituire dignità, autostima e futuro alle donne coinvolte direttamente che via via ne coinvolgeranno altre. Sono state individuate alcune donne nelle province di Kabul e di Parwan ed è stata affidata loro una capra da latte. Chi riceve il “dono” avrà circa dai 3 ai 5 kg di latte al giorno. Parte può essere venduto: 1 litro di latte si vende a circa 50 Afghani cioè a 70 centesimi di euro. Il resto nutre le famiglie. Ogni beneficiaria, poi, prende un impegno: quando nascono i capretti, dovrà donarli ad altre donne, creando così una catena.

La parte più problematica del progetto, sta nella consegna della capra. Anche di questo si occupa una donna, Carla Dazzi. «Gira per il Paese protetta da una scorta armata di dieci persone», spiega Elide Pizzinini, responsabile della Costa Family Foundation.

I rischi legati alla sicurezza in Afghanistan non riguardano solo la consegna delle capre. Anche per allestire il campo di zafferano da far coltivare alle donne, si è dovuto pensare a un sistema di protezione. Sono ancora molti gli uomini che non accettano che le loro mogli, sorelle o figlie possano lavorare. E il rischio di attacchi nella zona prescelta è alto. Per questo l’area è protetta. In un primo momento, il campo era stato preparato, ma le minacce dei talebani e la paura legata a Isis nella zona aveva costretto la fondazione e le donne coinvolte a rinunciare. «Poi ci siamo detti ‘dobbiamo farcela’, e abbiamo trovato un’altra zona, vicino a Herat», racconta Elide Pizzinini, «abbiamo riorganizzato tutto velocemente». Così è arrivata la prima raccolta: 400 grammi di zafferano, «ma le donne che avevamo coinvolto erano deluse, volevano fare di più». Il numero di bulbi necessari per 1 jerib (0,2 ettari) e il prezzo di 1kg di bulbi, varia molto in base alla qualità e alla stagione. Normalmente a Herat i contadini piantano da 600 a 700 kg di bulbi per 1 jerib, con un costo medio per un bulbo di buona qualità di 5,3 €/kg. Grazie ad alcuni di questi contadini, che hanno scelto di sostenere l’iniziativa, e è stato possibile lanciare il progetto pilota, chiamato simbolicamente Giallo fiducia. I un Afghanistan dove le donne faticano ancora a trovare la loro indipendenza, ci sono anche uomini pronti a sostenerle. «Abbiamo dovuto trovare uomini disponibili a formare le lavoratrici che avrebbero preso parte alla coltivazione, e abbiamo dovuto trovare donne disposte a rischiare. Hanno dovuto dire alle loro famiglie che sarebbero andate a lavorare e alcune, per poter partecipare, fanno chilometri, ogni giorno», spiegano dalla fondazione. Giallo speranza è partito grazie al supporto di RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan) e dell’Associazione Gruppi Insieme si può di Belluno. Coinvolge 12 donne che hanno dai 17 ai 52 anni di età.

Le loro storie sono raccolte in report che descrive un Afghanistan povero e dove, secondo Amnesty International, nel 2016 sono state uccise 11.418 persone e sono stati registrati 3.700 casi di violenza contro donne e ragazze nei primi otto mesi dell’anno. Nel riportare le loro storie non si possono usare i veri nomi delle protagoniste: le esporrebbe a un rischio troppo alto. La più giovane, una 17enne, ha scelto di coltivare zafferano perché doveva prendersi cura della sua numerosa famiglia, costituita da dieci membri e con un padre invalido. Durante la coltivazione, è stata incoraggiata a proseguire gli studi terminando il liceo. Le più anziane hanno storie molto diverse. La prima, ha aderito al progetto perché troppo povera per mandare la figlia maggiore all’università. Lavorare glielo ha permesso. La seconda aveva perso il suo lavoro come donna delle pulizie perché troppo vecchia e dalla salute fragile. Aveva cercato a lungo un nuovo impiego, ma nessuno glielo aveva dato. Il marito era malato e in casa c’erano sette figli da mantenere. Con il lavoro nel campo, spera di ripagare i debiti che si sono accumulati negli anni. «Lo scopo è quello di rendere queste donne autosufficienti, nel corso del tempo. Le allontaniamo dalla coltivazione dell’oppio – molto diffusa nel Paese – e diamo loro una professione. Le formiamo, perché si specializzino nella conoscenza dello zafferano», spiegano dalla fondazione. Perché la strada verso un futuro diverso, si misura anche da un litro di latte di capra, o in chilogrammi di pistilli di zafferano.

 

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