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L’INCERTO FUTURO DELL’AFGHANISTAN

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L’Unità – Maggio 2013 di Cristiana Cella

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Nel caotico traffico di Kabul, tra carretti scalcagnati e fiammanti fuoristrada, nell’asfissiante polvere che si alza dal degrado delle strade, i mezzi militari Nato e Isaf non si vedono più. Target degli attacchi suicidi, che si intensificano puntualmente a primavera, rimangono chiusi nelle basi, nella superdifesa green zone, al centro della città. Solo la notte, gli elicotteri sorvolano bassi e incessanti la città. Rimane, nel cielo, l’inquietante e silenziosa presenza del pallone spia, dirigibile supertecnologico che controlla ogni angolo del territorio, registrando, con potenti zoom, la vita dei cittadini.

Gli afghani alzano le spalle: ‘E’ il nostro Grande Fratello americano.’ Restano i soldati afghani a piantonare le strade.  Sui muri della città sono comparse le scritte: ‘Yankee go home’. E l’anno che verrà vedrà appunto la partenza di gran parte del contingente Nato e Isaf. Quanti soldati resteranno e con quali compiti ancora non è chiaro. Sicuramente resteranno le basi, Karzai ne ha già concesse 9. Il 2014, a Kabul, è un buco nero che raccoglie le ferite passate e le paure del futuro. Nessuno può dire con certezza cosa succederà. Previsioni più o meno fosche e ipotesi contrastanti si accavallano.

C’è chi parla di ‘sindrome di Saigon’. Sono molti gli afghani che vendono case e proprietà, trasferiscono i soldi e si preparano a scappare. Ambasciate e Ong straniere concedono visti ai loro dipendenti afghani. L’immenso boom edilizio si sgonfia rapidamente. Ha riempito la città di grattacieli di vetro verde, le Wedding Hall, per il lucroso business dei matrimoni, e di ville di lusso, difese dai soldati, con colonne dorate e aquile, in stile, cosiddetto, ‘narco-barocco’. Si vende e i prezzi crollano. Molti degli innumerevoli cantieri che sorgono come funghi a ogni angolo di strada, sono abbandonati. La mattina presto, giovani e anziani aspettano il caporale con gli strumenti di lavoro caricati sulle biciclette. Sono spesso delusi e la disoccupazione, già altissima, continua a crescere. Nessuno investe più e la ricaduta economica si sente.

Non sono tanto i talebani a spaventare quanto piuttosto lo strapotere di warlords e druglords, che siedono in Parlamento e controllano ognuno la propria provincia, con armi, denaro, milizie private, corruzione e prigioni personali. Ben armati e ingrassati dagli aiuti stranieri e dai proventi del traffico di eroina, difficilmente saranno controllabili. Nei loro ‘feudi’ vige la legge della giungla, espropriano le terre, commettono brutalità di ogni genere, in particolare contro le donne, e i loro crimini restano impuniti. “Non abbiamo paura dei talebani – dice  Naim Nazari, direttore del network Civil Society and Human Rights Organization- perché sappiamo che non hanno la forza per prendere il potere dopo il’14.

I warlords politici che hanno in mano il governo sono molto più pericolosi. A garantire la sicurezza, secondo l’exit strategy, dovrebbero essere le Forze di sicurezza afghane. Ma nessuno scommette sulla tenuta di Esercito e Polizia, nessuno si fida. Molti di loro sono responsabili di abusi contro i civili.

Temiamo- continua Nazari- che possano diventare delle truppe private, una sorta di ‘contractors’ al soldo dei warlords e che magari distribuiscano armi ai loro sostenitori. Portano la stessa divisa ma obbediscono ai propri capi.’ L’esercito è diventato infido anche per le truppe Nato. I cosiddetti attacchi ‘green on blue’, dei militari afghani contro i loro istruttori Nato e Isaf, continuano ad aumentare, l’ultimo il 4 maggio scorso. Non solo ad opera d’infiltrati talebani. Sono anche l’espressione di una rabbia popolare in crescita contro i raid notturni e le vittime civili provocate dai bombardamenti Nato. Per la gente, spesso, diventano degli eroi. Secondo i dati di Emergency, nelle zone dove il passaggio delle consegne c’è già stato, gli scontri sono aumentai del 28% rispetto all’anno scorso. Dopo il ’14, saranno più probabili lungo le linee di confine etnico e geografico, tra le diverse zone di influenza.

Per prepararsi, hanno costruito nuove cliniche, nei posti strategici. Ma c’è chi non crede affatto a cambiamenti catastrofici, come Basir di Saajs, gruppo che lavora per la  giustizia transizionale: “Non ci aspettiamo grossi cambiamenti. Gli americani resteranno, anche se con meno soldati, e continueranno a controllare il paese attraverso un nuovo governo fantoccio, che coinvolgerà Talebani e Hesb-e-Islami. Se vorranno dividersi la torta degli aiuti stranieri dovranno stare insieme.” Ma, si sa, le alleanze, da queste parti, non durano molto. Sulla trasparenza delle elezioni presidenziali, fissate per l’anno prossimo, gli afghani non si fanno più illusioni.

Si aspettano elezioni pilotate, con brogli e mazzette, come e peggio di quelle passate. “Questo spauracchio della guerra civile e del revival talebano è solo una propaganda per spaventare la gente- sostiene Malalai Joya, tenace e coraggiosa voce democratica del paese, cacciata dal parlamento nel 2003 per i suoi attacchi ai Warlords- Serve a far accettare la presenza delle basi americane e il controllo che manterranno. La guerra civile c’è anche adesso, come c’è stata in questi undici anni.” Ma gli onnipotenti warlords, contro cui pochi osano alzare la voce, dopo una lunga vita piena di sangue e di dollari, al sicuro nelle banche straniere, cominciano ad invecchiare. La nuova generazione, nella cui educazione all’estero, i padri hanno molto investito, potrebbe avere un ruolo nel futuro dell’Afghanistan.

“Ci ritroveremo un sistema dinastico- dice il dott. Afizullah, dirigente di Hambastagi, il Partito della Solidarietà- una sorta di monarchia ereditaria a più teste, i figli sostituiranno i padri. Con una faccia più presentabile, senza barba, stringeranno la mano alle donne, ma la sostanza non cambierà.

Chi viene dalla base, dalla società civile, resterà ancora fuori gioco.” Quello che è certo è che per le organizzazioni e i partiti democratici le cose potrebbero peggiorare, costringendoli anche alla clandestinità. Ma non perdono le speranze.“ Il cambiamento non verrà mai dall’alto, ma solo dalla resistenza della nostra gente. La consapevolezza politica sta aumentando, la gente non si fa più fregare, lo vediamo ogni giorno

” Lavorano per unirsi e per dare agli afghani gli strumenti per decidere il proprio destino. Se non sarà per questa generazione, sarà per la prossima.

Per le strade di Kabul, in ogni angolo della città, si sente una musichetta incessante e ossessiva. E’ il richiamo dei gelatai, con i loro carrettini rossi, 10 afghani al pezzo. E’ la nota canzoncina: ‘Tanti auguri a te”. Ogni afghano, di questi tempi, ne ha davvero bisogno.

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