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LE DONNE SCOMPARSE DELL’AFGHANISTAN

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THE NATION – Articolo di Ann Jones

afghanistan womens rights ap imgDimostrazione di protesta a Kabul contro la violenza sulle donne

Dopo 13 anni di guerra le donne afghane stanno ancora lottando per i diritti umani basilari

Per la prima volta in 13 anni il potere in Afghanistan è passato di mano. All’Arg, il palazzo presidenziale di Kabul, Ashraf Ghani si è insediato come nuovo presidente, mentre l’uscente Hamid Karzai osservava tranquillamente in prima fila.

Washington, auto-congratulandosi per questa “pacifica transizione”, ha velocemente ottenuto la firma del nuovo presidente su un accordo di sicurezza bilaterale che assicura la presenza delle forze americane in Afghanistan per almeno un’altra decade.

La grande notizia del giorno: gli Stati Uniti hanno ottenuto ciò che volevano. (Per essere precisi, il motivo per cui gli Americani dovrebbero gioire del fatto che i loro soldati rimarranno in Afghanistan per altri dieci anni non è mai stato spiegato).

Per gli Afghani la grande notizia del giorno era piuttosto diversa: non si trattava della prevista e lunga continuazione dell’occupazione americana, ma di ciò che il nuovo presidente aveva detto su sua moglie, Rula Ghani, nel suo discorso d’inaugurazione. Fissando lo sguardo su di lei, seduta fra il pubblico, l’ha chiamata per nome e ha lodato il suo lavoro con i rifugiati, comunicando che avrebbe continuato questo lavoro anche durante la sua presidenza.

Questi brevi commenti hanno mandato in estasi le donne afghane progressiste. Hanno aspettato 13 anni per sentire queste parole – parole che potrebbero aver cambiato il corso dell’occupazione americana e il futuro dell’Afghanistan se solo fossero state pronunciate nel 2001 da Hamid Karzai.

No, non sono parole magiche. Semplicemente riflettono i valori di una considerevole minoranza delle popolazione afghana e probabilmente della maggioranza degli Afghani esiliati in occidente. Rendono anche l’idea del perché gli Stati Uniti si auto-incensino per aver sostenuto questa motivazione – anche se generalmente agiscono contro di essa – che George W. Bush ha citato come parte della sua giustificazione per aver invaso l’Afghanistan nel 2001.

 

il popolare motivo-truffa di questa invasione, se vi ricordate, era un concetto per il quale gli uomini americani non avevano mai mostrato molto entusiasmo: la liberazione delle donne. Per anni, le organizzazioni per i diritti umani di tutto il mondo avevano evidenziato la drammatica condizione delle donne afghane, confinate nelle loro case dal governo talebano, private di educazione e assistenza medica, frustate nelle strade da comitati auto-proclamatisi per “la promozione della pubblica virtù e la prevenzione del vizio”, e in alcuni casi giustiziate allo stadio Ghazi di Kabul. Considerata la terrificante situazione, in pochi avrebbero potuto immaginare un presidente americano, per giunta repubblicano, sventolare una bandiera femminista per coprire l’invasione di un paese colpevole principalmente di aver accolto un ospite così intrigante.

Mentre George W. Bush si vantava di liberare le donne afghane, la sua amministrazione di fatto seguiva un programma piuttosto diverso. Nel dicembre 2001, durante la conferenza di Bonn tenutasi per instaurare un governo ad interim in Afghanistan, la sua squadra valutò che il nuovo leader del paese avrebbe potuto essere l’apparentemente malleabile Hamid Karzai, un Pashtun conservatore che, come qualsiasi talebano, teneva sua moglie, la Dott.ssa Zinat Karzai, confinata a casa. Prima di sposarsi nel 1999, era stata una ginecologa attiva ed esperta, disperatamente necessaria per diminuire il tasso abissale di mortalità materna del paese; tuttavia, in seguito divenne la più illustre donna afghana che la liberazione di Bush non riuscì a raggiungere.

Questa discrepanza tra il super-pubblicizzato sostegno di Washington ai diritti delle donne e il suo reale disprezzo per loro, non passò inosservata fra gli astuti Afghani. Fin dall’inizio si resero conto che gli americani erano profondamente ipocriti.
Washington ha rivelato il suo vero volto anche in altri modi.

Durante la guerra civile degli inizi degli anni ’90 che precedette la presa di potere dei Talebani, i signori della guerra afghani avevano devastato il paese commettendo atrocità di massa, meglio definite come crimini contro l’umanità. Nel 2002, l’anno dopo l’invasione americana e la caduta dei Talebani, la Commissione Indipendente Afghana per i Diritti Umani riscontrò che il 76% della popolazione richiedeva che questi signori della guerra venissero processati come criminali di guerra e il 90% voleva che fossero interdetti dalle funzioni pubbliche.

Tuttavia, alcuni di loro erano fra i favoriti di Washington, che aveva profumatamente pagato i Jihadisti islamici durante la guerra contro l’Unione Sovietica negli anni ’80. Di conseguenza, l’amministrazione Bush guardò da un’altra parte quando Karzai diede il benvenuto a questi uomini “di esperienza” nel suo parlamento e nella “nuova” magistratura. “Impunità” era la parola d’ordine. Il messaggio non avrebbe potuto essere più chiaro: con i giusti collegamenti, una persona poteva sempre farla franca nonostante i crimini commessi, dalle atrocità su scala industriale all’abituale soggiogamento delle donne.
Nell’attorcigliata natura delle relazioni tra America e Afghanistan degli ultimi 13 anni, c’è ben poco che non riconfermi che gli Stati Uniti non hanno messo in pratica ciò che hanno predicato e che l’uguaglianza e la giustizia erano poco più che slogan come, di fatto, lo era la democrazia.

Prendere le parti
L’abitudine americana di pensare solo a breve termine ha anche influenzato i risultati a lungo termine in Afghanistan. I leader militari e politici di Washington si sono sempre focalizzati solo sugli eventi dell’immediato, quelli che invariabilmente facevano sorgere paure e sembravano richiedere (o fornivano la scusa per richiedere) un’azione immediata. I lunghi, tortuosi e confusi percorsi della storia e della cultura sono rimasti inesplorati. Così l’amministrazione Bush ha etichettato i Talebani come nemici, li ha tolti dal potere, ha instaurato la “democrazia” per decreto e, incidentalmente, ha detto alle donne di togliersi il burqa. Missione compiuta!

Tuttavia, a differenza degli Americani e dei loro partner della coalizione, i Talebani non erano degli intrusi stranieri ma degli Afghani. E non erano nemmeno un gruppo isolato, bensì l’ala destra del conservatorismo islamico afghano. Di conseguenza, semplicemente rappresentavano, e continuano a rappresentare anche oggi in forma estrema, la frangia conservatrice di una parte significativa della popolazione che resiste da sempre al cambiamento e alla modernizzazione.

Tuttavia, la loro non è l’unica tradizione afghana. Molti governanti progressisti e cittadini culturizzati hanno cercato di portare il Paese nel mondo moderno. Quasi un secolo fa, il Re Amanullah fondò la prima scuola superiore per ragazze e il primo tribunale per la famiglia che si occupava delle proteste delle donne nei confronti dei mariti; egli proclamò l’uguaglianza fra uomini e donne e vietò la poligamia. Eliminò il burqa e bandì i Mullah islamici e ultra-conservatori definendoli “persone cattive e malvage” che diffondevano una propaganda straniera contro gli ideali Sufi e moderati del Paese. Da allora altri governanti, sia re che funzionari, hanno caldeggiato l’educazione, l’emancipazione delle donne, la tolleranza religiosa e quei concetti legati ai diritti umani comunemente associati all’occidente. Nonostante le limitazioni che possa incontrare all’interno del contesto afghano, anche questo pensiero progressista è da considerarsi “tradizionale”.

La disputa storica fra queste due tradizioni raggiunse l’apice nel 1980 durante l’occupazione sovietica. Allora furono i Russi a sostenere i diritti delle donne e l’educazione delle ragazze, mentre Washington fondava una setta di gruppi islamici particolarmente estremisti in esilio in Pakistan. Solo pochi anni prima, a metà degli anni ’70, il presidente afghano Mohammad Daud Khan, sostenuto dai comunisti afghani, aveva espulso dal paese i leader islamici radicali, proprio come il Re Amanullah aveva fatto prima. Fu la CIA, collegata ai servizi d’intelligence pakistani e dell’Arabia Saudita, che diede loro le armi e li riportò nel paese mentre il Presidente Ronald Reagan li celebrava come “combattenti della libertà”: si trattava dei mujahidin.

Vent’anni dopo sono di nuovo gli Americani, capeggiati ancora dalla CIA, che li riportano nuovamente nel paese. La storia può ringhiare, in particolare quando il potere non è previdente.

Non si sa se per ignoranza o intenzionalmente, negli anni 2001-2002, al culmine del loro trionfo in Afghanistan, gli Stati Uniti cercarono di dominare entrambe le strade. Da una parte sventolavano la bandiera progressista dei diritti delle donne, mentre dall’altra installavano un governo presidenziale potente e altamente centralizzato, prontamente consegnato nelle mani di un conservatore che ha dato ben poca considerazione alle donne. Detenendo per 13 anni il potere assoluto nell’eleggere ministri, governatori provinciali, sindaci e quasi tutte le altre cariche pubbliche, il Presidente Karzai raggiunse il record, consistente e quasi perfetto, della scelta di soli uomini.

Quando fu chiaro che non gli importava nulla dei diritti delle donne, le minacce contro coloro che avevano preso seriamente il tema di Washington sulla “liberazione” ebbero subito inizio.
Le donne che in carica presso ONG nazionali e internazionali, agenzie governative e scuole trovarono sui cancelli degli edifici in cui lavoravano messaggi anonimi – definiti “lettere notturne” – che descrivevano con dettagli raccapriccianti come sarebbero state uccise. Ricevettero su Facebook o sui loro cellulari video di uomini che stupravano ragazze. Poi iniziarono le uccisioni: poliziotte, funzionarie provinciali, lavoratrici umanitarie, insegnanti, studentesse, conduttrici di programmi radio o TV, attrici, cantanti – l’elenco sembrava infinito. Si potrebbe affermare che alcune sono state “più che uccise”: violentate, picchiate, strangolate, ammazzate con armi o coltelli e poi appese ad un albero, giusto per puntualizzare. Anche se diversi gruppi di uomini vennero denunciati per questi omicidi, nessuno di loro fu incarcerato o processato.

Nonostante ciò, l’amministrazione Bush continuava a vantarsi del fatto che c’erano molte più ragazze che frequentavano le scuole e dei miglioramenti nell’ambito sanitario con una riduzione della mortalità materna e infantile. Il progresso era lento, precario e sempre descritto in modo esagerato, tuttavia reale. Sotto la supervisione di Barack Obama, la segretaria di stato Hillary Clinton rinnovò le promesse americane alle donne afghane. Giurò ripetutamente che non le avrebbe mai abbandonate, benché si ricordasse raramente di invitare qualcuna di loro alle conferenze internazionali in cui gli uomini discutevano del futuro del loro paese.
Nel contempo, Karzai continuava ad approvare leggi che ponevano ulteriori restrizioni sui diritti delle donne, evitando invece di mettere restrizioni sulla violenza nei loro confronti.

Solo nel 2009, dietro l’instancabile pressione delle organizzazioni delle donne afghane e di molti dei paesi che fornivano aiuti economici, Karzai emise un decreto legge per “l’eliminazione della violenza contro le donne”. Questo decreto bandiva 22 azioni contro le donne e le ragazze, inclusi lo stupro, la violenza fisica, i matrimoni infantili e quelli forzati. Tuttavia, le donne continuano a riferire di livelli sempre più crescenti di violenza e ben poche di loro sono state protette da questa legge. Proprio come la costituzione afghana che afferma che uomini e donne sono uguali, la protezione teoricamente potente dell’EVAW (End Violence Against Women International) è quasi esclusivamente sulla carta.

Dopo questa unica concessione fatta alle donne, Karzai le spaventò nuovamente attraverso le negoziazioni per la pace con i Talebani. Nel 2012, forse per tenere buoni quelli che definiva i suoi “fratelli arrabbiati”, promosse anche un “codice di condotta” emesso da un potente gruppo di religiosi ultra-conservatori, il Consiglio degli Ulema. Il “codice” autorizza le percosse alle mogli e la segregazione dei sessi, e sottolinea che nel grande panorama generale “gli uomini sono fondamentali e le donne sono secondarie”. Washington era già arrivata ad una conclusione simile.
Nel marzo del 2011, infatti, uno spiritoso anonimo funzionario portavoce della Casa Bianca riferì alla stampa che, nella stesura dei contratti relativi ai più importanti progetti di sviluppo in Afghanistan, il Dipartimento di Stato non aveva più incluso provvedimenti che riguardavano i diritti delle donne e delle ragazze. “Tutti quei sassolini nel nostro zaino” affermò, “ci stavano appesantendo”. Scaricando le donne, l’amministrazione Obama si collocò ancora una volta e ormai definitivamente dalla parte delle forze ultra-conservatrici e antidemocratiche.

Perché le donne contano
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tuttavia, ha definito quei “sassolini” come le pietre più solide per le fondamenta della pace e della stabilità di qualsiasi paese. Negli ultimi decenni le Nazioni Unite, le organizzazioni che si occupano di ricerca e gli accademici che lavorano in ambiti quali scienze politiche e studi sulla sicurezza, hanno accumulato una quantità enorme di prove che documentano l’importanza dell’uguaglianza fra uomini e donne (normalmente chiamata “parità di genere”).

Le loro conclusioni definiscono il dominio storico del maschio sulla donna, rafforzato dalla violenza, come l’antico prototipo di tutte le forme di dominio e violenza e come il modello dello sfruttamento, della schiavitù e della guerra. La loro ricerca sostiene l’avveduta osservazione di John Stuart Mill, il filosofo britannico del diciannovesimo secolo, che afferma che gli uomini hanno prima imparato a casa loro e poi riversato sulle mogli la tirannia che hanno in seguito messo in pratica sulle coste straniere per ampliare e controllare l’impero britannico.

Tali conclusioni raggiunte dopo le ricerche effettuate costituiscono le basi di una serie di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite emesse dall’anno 2000 in poi, che richiedono la piena partecipazione delle donne nelle negoziazioni di pace, nei progetti umanitari e nei governi di post-conflitto. Le donne modificano le trattazioni e, mentre trasformano le relazioni impari tra i sessi, riescono a cambiare anche gli uomini, di solito in meglio. Più semplicemente, i paesi in cui le donne e gli uomini sono in posizioni di uguaglianza e rispetto tendono ad essere stabili, prosperi e in pace. Attualmente, ad esempio, la parità di genere più elevata si riscontra nei paesi nordici, che costantemente si trovano in cima all’elenco mondiale delle nazioni più felici.

Al contrario, nelle nazioni come l’Afghanistan, in cui maschi e femmine non sono sullo stesso piano e gli uomini opprimono e maltrattano costantemente le donne, è più facile che la violenza si manifesti anche fra gli stessi uomini, sia su scala nazionale che nei rapporti internazionali. Tali nazioni sono le più impoverite, violente e instabili del mondo. Si dice spesso che la povertà conduca alla violenza. Tuttavia, si può anche considerare questa affermazione da un altro punto di vista: la violenza che impedisce alla donne di partecipare alla vita pubblica e all’attività economica produce povertà e genera ulteriore violenza. Come aveva dichiarato il leader comunista cinese Mao Tze Tung: “Le donne costituiscono l’altra metà del cielo”. Se legate loro le mani, il cielo cade.

Le donne afghane hanno dimostrato tutto ciò attraverso la loro durissima esperienza. Per questo si vedevano lacrime di gioia nell’ascoltare le semplici parole di Ashraf Ghani mentre riconosceva il valore del lavoro di sua moglie. Tuttavia quel breve, stupefacente e memorabile momento è stato subito sopraffatto dalla terribile sensazione di un’opportunità perduta.

Alcuni componenti della comunità internazionale avevano seriamente preso in considerazione i diritti delle donne. Ad esempio, avevano stabilito le quote di donne in parlamento e avevano redatto “uguali diritti” all’interno della costituzione afghana del 2004. Ma cosa potrebbero mai ottenere le donne all’interno di un parlamento che pullula di signori della guerra e della droga e di “ex” talebani che hanno solo cambiato il colore dei loro turbanti? A quale tipo di “uguaglianza” possono aspirare quando la costituzione afferma, comunque, che qualsiasi legge è sottoposta alla Sharia dell’Islam, che può lasciare spazio a ogni tipo di interpretazione, anche la più estrema? Inoltre, non tutte le donne parlamentari si sono unite. Alcune sono state personalmente selezionate e i loro voti comprati a favore di uomini potenti, sia all’interno che fuori dal governo. Tuttavia centinaia o anche migliaia di donne avrebbero potuto far parte della vita pubblica afghana se gli Stati Uniti avessero fermamente sostenuto i progressisti afghani e avessero scelto un uomo diverso per guidare il paese.

I nuovi uomini al potere
Cosa dire di Ashraf Ghani, il nuovo presidente, e di Abdullah Abudllah, il “direttore generale” dello Stato? Questi due candidati erano rivali sia nelle recenti elezioni presidenziali che in quelle del 2009, quando Abdullah arrivò secondo dopo Karzai e si rifiutò di partecipare ad un ballottaggio fraudolento (nella prima tornata di elezioni gli uomini di Karzai vennero ripresi mentre manipolavano le urne elettorali).

Nelle elezioni lungamente protratte di quest’anno, il 5 aprile Abdullah risultò primo su otto candidati con il 45% dei voti. Meglio quindi del 31% di Ghani, ma poiché nessuno aveva raggiunto il 50%, occorreva il ballottaggio. Entrambi i candidati parlavano di frode. In giugno, quando Ghani raggiunse il 56% dei voti, superando il 43% di Abdullah, quest’ultimo minacciò di formare il suo proprio governo. Il segretario di stato USA John Kerry si precipitò a Kabul per “incollare” i due uomini in un vago e incostituzionale “governo di unità” che viene tuttora definito così, ma che certamente non ha niente a che vedere con la democrazia elettorale.
Entrambi gli uomini sembrano vanitosi quanto Karzai per quanto riguarda l’abbigliamento e i cappelli, ma sono decisamente più progressisti. Ghani, ex ministro delle finanze e rettore dell’Università di Kabul, è conosciuto come “la mente”. Dopo anni passati nel mondo accademico e un decennio presso la Banca Mondiale, entrò in politica con lo scopo di combattere la tristemente nota corruzione del paese. Ha già riaperto la superficiale investigazione della Banca di Kabul, un gigantesco piano piramidale che crollò dopo aver “prestato” circa un miliardo di dollari ad amichetti sia all’interno che all’esterno del governo (Ghani potrebbe essere uno dei pochi che conosce appieno l’imbroglio).

Abdullah Abdullah viene generalmente indicato come il politico più tranquillo fra i due, in un paese in cui la politica è solo questione di alleanze (e rivalità) fra uomini. Come ministro degli esterni del primo governo Karzai, incaricò una donna di tenerlo informato sugli affari femminili. Tuttavia, da allora i suoi affari privati sono diventati oggetto di scandalosi pettegolezzi. In pubblico, ha da tempo proposto di decentralizzare la struttura governativa che Washington ha imposto al paese. Il suo obiettivo è il potere in tutte le province, per rafforzare la possibilità che gli Afghani decidano autonomamente nelle loro comunità. Qualcosa di simile alla democrazia.

L’accordo fra Ghani e Abdullah richiede un’assemblea di anziani, la Loya Jirga, che si terrà “entro due anni” per definire la posizione del primo ministro, ruolo che Abdullah dovrebbe occupare. Quest’ultimo, anche prima delle sue negative esperienze con i due presidenti americani, non era d’accordo con una forma di governo presidenziale. “Un presidente”, mi disse, “diventa un dittatore”. Egli afferma che il potere appartiene al popolo e al suo parlamento.
Tutti si chiedono se questi due rivali possano veramente lavorare insieme – pare abbiano programmato tre incontri alla settimana – soprattutto ora che gli Americani e i loro alleati stanno lasciando il paese e le forze talebane aumentano gli attacchi in luoghi inaspettati. Nonostante ciò, il cambio di governo suscita ottimismo e speranza sia tra gli Afghani che tra gli osservatori internazionali.

Nel contempo molti Afghani – e in particolare le donne – sono ancora furiosi con tutti gli otto candidati alla presidenza, accusandoli di essere responsabili dell’interminabile processo elettorale che ha portato due di loro al potere. Mahbouba Seraj, ex responsabile dell’Afghan Women Network e acuta osservatrice, sottolinea che durante innumerevoli pranzi e feste notturne tenuti durante la campagna elettorale da vari importanti uomini afghani, i candidati avrebbero potuto raggiungere accordi per restringere il campo. Avrebbero potuto trovare il modo di evitare al paese i costi elevati e l’ansietà di una seconda tornata di elezioni, per non parlare dei mesi impiegati nei conteggi, con i risultati finali rifiutati dal pubblico.

Al contrario, i candidati sembravano tenere in ostaggio il paese. Le loro accuse violente e le loro minacce facevano temere una guerra civile e impaurivano le donne. “Ancora una volta”, ha scritto Seraj, “siamo state escluse dalle decisioni più importanti di questo paese. Siamo state azzittite con il mezzo più antico, più efficace e più familiare: la forza”. Ha aggiunto che ora le donne hanno paura di aprire bocca anche solo per fare “domande legittime” sulla natura di questo nuovo governo, che non sembra essere “un governo della gente” nato dalle elezioni – con la metà dell’elettorato composto da donne – ma piuttosto “un governo di coalizione, costruito dai candidati e dai mediatori internazionali”. In altre parole un governo “inscatolato” e composto da uomini.

Sapendo che molte donne sono sia impaurite che furiose con l’ego maschile che ancora domina la “democrazia” afghana, Seraj fa di nuovo un appello: “È dall’anno 2000 che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite emette una risoluzione dopo l’altra sulla piena partecipazione delle donne a tutti i livelli decisionali e in tutti i processi di pace e di ricostruzione. Ciò significa molto di più che andare a votare. Ma noi donne dell’Afghanistan siamo state escluse, annientate, azzittite dagli stessi uomini che ci hanno chiesto di votare per loro e dai loro seguaci. Questo non è ciò per cui noi donne ci siamo battute, per cui abbiamo votato e non è ciò che abbiamo sognato, e se potessimo alzare le nostre voci, non la chiameremmo certo “democrazia”.

Chiedetevelo: voi come la chiamereste?

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