Le loro vite preziose: L’Unità e i diritti delle donne afghane
Di Cristiana Cella – 8 ottobre 2012 – Unità.it
Il progetto «Vite Preziose» ha compiuto un anno. Un anno nel quale siamo entrati nella vita di 20 donne afghane, vittime di ogni tipo di violenza, non solo raccontando le loro sconvolgenti storie, ma chiedendo ai lettori il loro impegno per cambiarle.
Perché, a volte, testimoniare non basta, è solo il primo passo. La solidarietà di chi ci ha sostenuto ha dato vita a un percorso comune: mese dopo mese, bambine, ragazze, madri hanno potuto contare sul sostegno economico di donne e uomini italiani. Così hanno potuto evitare matrimoni e prostituzione forzati, fuggire dagli abusi quotidiani. Hanno avuto la possibilità di curarsi, per la prima volta, hanno tolto dalla strada i loro figli, mandandoli a scuola. Oggi le emergenze più gravi sono state risolte ma la strada è ancora lunga e i nostri sponsor hanno deciso di continuare a percorrerla insieme, accompagnandole per un altro anno.
Per informazioni scrivete a vitepreziose@gmail.com
Selay Ghaffar, direttrice esecutiva della ong afghana, eletta rappresentante della società civile alle conferenze internazionali, è una delle voci più importanti dell’Afghanistan che si batte per i diritti umani. Una giovane donna che porta avanti il suo coraggioso lavoro da quando aveva 13 anni. In questi giorni è in Italia, invitata dalla Ong italiana Cospe, che sostiene il nostro progetto, per alcuni incontri con i suoi numerosi sostenitori italiani. E’ stata ospite, ieri, della redazione dell’Unità, dove ha voluto personalmente ringraziare il direttore e alcuni lettori.
COME CONTRIBUIRE AL PROGETTO
Come sta funzionando «Vite Preziose»?
«È un progetto importantissimo per noi, perché è un aiuto diretto, che ci permette di intervenire immediatamente e dà alle nostre donne, in gravissime difficoltà, la migliore opportunità per cambiare la loro vita. Si tratta di persone che aiutano altre persone, noi siamo solo un ponte tra di loro. Le donne sentono che qualcuno comprende i loro problemi, dà valore e rispetto alla loro sofferenza. Questo legame è una forte spinta a superare i grandi ostacoli che hanno di fronte. Per questo vogliamo rafforzarlo, sono proprio le donne a chiederlo».
Come pensi di farlo?
«Ad esempio organizzando degli incontri via skype, quando è possibile, perché possano conoscersi, mandando agli sponsors delle foto e raccogliendo puntualmente, ogni mese, gli aggiornamenti sulla loro vita».
Come si svolge il vostro lavoro per le donne aiutate dai lettori?
«Solo poche hanno la possibilità di venire direttamente al nostro ufficio. Nella maggior parte dei casi, siamo noi ad andare da loro, a volte in piccoli villaggi, lontani. La responsabile del progetto consegna il denaro, controlla come stanno. Spiega che questo sostegno non è una donazione e basta. È uno strumento di cambiamento, in cui si devono impegnare tutti, le donne, combattendo per i loro diritti e la propria autonomia ma anche la famiglia. È indispensabile il loro coinvolgimento e quello della comunità: padri, mariti, capi villaggio, devono diventare consapevoli dei diritti delle donne e delle bambine, dell’esistenza di leggi che le proteggono».
C’è stato qualche miglioramento nella condizione delle donne?
«No, purtroppo la violenza è in crescita ovunque. Nell’ultimo anno, sono aumentati i casi di stupro, soprattutto da parte della polizia, dei comandanti locali, dei figli di membri del Parlamento. Chi ha potere si sente sicuro. Sono aumentati anche i suicidi per autoimmolazione e i casi di violenza domestica. Continuiamo a ricevere casi come quello di Sahar Gul, la ragazzina violentata e torturata, che ha avuto molta eco sui media. E spesso ci sentiamo impotenti».
Da cosa dipende questo peggioramento?
«Non abbiamo un sistema che faccia applicare le leggi dello Stato che proteggono le donne. I responsabili di questi delitti non sono puniti e l’impunità moltiplica la violenza».
Questo è un punto centrale della vostra battaglia?
«Sì, il rispetto delle leggi è l’unica arma che abbiamo per fermare la violenza. Molte persone, specialmente nelle province, non sanno nemmeno che esistono, anche le donne, spesso, non conoscono i propri diritti. Ci vuole un’educazione alla legalità. Dobbiamo fare pressione su tutti gli attori in gioco, a tutti i livelli, dal governo fino all’ultimo poliziotto».
Perché accade questo in Afghanistan, dopo 11 anni di presenza internazionale?
«La comunità internazionale non è onesta con le donne afghane. Nessuna delle nazioni coinvolte ha preso davvero sul serio questo impegno, le promesse non bastano. Da 11 anni arrivano in Afghanistan miliardi di dollari ma le donne continuano a soffrire e a combattere per i loro elementari diritti. È evidente che qualcosa non va».
Cosa si può fare?
«Bisogna dire con chiarezza che parte di questi fondi siano vincolati ai programmi a favore delle donne: per contrastare la violenza, per l’istruzione, per il diritto alla salute. E costringere il governo afghano a rispettare gli impegni. Non devono più poter usare il denaro come vogliono. Altrimenti si sostiene solo la corruzione».
È un appello anche al governo italiano?
«Certo. Ultimamente il vostro governo ha promesso di impegnarsi in questo senso. Questo ci fa sperare che qualcosa cambi. Ma la vigilanza e la pressione dei cittadini italiani sono molto importanti». Hai un messaggio per i nostri lettori? «Ringrazio con tutto il cuore chi, con la sua solidarietà, continua a permettere il successo del progetto. Ci confrontiamo ogni giorno con storie durissime e vorremmo che altre donne avessero quest’opportunità di riscatto. Spero quindi che i nostri sostenitori, tramite l’Unità, possano aumentare».
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