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8 Marzo: Oggi, a Kabul, non c’e’ niente da festeggiare per le donne

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Cristiana Cella, 8/3/2017 – Kabul, Delegazione CISDA in Afghanistan.

Weeda Ahmad in un comizio 150x150Le militanti di Rawa, la più forte e antica organizzazione delle donne, arrivano da tutte le province dell’Afghanistan, per la riunione semestrale. Si abbracciano, si siedono in circolo, davanti a una tazza di tè. Hanno tanto da dire alle loro compagne e il tempo è poco. Viaggiano per dieci, venti ore, vestite poveramente, coperte dal burka, senza documenti e con a fianco il marito o il padre. Il rischio è molto alto. I posti di blocco, continui.

Se hai una faccia o un vestito sospetto, il gruppo fondamentalista di turno, ti prende e ti porta via. L’esecuzione è quasi certa. Ridono, con la consueta ironia, sui loro travestimenti salva vita. Vengono a raccontare la situazione delle diverse zone e il loro lavoro clandestino, a confrontarsi con le altre. Etnie e età diverse, foulard in testa, sguardo deciso, gesti sicuri, consapevoli dell’importanza di quello che fanno. Ragazze giovani e donne mature, sono tutte insegnanti, una psicologa. È questo l’unico canale per raggiungere le donne, parlare con loro, conquistare la loro fiducia. Aprire un piccolo varco nelle loro vite blindate. Far loro capire che un’altra vita è possibile, che hanno dei diritti e che possono combattere per averli. Illuminare uno spazio quotidiano, gettare dei semi. Le donne afghane sanno farne buon uso.

Nelle province in mano ai talebani, come Paktia, racconta Amina, le scuole sono pochissime, sempre sotto attacco. Veleno per topi nell’acqua, gas, assalti, sono all’ordine del giorno. Le ragazzine sono vendute in matrimonio dai 7 ai 14 anni. Dopo, nessuno le vuole più. Hanno prezzi diversi, come per gli animali, a seconda della forza, della salute, della bellezza. Si vendono per riparare un torto o per accordi tra famiglie. La scuola finisce presto. Saranno chiuse in casa, nessuno le dovrà più vedere, nascoste sotto I sette veli della tradizione, sette separazioni, vestiti, tende, muri. Chi arriva all’Università ci deve andare col burka. A Nangahar ci sono anche i distretti in mano a Daesh. Lì la vita è ancora più dura che sotto I talebani. Uccidono per poco.

 

Hanno distribuito delle carte d’identità elettroniche. Se, quando ti fermano, non l’hai con te, la tua vita finisce lì. Per qualsiasi cosa, si chiede Il loro permesso. Decidono perfino i matrimoni. Il fondamentalismo islamico ha impregnato tutti i più piccoli aspetti della vita. Gruppi di donne sono mandate in Pakistan, a studiare nelle madrassa e tornano, come professioniste della propaganda, per lavare i cervelli delle altre. A Farah, racconta Sahar, la vita è scomparsa. Nessuno si muove, tutto bloccato. La guerra è ovunque. Talebani, Daesh, truppe del governo si contendono il terreno. A Bamyan le donne hanno voglia di studiare, la gente e’ aperta, assetata di futuro. Ma non c’è niente. Ne’ scuole, ne’ ospedali, né lavoro, una delle regioni più povere del paese.

Dove invece, è il governo a controllare città e province, la vita non è migliore. Anzi. Governo significa partiti fondamentalisti. I cosiddetti jihadi, criminali di guerra, del tempo della guerra civile degli anni ’90, schiacciano la popolazione con una violenza dissennata e senza regole.

Polizia e milizie private sono al loro servizio. Diversi partiti, capi, commander, che si azzannano tra loro, accumulano soldi, col fiorente traffico di droga, li spediscono all’estero, insieme ai loro figli, perché continuino il loro lavoro, magari in perfetto inglese. Da Jallalabad, ad esempio, racconta Seema, molti scappano per vivere nelle zone in mano ai talebani. Scelgono il meno peggio. Lei ha studiato lì, la seconda Università del paese. Le donne non devono mostrare nemmeno un pezzetto di pelle, devono portare perfino i guanti. Ha provato a leggere poesie con le altre studentesse di letteratura. E’ stata minacciata, ha dovuto smettere. La voce delle donne non si deve sentire.

Nel nord la situazione è diversa. I talebani non ci sono, né Daesh. Il fondamentalismo non ha ancora corroso la mente delle persone. Sono aperte, vogliono studiare, soprattutto le donne. Warlords, come Dostum, Atta o altri comandanti dell’Alleanza del Nord, partito del presidente Abdullah, governano con la paura. Check point ogni cento metri, le milizie controllano ogni movimento. Né leggi, né protezioni. Stupri, rapimenti e uccisioni di donne sono all’ordine del giorno. Nessuno punisce. L’illegalità è legge.

A Takar, Nargez, laureata in legge, racconta Fatima, non trovava lavoro. Si presenta da Piram Gul, potentissimo jihadi, perché l’aiuti a trovarlo. Lui, le mette in mano una lettera di minacce per il padre, con un pacco di banconote: o gliela venderà in moglie, la dodicesima, oppure lo ammazzerà. Il padre tiene I soldi e lascia la figlia. Sarà questo, d’ora in poi, il suo posto di lavoro.

Ma qui le donne cercano di resistere, alla violenza, alla droga, alla brutalità. Sono assetate di vita, di istruzione, di giustizia. È un terreno fertile per il lavoro capillare e paziente di Rawa, che parte dalle scuole e si allarga alle famiglie. Risolvono problemi, aiutano, si conquistano la fiducia. La gente, qui, le ascolta volentieri, legge le loro pubblicazioni. Si riuniscono nelle case private, discutono, raccontano se stesse. Un uomo potente della provincia, mesi fa, ha violentato una ragazzina. Le donne sono scese in piazza. Sono state attaccate ma hanno resistito. E sono riuscite a cacciare lo stupratore dalla loro provincia.

No, non c’è niente da festeggiare a Kabul. Mentre scrivo, poche strade più in là, sembra a Darulaman, nel centro della città, ci sono stati due attacchi stamattina. Ancora non si sa niente delle vittime. La capitale porta ancora l’impronta della Guerra civile. I warlords controllano ognuno il suo quartiere, con le milizie e le loro gangs mafiose. La polizia è al loro servizio. La sicurezza un problema sempre più grosso. Le armi sono ovunque. Gli uomini le lasciano all’entrata del supermercato e le riprendono dopo la spesa. “Quando si esce al mattino non si sa mai se si torneraà la sera.” Raccontano con un’alzata di spalle.

Ma l’8 marzo, qui si celebra lo stesso. Organizza Hambastagi, l’unico partito progressista e laico del paese. Aspettano più di cento persone, donne ma anche uomini, attivisti e simpatizzanti di molte organizzazioni. La città è blindata. Una cerimonia in grande stile, per commemorare la morte di Fahim, potente e feroce jihadi. Il governo ha bisogno di propaganda per i suoi uomini forti, I fedeli alleati degli americani che controllano il paese attraverso di loro, riempiendoli di armi e dollari.

“L’8 marzo, dice Heela, militante di Rawa, serve a ricordarci le vittorie delle donne. Se loro ce l’hanno fatta ce la faremo anche noi. Ci vorra’ tempo, molto tempo, ma le cose cambieranno per le donne del nostro paese.. Oggi vogliamo sentirci insieme, rafforzare il coraggio per continuare a combattere, con le armi della consapevolezza e con la forza della vita stessa. Non permetteremo all’oppressione, che ci accerchia da ogni parte, di schiacciarci. La nostra resistenza e’ quotidiana.”

La riunione e’ finita. Le militanti di Rawa hanno fretta di tornare alle loro case, al lungo viaggio di ritorno. Si coprono, escono veloci, prima che il buio svuoti la cittaà. Sono felici di averci affidato i loro racconti, le loro sfide quotidiane, nella clandestinità, per dare speranza e strumenti alle donne del loro paese. Stare al loro fianco è la nostra promessa.

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